Duecento anni fa nasceva uno dei protagonisti dell'unificazione italiana nel Risorgimento
Insospettabile gaudente, amava il buon vino, il cibo e le belle donne ma è stato soprattutto uno statista geniale e il miglior presidente del Consiglio che il nostro Paese abbia mai avuto nella sua storia
Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861) nel ritratto realizzato da Francesco Hayez
Torino 1823; godendosi uno dei rari momenti di svago loro concessi, gli allievi dell'Accademia militare mettono in scena la pièce teatrale I poeti ai Campi Elisi.
La parte del Genio d'Italia è affidata ad un giovanissimo cadetto che, appeso ad una fune, scende dall'alto in costume da puttino alato declamando le future grandezze e la gloria della patria. Quando si dice il destino; a quel ragazzetto di cui ricorre oggi il duecentesimo anniversario della nascita, proprio a lui, sarebbe toccato in sorte di divenire il principale artefice dell'unità nazionale e tenere a battesimo l'Italia. Il suo nome era Camillo, Camillo Benso, conte di Cavour.
EREDITÀ PERDUTA. Della trinità patriottica che unisce idealmente i padri della nostra nazione (in realtà, com'è noto, i loro rapporti furono assai poco idilliaci) la sorte meno felice è toccata senza dubbio a Cavour. Se infatti Mazzini sopravvive nella forma repubblicana dello Stato e Garibaldi nell'inossidabile fascino del più popolare tra gli eroi del Risorgimento, l'Italia moderna, con l'estinguersi del liberalismo e il suicidio della monarchia, non ha rappresentato l'ambiente più propizio per coltivare la memoria del liberale e sabaudo Cavour, personaggio tra l'altro che per la scarsa spettacolarità della sua infaticabile azione politico-diplomatica manca totalmente di quei tratti seduttivi tanto graditi all'immaginario collettivo.
Peccato, perché a voler andare oltre l'apparente grigiore di quella pingue ed occhialuta figura dall'improponibile barbetta ci si rende conto di come la vita e le opere del conte siano uno scrigno ricolmo di straordinari ed attualissimi spunti d'interesse.
«GALLO DA COMBATTIMENTO». C'è, sconosciuto ai più, l'uomo Cavour: carattere orgoglioso, insofferente alla disciplina, dotato di innata attitudine al comando, pronto ad accendersi in terribili sfuriate (memorabili e senza freni i litigi, rigorosamente in dialetto, con Vittorio Emanuele II) ma altrettanto pronto a superarle senza inutili rancori.
Intelletto vivacissimo versato alle scienze matematiche e agli studi socioeconomici, spirito innovatore affamato di modernità, talento imprenditoriale e finanziario così brillante da meritarsi l'appellativo di «gallo da combattimento» attribuitogli dal banchiere Rothschild; oratore dallo stile incisivo ed antiretorico ma in perenne ansia per il corretto uso di una lingua italiana che, da bravo nobile piemontese, non padroneggiava bene quanto il francese.
Insospettabile gaudente innamorato del buon vino, della buona tavola («Ebbene, signori, ora che abbiamo fatto la Storia, sarà pur ora che andiamo a pranzo!» esclamò dopo aver rifiutato l'ultimatum austriaco il 26 aprile 1859) e delle belle donne, finite in gran numero tra le sue braccia pur senza ricevere alcun ministero in cambio.
STATISTA GENIALE. Ma c'è anche e soprattutto il Cavour politico, uno statista geniale la cui levatura, osservata dalle mefitiche paludi del nostro oggi, appare a dir poco incommensurabile. Democratizzazione e svecchiamento delle istituzioni, centralità del Parlamento, capacità di interpretare la società e di identificare il flusso delle sue forze vive scavalcando il contrapporsi di vuoti schematismi ideologici, dinamismo economico, «libera Chiesa in libero Stato» ovvero, impresa finora incompiuta, la conquista di una piena laicità senza il penoso timore di anatemi vaticani: queste le parole d'ordine di un liberale vero e dall'onore immacolato che, pur non privo della scaltrezza e del cinismo propri di ogni grande leader, visse la politica solo ed esclusivamente come servizio, come naturale prosecuzione del proprio essere nella società, avendo la bussola del suo operato sempre fissa sulla crescita economica e civile della nazione, mai sul proprio interessato tornaconto.
LA COSTRUZIONE DELL'ITALIA. E poi l'Italia, naturalmente, quell'Italia che Cavour seppe costruire in anni di costante e paziente tessitura gestendo in prima persona un mostruoso intreccio di interessi diplomatici, contrapposti patriottismi, personalismi e campanilismi senza mai risparmiarsi né sottrarsi a frenetici ritmi di lavoro che gli sarebbero costati la vita ad appena cinquant'anni.
Sulla tecnica di questo fare l'Italia il giudizio più azzeccato l'aveva dato Alessandro Manzoni: «Lei, conte, ha le due qualità che servono all'uomo politico, la prudenza e l'imprudenza». Ed è appunto dosando queste qualità che Cavour saprà manovrare operando una sintesi virtuosa tra la fede nel destino unitario della nazione e il pragmatismo di una Realpolitik che doveva tener conto di delicatissimi equilibri internazionali, uno su tutti la protezione garantita dalla Francia al papato.
VERO POLITICO DEL «FARE». Questo pragmatismo è stato erroneamente scambiato per freddezza verso gli ideali patriottici così bene incarnati da Mazzini e Garibaldi; nulla di più lontano dalla verità.
Lo dimostrano lo slancio con cui Cavour gestì l'accelerazione degli eventi tra il '59 e il '61 ampliando di volta in volta gli obiettivi forzatamente limitati che aveva dovuto darsi in un primo tempo e la volontà di ricongiungere quanto prima al corpo dalla nazione Roma e le Venezie. Lo dimostrano le parole scritte nel 1848, quando di fronte ai timori di Carlo Alberto che esitava a correre in aiuto degli insorti milanesi Cavour, annunciando il suonare dell'«ora suprema della monarchia sarda», invocava la «guerra immediata senza indugi» per la vittoria della «causa italiana». E ancor più lo dimostrano le parole pronunciate alla vigilia della seconda guerra d'Indipendenza al termine di una storica seduta parlamentare: «Esco dalla tornata dell'ultima Camera piemontese; la prossima sarà quella del Regno d'Italia».
IL MIGLIOR CAPO DEL GOVERNO. Rievocare Cavour senza sentirne la mancanza è difficile, non c'è che dire, e questa nostalgia si fa ancora più forte nel constatare come il migliore presidente del consiglio della storia d'Italia, disgraziatamente, sia stato in carica solo per pochi mesi e tanti, troppi anni fa. Noi, nella speranza che possa ancora guardare con affettuosa indulgenza alla sua bella e sfortunata creatura, gli facciamo tanti auguri di buon duecentesimo compleanno.
Stefano Biguzzi
da www.ilgiornaledivicenza.it
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