NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 29 aprile 2020

Io difendo la Monarchia Cap IX - 4


La catastrofe dell'8 settembre è una catastrofe militare determinata in un organismo già così debole come il nostro esercito, dal fatale ma inevitabile e improrogabile annuncio dell'armistizio. L'armistizio significò per ciascun soldato la fine della guerra. Via il fucile, via i panni della divisa, via dalle caserme, si ritorna a casa. Ecco il significato che ogni soldato si affrettò a dare all'armistizio. V'era sì, l'avvertimento finale a fronteggiare le aggressioni dell'altra parte, ma nella beata innocenza di quell'estate molti pensavano che anche i tedeschi erano stanchi e se ne sarebbero andati. E infatti molti tedeschi erano stanchi, ma non quanto noi e quando ebbero ordine di marciare lo fecero con l'innata ferocia e con l'antico addestramento ai più vili inganni.
Ecco come in un libro recente uno dei nostri scrittori più pensosi e più sensibili descrive nel suo diario, dal suo angolo di provincia, la dissoluzione dell'esercito (1): Domenica 12 settembre: «Non faccio che parlare con militari. Tutti la stessa storia: armi abbandonate, accampamenti e caserme abbandonate; spesso con centinaia di uomini dentro, davanti all'ingiunzione di un esiguo numero di tedeschi. Ho incontrato stasera una frotta di granatieri per il paese: sbandati, senza armi, con sacchi e valigie " borghesi " sulle spalle, schiamazzanti. Mi son voltato dall'altra parte per non vedere. Il nostro esercito si è dissolto come nebbia al sole». Il nostro autore non conosceva, quando scriveva, gli esempi di meraviglioso valore di alcuni reparti della difesa di Roma, ma essi furono purtroppo un'eccezione.
La cronaca di quei giorni è assai nota per pubblica­zioni numerose; alcune concordi, altre aspramente pole­miche. Ma la polemica verte sulle singole responsabilità, non sul corso generale degli avvenimenti. Ora la pole­mica si concentra su Roma, sulla responsabilità del ge­nerale Carboni o del gen. Roatta; sulla opportunità di difendere la capitale e sulla fallita missione, nella notte tra il sette e l'otto settembre, del generale Taylor. I più si domandano ancora: «Perché e come non fu diffuso il predisposto ordine op. 44 contro i tedeschi o perché fu trasmesso solo l'8 settembre?». La relazione ufficiale sugli avvenimenti non è stata pubblicata; ma in realtà tutti concordano nell'affermare che l'Esercito si dissolse come nebbia al sole, Questo non deve meravigliare. È avvenuto lo stesso fenomeno in Francia e in Jugoslavia dinnanzi all'urto tedesco e si trattava di eserciti freschi e bene armati. Il nostro Comando Superiore aveva compiuto il massimo sforzo attorno a Roma. E qui, infatti, una resistenza fu abbozzata e fu compiuta per due giorni. Invece, l'armata Vercellino in Francia si sciolse senza sparare un colpo e in Jugoslavia, nel Montenegro e in Grecia avvenne, presso a poco, pur con qualche lodevole eccezione, lo stesso fenomeno. Vi fu l'azione eroica di Cefalonia e combattimenti onorevoli nelle isole del Dodecanneso e in Jugoslavia, ma nulla più. I partiti della coalizione battono invece, sulla difesa, di Roma perché vogliono colpire in alto: vogliono infamare lo Stato Mag­giore e speculare sulla… fuga a Pescara. E questa è una ben triste speculazione. Il Capo del Governo era, alla data dell'otto settembre, il più autorevole dei nostri ma­rescialli, non paragonabile certo ai Graziani e ai Cavallero. L'Alto Comando dell'Esercito credeva in lui e godeva della sua fiducia,
Per giudicare della poca serenità con cui viene con­dotta tutta la polemica ricorderemo quel che scriveva il generale Carboni quando non ancora bollato dalla Com­missione d'inchiesta non aveva in animo di divenire una colonna dell'esercito repubblicano: (2)
«Una propaganda insistente e subdola, di probabile origine antinazionale ha diffuso ed alimenta la leggenda che, dopo l'armistizio dell'otto settembre, il corpo d'armata motocorazzato avesse il compito e la possibilità di difendere Roma da un attacco tedesco sferrato da terra e dall'aria. Questa propaganda snaturando grossolana­mente fatti e dati, noti nelle loro linee esatte soltanto in un ristrettissimo ambiente, tende a screditare determi­nate istituzioni o persone o episodi, allo scopo di ag­gravare le condizioni generali di angoscia, di scetticismo e di smarrimento morale del momento. È quindi bene precisare obiettivamente in quanto possibile e lecito la genesi e il decorso di alcuni avvenimenti. Né il Comando Supremo, né il Governo italiano, retto da un maresciallo, avrebbero mai potuto concepire l'assurdo piano di difen­dere una città grande quanto Roma e come Roma esposta all'offesa aerea, con un semplice corpo motocorazzato. Una difesa contro i tedeschi così puerilmente concepita avrebbe condannato alla rapidissima ed irrimediabile distruzione Roma, la sua popolazione, il suo patrimonio artistico travolgendo anche la Santa Sede nella rovina della città senza che da così tragici danni, sia pure considerati nel quadro delle dure necessità di guerra, potesse derivare qualche vantaggio al paese e alla nuova poli­tica nella quale esso era avviato».
Questo era, dopo l'otto settembre, il pensiero del ge­nerale Carboni, prima che su di lui si pronunciasse tanto duramente e meritamente il giudizio dell'opinione pubblica e della Commissione ministeriale d'inchiesta. In un libello successivo (3) quando questo disinvolto generale diviene collaboratore della Voce Repubblicana la sua prosa trova espressioni infuocate contro «le persone che fuggirono a Pescara»,
Noi pensiamo che Roma si poteva e si doveva difen­dere e il giuoco valeva certo la candela. Per questo at­torno a Roma erano state concentrate le nostre forze più efficienti.
Non vi è dubbio che sino alla mezzanotte del giorno otto l'Alto Comando pensò di difenderla. Ma per questo e per affrontare i gravi danni che sarebbero stati inferti alla città, ai suoi monumenti e alla sua popolazione, l'Alto Comandò pensava evidentemente che dovessero realizzarsi alcune ipotesi. Si sperava infatti che l'armistizio sarebbe stato annunciato tra il giorno 12 e il giorno 16, secondo aveva fatto sperare il gen. Castel­lano. Si attendevano in quei giorni altre due divisioni che erano in corso di trasferimento. Purtroppo nella notte precedente il gen. Carboni aveva sconsigliato la immediata discesa negli aeroporti per partecipare alla battaglia di Roma di una divisione aviotrasportata ame­ricana del generale Taylor. Il maresciallo Badoglio ave­va motivo di pensare che il generale Eisenhower rin­viasse di qualche giorno l'annuncio dell'armistizio e che gli fosse, così, consentito di portare a termine le misure predisposte.
Gli angloamericani non mandarono la divisione, non solo, ma non rinviarono neppure di un minuto il pre­detto annuncio, né mandarono i promessi cento pezzi di artiglieria sulla spiaggia di Ostia, né fecero sbarcare le quindici divisioni fatte intravedere a Castellano, ma solo quattro che stavano, per essere ricacciate in mare dalla spiaggia di Salerno; né fecero sbarchi contemporanei nell'Adriatico e a nord di Roma. Avevano promesso a Castellano un contributo sostanziale e sufficiente alla azione italiana; non mandarono neppure un aereo a colpire le forze corazzate tedesche che scendevano dalla via Aurelia su Roma. Quando quelle forze sfilarono il giorno 10 o 11 in Roma conquistata per proseguire verso la battaglia della Campania tutti compresero che la difesa di Roma avrebbe potuto dar luogo a qualche bell'episodio di valore, ma sarebbe stata fatalmente perduta dalle truppe italiane.
Questa interpretazione degli avvenimenti si è fatta già strada nell'opinione anglosassone. Lo stesso generale Smith in una lettera al gen. Castellano pur lamentando la mancata decisione del Carboni (i) ha confessato la mancata coordinazione tra l'azione alleata e quella italiana. Gli alleati avevano fissato i loro piani e per nulla al mondo intendevano modificarli. L'Italia non doveva fare altro che dire sì o no. Quando, nel presentarsi per la seconda volta a loro, il gen. Castellano precisò che egli intendeva parlare della collaborazione militare e non della resa, gli fu risposto che egli faceva un monkey wrench (uno sgambetto da scimmia).
Il giornalista David Brown della Reuter per quanto assai poco benevolo verso di noi, riconosce che il Co­mando di Eisenhower lanciò una psychological offen­sive un gigantic bluff (2): «Gli italiani non si resero conto quanto fosse imminente l'invasione: le magre forze con cui gli alleati fecero lo sbarco li avrebbero atterriti se le avessero conosciute prima... Il gen. Eisenhower fece un bluff gigantesco che riuscì perfettamente.

1) Bonaventura Tecchi: Un'estate in campagna. Sanami. Firenze, pag. 66.
2) Generale Giacomo Carboni: Agguato a Roma, pag. 27 Documenta n. 1.
3) Generale Giacomo Carboni: L'armistizio e la difesa di Roma. Universale De Luigi, Roma, 1945.
4) Vedi Giuseppe Castellano: Come firmai l'armistizio di Cassi bile. Mondadori. Milano, 1945.

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