La
catastrofe dell'8 settembre è una catastrofe militare determinata in un
organismo già così debole come il nostro esercito, dal fatale ma inevitabile e
improrogabile annuncio dell'armistizio. L'armistizio significò per ciascun
soldato la fine della guerra. Via il fucile, via i panni della divisa, via
dalle caserme, si ritorna a casa. Ecco il significato che ogni soldato si
affrettò a dare all'armistizio. V'era sì, l'avvertimento finale a fronteggiare
le aggressioni dell'altra parte, ma nella beata innocenza di quell'estate molti
pensavano che anche i tedeschi erano stanchi e se ne sarebbero andati. E
infatti molti tedeschi erano stanchi, ma non quanto noi e quando ebbero ordine
di marciare lo fecero con l'innata ferocia e con l'antico addestramento ai più
vili inganni.
Ecco come in un libro recente uno dei nostri
scrittori più pensosi e più sensibili descrive nel suo diario, dal suo angolo
di provincia, la dissoluzione dell'esercito (1): Domenica 12 settembre: «Non
faccio che parlare con militari. Tutti la stessa storia: armi abbandonate,
accampamenti e caserme abbandonate; spesso con centinaia di uomini dentro,
davanti all'ingiunzione di un esiguo numero di tedeschi. Ho incontrato stasera
una frotta di granatieri per il paese: sbandati, senza armi, con sacchi e
valigie " borghesi " sulle spalle, schiamazzanti. Mi son voltato
dall'altra parte per non vedere. Il nostro esercito si è dissolto come nebbia
al sole». Il nostro autore non conosceva, quando scriveva, gli esempi di meraviglioso valore di alcuni reparti della difesa di
Roma, ma essi furono purtroppo un'eccezione.
La cronaca di quei giorni è assai nota per
pubblicazioni numerose; alcune concordi, altre aspramente polemiche. Ma la
polemica verte sulle singole responsabilità, non sul corso generale degli
avvenimenti. Ora la polemica si concentra su Roma, sulla responsabilità del generale
Carboni o del gen. Roatta; sulla opportunità di difendere la capitale e sulla
fallita missione, nella notte tra il sette e l'otto settembre, del generale
Taylor. I più si domandano ancora: «Perché e come non fu diffuso il predisposto
ordine op. 44 contro i tedeschi o perché fu trasmesso solo l'8
settembre?». La relazione ufficiale sugli avvenimenti non è stata pubblicata;
ma in realtà tutti concordano nell'affermare che l'Esercito si dissolse come
nebbia al sole, Questo non deve meravigliare. È avvenuto lo stesso fenomeno in
Francia e in Jugoslavia dinnanzi all'urto tedesco e si trattava di eserciti
freschi e bene armati. Il nostro Comando Superiore aveva compiuto il massimo
sforzo attorno a Roma. E qui, infatti, una resistenza fu abbozzata e fu
compiuta per due giorni. Invece, l'armata Vercellino in Francia si sciolse
senza sparare un colpo e in Jugoslavia, nel Montenegro e in Grecia avvenne,
presso a poco, pur con qualche lodevole eccezione, lo stesso fenomeno. Vi fu
l'azione eroica di Cefalonia e combattimenti onorevoli nelle isole del Dodecanneso
e in Jugoslavia, ma nulla più. I partiti della coalizione battono invece, sulla
difesa, di Roma perché vogliono colpire in alto: vogliono infamare lo Stato Maggiore
e speculare sulla… fuga a Pescara. E questa è una ben triste speculazione. Il
Capo del Governo era, alla data dell'otto settembre, il più autorevole dei
nostri marescialli, non paragonabile certo ai Graziani e ai Cavallero.
L'Alto Comando dell'Esercito credeva in lui e godeva della sua fiducia,
Per giudicare della poca serenità con cui
viene condotta tutta la polemica ricorderemo quel che scriveva il
generale Carboni quando non ancora bollato dalla Commissione d'inchiesta non
aveva in animo di divenire una colonna dell'esercito repubblicano: (2)
«Una propaganda insistente e subdola, di probabile
origine antinazionale ha diffuso ed
alimenta la leggenda che, dopo
l'armistizio dell'otto settembre, il corpo d'armata motocorazzato avesse il compito e la possibilità di difendere Roma da un attacco tedesco
sferrato da terra e dall'aria.
Questa propaganda snaturando grossolanamente fatti e dati, noti nelle loro
linee esatte soltanto in un ristrettissimo ambiente, tende a screditare determinate
istituzioni o persone o episodi, allo scopo di aggravare le condizioni
generali di angoscia, di scetticismo e di smarrimento morale del
momento. È quindi bene precisare obiettivamente in quanto possibile e lecito la
genesi e il decorso di alcuni avvenimenti. Né il Comando Supremo, né il Governo
italiano, retto da un maresciallo, avrebbero mai potuto concepire l'assurdo
piano di difendere una città grande quanto Roma e come Roma esposta all'offesa
aerea, con un semplice corpo motocorazzato. Una difesa contro i tedeschi così
puerilmente concepita avrebbe condannato alla rapidissima ed irrimediabile distruzione
Roma, la sua popolazione, il suo patrimonio artistico travolgendo anche la
Santa Sede nella rovina della città senza che da così tragici danni, sia pure
considerati nel quadro delle dure necessità di guerra, potesse derivare qualche
vantaggio al paese e alla nuova politica nella quale esso era avviato».
Questo era, dopo l'otto settembre, il pensiero del generale
Carboni, prima che su di lui si pronunciasse tanto duramente e meritamente il
giudizio dell'opinione pubblica e della Commissione
ministeriale d'inchiesta. In un libello successivo (3) quando questo disinvolto
generale diviene collaboratore della Voce Repubblicana la sua prosa
trova espressioni infuocate contro «le persone che fuggirono a Pescara»,
Noi
pensiamo che Roma si poteva e si doveva difendere e il giuoco valeva certo la
candela. Per questo attorno a Roma erano state concentrate le nostre forze più
efficienti.
Non vi è
dubbio che sino alla mezzanotte del giorno otto l'Alto Comando pensò di
difenderla. Ma per questo e per affrontare i gravi danni che sarebbero stati inferti
alla città, ai suoi monumenti e alla sua popolazione, l'Alto Comandò pensava
evidentemente che dovessero realizzarsi alcune ipotesi. Si sperava infatti che
l'armistizio sarebbe stato annunciato tra il giorno 12 e il giorno 16, secondo
aveva fatto sperare il gen. Castellano. Si attendevano in quei giorni altre
due divisioni che erano in corso di trasferimento. Purtroppo nella notte
precedente il gen. Carboni aveva sconsigliato la immediata discesa negli
aeroporti per partecipare alla battaglia di Roma di una divisione
aviotrasportata americana del generale Taylor. Il maresciallo Badoglio aveva
motivo di pensare che il generale Eisenhower rinviasse di qualche giorno
l'annuncio dell'armistizio e che gli fosse, così, consentito di portare a
termine le misure predisposte.
Gli angloamericani non mandarono la
divisione, non solo, ma non rinviarono neppure di un minuto il predetto
annuncio, né mandarono i promessi cento pezzi di artiglieria sulla spiaggia di
Ostia, né fecero sbarcare le quindici divisioni fatte intravedere a Castellano,
ma solo quattro che stavano, per essere ricacciate in mare dalla spiaggia di Salerno; né fecero sbarchi
contemporanei nell'Adriatico e a nord di Roma. Avevano promesso a Castellano un
contributo sostanziale e sufficiente alla azione italiana; non mandarono
neppure un aereo a colpire le forze corazzate tedesche che scendevano dalla via
Aurelia su Roma. Quando quelle forze sfilarono il giorno 10 o 11 in Roma
conquistata per proseguire verso la battaglia della Campania tutti compresero
che la difesa di Roma avrebbe potuto dar luogo a qualche bell'episodio di
valore, ma sarebbe stata fatalmente perduta dalle truppe italiane.
Questa
interpretazione degli avvenimenti si è fatta già strada nell'opinione
anglosassone. Lo stesso generale Smith in una lettera al gen. Castellano pur
lamentando la mancata decisione del Carboni (i) ha confessato la mancata
coordinazione tra l'azione alleata e quella italiana. Gli alleati avevano
fissato i loro piani e per nulla al mondo intendevano modificarli. L'Italia non
doveva fare altro che dire sì o no. Quando, nel presentarsi per la
seconda volta a loro, il gen. Castellano precisò che egli intendeva parlare
della collaborazione militare e non della resa, gli fu risposto che egli faceva
un monkey wrench (uno sgambetto da scimmia).
Il
giornalista David Brown della Reuter per quanto assai poco benevolo
verso di noi, riconosce che il Comando di Eisenhower lanciò una psychological
offensive un gigantic bluff (2): «Gli italiani non si resero conto
quanto fosse imminente l'invasione: le magre forze con cui gli alleati fecero
lo sbarco li avrebbero atterriti se le avessero conosciute prima... Il gen.
Eisenhower fece un bluff gigantesco che riuscì perfettamente.
1)
Bonaventura Tecchi: Un'estate in campagna. Sanami. Firenze, pag. 66.
2) Generale Giacomo Carboni: Agguato a Roma, pag. 27
Documenta n. 1.
3) Generale Giacomo Carboni: L'armistizio e la difesa di
Roma. Universale De Luigi, Roma, 1945.
4) Vedi Giuseppe Castellano: Come firmai l'armistizio di Cassi
bile. Mondadori. Milano, 1945.
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