L’IDEA DELLA POLITICA CHE MANCA ALL’ITALIA
Sarebbe per primo Cavour—di cui oggi ricorre il duecentesimo anniversario della nascita — a non gradire di essere ricordato con elogi di maniera, con inutili apologie. A suo merito parlano a sufficienza i nudi fatti—naturalmente per chi pensa che sia un bene che esista un’Italia unita dalle Alpi alla Sicilia—essendo egli per l’appunto stato, di quest’Italia, l’artefice non unico ma certo massimo. Eppure in Italia Cavour non è per nulla popolare. Se è così (e lo testimonia la generale indifferenza che circonda l’odierno anniversario), ecco allora un modo forse appropriato per ricordare il Gran Conte e la sua opera: chiedersene il perché. Farlo fa probabilmente capire anche molte cose di che Paese siamo.
La scarsa popolarità di Cavour è innanzitutto l’esito naturale della scarsa conoscenza- popolarità che da noi ha il Risorgimento, cioè quella parte della nostra storia che riguarda la nascita della nazione. Basti pensare che negli ultimi trent’anni, e fino a pochissimo tempo fa, nei manuali scolastici non gli veniva assegnato nessun rilievo particolare, e che sono almeno altrettanti anni che a nessun regista italiano viene in mente di girare un film serio su quel periodo (del resto su Cavour, che io sappia, non ne è mai stato girato nessuno). Tutto ciò è d’altra parte più che naturale se si pensa che in pratica tutte le culture politiche dell’Italia del Novecento (dal fascismo all’azionismo, dal cattolicesimo al socialismo, al comunismo gramsciano, e fino al leghismo) sono nate da una critica più o meno radicale al Risorgimento, e in particolare proprio alla soluzione cavourriana di esso, sprezzantemente definita «moderata». Perpetuando l’equivoca confusione tra liberalismo e moderatismo che continua a pesare come un macigno sulla nostra vita pubblica. Si aggiunga la dissociazione da ogni dovere collettivo e il disprezzo qualunquistico- anarcoide verso lo Stato in quanto tale che nutre tanta parte del Paese, comprese le sue classi elevate. In misura significativa l’impopolarità di Cavour non è altro che l’impopolarità presso tanti italiani dello Stato italiano.
Ed è poi l’impopolarità della politica. O meglio: la radicale incomprensione — in Italia diffusissima — di che cosa essa sia, non possa non essere, e che l’azione di Cavour incarnò come poche altre. È incomprensione per l’intreccio di elementi nobili e poco nobili, di idealità alte e strumenti bassi, in cui la politica consiste; per la combinazione di dissimulazione e di coerenza, di ambizione personale e di devozione ad una causa, di opportunismo contingente e lungimiranza, che contraddistingue la politica; incomprensione infine per la drammatica serietà che deve esserci in chi si assume il peso di dominare la complessità, sempre difficile e spesso contraddittoria, di questo intreccio. Proprio ciò Cavour seppe fare in modo incomparabile. Ma proprio per questo egli non piace. Perché la sua azione non rientra nelle due categorie con le quali, invece, la più parte dei suoi connazionali è abituata a pensare alla politica: quella del vuoto moralismo da un lato, ovvero quella della scaltrezza da magliari dall’altro. Unite entrambe da un’invincibile propensione alla faziosità. Non basta.
Nell’impopolarità di Cavour c’è anche il peso ininterrotto delle interne divisioni della Penisola. C’è in generale il pregiudizio antinordista di una parte considerevole d’Italia e, in particolare, c’è l’«antipiemontesismo»: l’incomprensione— mischiata ai ricordi di un’unificazione vissuta da più parti come annessione —per certi tratti costitutivi dell’animo e della cultura del Piemonte percepiti come troppo diversi dal carattere nazionale. Il rifiuto della retorica e della presunzione di sé, l’obbedienza alle regole, un radicato senso del dovere, la tenacia, un certo abito pessimistico: tutti questi tratti della mentalità subalpina finiscono paradossalmente per riverberare una luce negativa sul grande primo ministro (che accanto ad alcuni di quei tratti in realtà ne aveva anche altri, assai diversi, a cominciare da una joie de vivre molto libertino-borghese), ratificando il suo destino di straniero in patria. Di italiano da 150 anni in qua eternamente inattuale.
Ma proprio perciò attualissimo. La consapevolezza della nostra storia, il senso della cosa pubblica, un’idea alta ma vera e realistica della politica, la rimessa in vigore di certe virtù civiche: non è forse di queste cose che nell’accavallarsi disordinato delle lotte dei partiti, dello scontro di tutti con tutti, ha bisogno oggi più che mai il Paese? Non ha forse bisogno l’Italia di ritrovare il senso originario della sua esistenza come Stato libero e moderno? Lo so bene: invocare un ritorno a Cavour suona solo patetico, prima ancora che vano. Almeno sia consentito, però, sentirne fino in fondo una disperata nostalgia e ripeterne con gratitudine il nome per trasmetterlo a chi in futuro si dirà ancora italiano.
Ernesto Galli della Loggia
10 agosto 2010
da www.corriere.it
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