Molti si domandano se l'“Europa” sopravvivrà
alla crisi attuale. Ce la farà di sicuro, perché è un guazzabuglio di poteri e
di norme, capaci di adattarsi a qualsiasi catastrofe. È indistruttibile perché
nebulosa, evanescente, lontanissima da responsabilità oggettive e quindi
invulnerabile. A crollare sono gli Imperi, gli Stati, i regimi politici. Ma
l'Europa non è nulla di tutto ciò. È come il ponte di Aulla, metafora di tante
“istituzioni”. Si affloscia ma è sempre lì: una congerie di materiali. Non
svolge più la funzione originaria, ma è persino più seducente di prima. Appena
ne avranno la possibilità (ma chissà quando, col vento che tira) le moltitudini
andranno a fotografarlo, come fecero con “Costa Concordia” adagiata su un
fianco all'isola del Giglio.
Un'aula di ieri. Alessandria Museo etnografico |
L'Unione Europea non ha né le fattezze né la
consistenza di un Impero o di uno Stato, monarchico o repubblicano che lo si
voglia. Non ha potere decisorio sui suoi membri, non ha politica estera
univoca, né difesa comune. Perciò non le si può chiedere di essere quel che non
è, né di agire al di là dei vincoli che si è data da quando, 65 anni orsono,
scartò la via maestra, farsi Stato, e imboccò il viottolo degli “affari” e
della conseguente voracissima elefantiasi burocratica. Questa Unione Europea è
il punto di arrivo di una lunga serie di finzioni travestite da funzioni.
“Scoprirlo” adesso può essere comodo per sviare l'attenzione dalla realtà, ma
non cambia i fatti. Non si cava il sangue da una rapa. Per comprenderlo basta
rileggere il farraginoso Trattato di Lisbona, varato in una terra che ama il
riso condito con sangue crudo di pollo, innaffiato da vino più acidulo che
aspro. Lì l'UE stabilì che non ha radici greco-latine o ebraico-cristiane ma
genericamente “umanistiche”. Cioè?
L'Europa (da dove a dove? dall'Atlantico agli
Urali come proponeva, inascoltato, Charles De Gaulle? o solo fino alla Polonia,
con recisione della terra di Tolstoj, Erenburg, Pasternak...) per ora rimane
un'“espressione geografica”.
Le prime pulsioni verso vaghe forme di
federazione europea risalgono all'inizio del Novecento. La principale vetrina
della possibile unione del Vecchio Continente
fu l'Esposizione di Parigi del 1900, assise mondiale delle scienze e dei buoni
sentimenti. Subito dopo, il sociologo Giacomo Novicow propose la Federazione
europea, antemurale contro l'altrimenti inevitabile guerra fra Stati, che poi
durò trent'anni, dal 1914 al 1945. Durante la sua prima fase (1914-1918:
quindici milioni morti solo in Europa, va ricordato a chi oggi, riferendosi all’emergenza da coronavirus, parla di
“guerra”) alcuni lungimiranti, come Luigi Einaudi, Attilio Cabiati e Giovanni
Agnelli proposero una Federazione europea. Inascoltati. La gara sitibonda di
profitti e di sangue, alimentata da odio sociale, razziale e ideologico riprese
nel 1939-1945. Fra l'uno e l'altro macello la Società delle Nazioni accampata a
Ginevra rimase misera spettatrice. In quell'intervallo il conte Coudenhove
Kalergi propose invano la Pan-Europa, visione ammodernata e corretta degli
Imperi: Romano e Carolingio (dopo la “debellatio” del Sacro romano impero da
parte di Napoleone I, quello degli Asburgo d'Austria stette ai precedenti come
un bonsai sta a una sequoia).
Durante la seconda fase della guerra dei
Trent'anni vennero proposti alcuni progetti di Unione. Spiccano, fra i molti,
il “Manifesto per un'Europa libera e unita” di Altiero Spinelli ed Ernesto
Rossi, scritto al confino politico a Ventotene (1941) e la Carta di Chivasso
(19 dicembre 1943), mirante a conciliare Stato e autonomie locali. Non per caso
a inizio Anni Novanta l'istituto magistrale di quella città venne intitolato
“Europa unita”: un'idea forte, che fa dell'Europa il soggetto, non un semplice
aggettivo come è invece “Unione Europea” (assonante con la non efficientissima
Unione Africana). Bisognava ripensare la sovranità di ogni Paese nei suoi
rapporti con gli altri Stati e anche al suo interno in nome della più matura
libertà dei cittadini. Va riletto “Federalismo, autonomie locali, autogoverno”
di Giorgio Peyronel (maggio 1944), militante del Partito d'azione, unico
movimento nettamente federalista ed europeista, come il socialista profetico
Ignazio Silone. In quella temperie, nel 1944 Luigi Einaudi scrisse “Via il
prefetto!”, contro l'incubo dello Stato accentratore, rivelatosi tiranno,
liberticida e inetto malgrado le rodomontate degli “otto milioni di baionette”.
Per l'Europa il cammino seguente fu irto di
sassi e di spini. Dalla guerra essa uscì nel maggio 1945; il Giappone in
agosto, dopo le due bombe atomiche sganciate dagli Stati Uniti. L'Europa visse
lo strascico di guerre civili all'interno dei singoli Paesi (per numero di
morti e di odio sprigionato nel “regolamento di conti” quella italiana fu di
gran lunga superata dallo sterminio dei “collaborazionisti” perpetrato in
Francia), nuove divisioni muro contro muro, reviviscenza di separatismi armati
all'interno dei singoli Paesi. Oggi dimenticato, l'Esercito Volontari per
l'Indipendenza della Sicilia (EVIS) rimane una lugubre pagina della nostra
storia.
Dinnanzi alla minacciosa contrapposizione tra
Stati Uniti d'America e Unione Sovietica, nell'Europa occidentale, rinascente
anche grazie al celebre e molto interessato Piano Marshall, alcuni Paesi
avviarono le prime forme di collaborazione interstatuale, come l'Organizzazione
Europea di Cooperazione Economica (OECE). L'anno di svolta fu il 1949: 71 anni
fa. A Ovest fu varato il Trattato Nord-Atlantico di difesa (NATO). Mosca fece
esplodere la sua prima bomba atomica. Iniziò l'equilibrio del terrore. I
partiti di sinistra (in Italia erano il PCI e a lungo il Partito socialista,
ancora uniti nel fronte popolare) avversarono qualunque vera alleanza politica
europea e, sulla sua scia, economica: una pregiudiziale che durò anche dopo la
sanguinosa repressione dell'insurrezione in Ungheria (1956) e in Cecoslovacchia
(1968). I comunisti liquidavano gli “europeisti” (Mario Albertini, Mario
Zagari, Giuseppe Petrilli...) come utopisti da strapazzo e servi sciocchi del
capitalismo. Ai progetti di federazione europea timidamente coltivati da
Schumann, De Gasperi e Adenauer, nell'età del bipolarismo vennero contrapposti,
quale forza d’interdizione, i Paesi “neutrali”, comprendenti persino la
Jugoslavia del sanguinario Tito, che non è certo un campione dei diritti umani.
L'Europa morì in fasce col fallimento della CED
L'“Europa” morì nel 1954. Nel 1951 fu istituita
a Parigi la Comunità europea del carbone e dell'acciaio. L'anno seguente venne
proclamata la Comunità Europea di Difesa (CED), che in Italia ebbe il sostegno
convinto di Ferruccio Parri e di Giuseppe Romita. L'alternativa alla CED
sarebbe stata l'alleanza USA-Germania. Nel 1953 fu elaborato lo statuto della
Comunità Politica Europea: il traguardo sembrava a portata di mano, ma nel 1954
il Parlamento francese, in un raptus di neo-nazionalismo (condiviso dalle
“destre” di altri Paesi, Italia inclusa) respinse il Trattato costitutivo. Così
gli Stati Uniti d'Europa morirono in fasce. La possibile Federazione non si è
più riavuta. Il suo sudario avvolse però anche quel
che restava degli imperi coloniali. In quello stesso anno la Francia si
prese la legnata in Vietnam. Poi affondò nel sangue dell'insurrezione
dell'Algeria che le costò la guerra civile scatenata dall'OAS e il ritorno di
De Gaulle. La Gran Bretagna ripiegò passo dopo passo, dal Kenia alla Rhodesia.
Ritirandosi dal Sud Africa lasciò in eredità l'apartheid. L'Olanda dismise il
suo dovizioso impero. Infine il misero Belgio scomparve dal Congo... In pezzi,
l'Europa mostrò il suo ritardo nei confronti della Storia. I paesi più
retrogradi, come il Portogallo, furono gli ultimi a lasciare le loro colonie,
da Diu, Goa e Damao in India sino ad Angola e Mozambico in Africa.
La pur lungimirante Conferenza di
Messina (1955), i Trattati di Roma (1957), con cui l’Europa dei “sei” (Italia,
Francia, Germania federale e Benelux) diede vita alla Comunità economica
europea e al Mercato Europeo Comune (CEE-MEC) e all’EURATOM, e gli accordi
degli anni successivi non colmarono mai il vuoto della politica. Anziché tendere la
mano alla Gran Bretagna, la Francia si
provvide della bomba atomica: “force de frappe”, quando già le maggiori potenze
avevano quella all'idrogeno.
Le attuali istituzioni comunitarie sono un
conglomerato di villette, neppure a schiera: disseminate senza un preciso piano
regolatore. Perciò i loro vertici non hanno “sensibilità politica”. Questa
Europa è un “contratto”, con una serie di clausole per compensi e rescissioni.
Un “affare” che dura sin che giova ai contraenti. Non
ha alle spalle né progetto né affetto: solo un calcolo di convenienza. E si sa
come finiscono queste partite: sono la fortuna dei burocrati, a discapito dei
cittadini. L'Europa è un edificio non di bronzo o di pietra ma di
materiali deperibili, come il cosiddetto cemento armato, condannati dal tempo
che li corrode. Anziché dalla base, cioè dal consenso dei suoi abitanti, è
sorto da accordi economici, incardinati infine sul Sistema monetario europeo e,
di seguito, su una moneta, l'“euro”, rifiutato da alcuni suoi membri (non pare
siano i meno avveduti). Inoltre le istituzioni “europee” non hanno convinto
molti cattolici apostolici romani che vi intravidero la loro “deminutio capitis” rispetto a evangelici,
riformati, non credenti e ai temutissimi massoni, secondo la leggenda annidati
nei palazzi del potere comunitario.
Dopo il crollo dell'Unione Sovietica l'Unione
Europea ha incluso Stati dell'Europa orientale per ampliare il raggio d'azione
della Nato. Così ha suscitato la reazione di Mosca: i cui abitanti prima che
zaristi o comunisti si sentono “russi”. Lo spiegò bene Franco Venturi in
un'opera magistrale.
La disunità d'Italia: cittadini o sudditi?
Dalla crisi sanitaria, dall'esasperante regime
di costrizione e dal collasso senza riparo di tanta parte del suo sistema
produttivo, a cominciare dal turismo, l'Italia non risorgerà o lo farà con
enorme fatica. Rimarranno ferite profonde, sulle quali governo, regioni e
comuni bene farebbero a riflettere per imboccare una via diversa da quella
percorsa dal 31 gennaio a oggi e ormai proiettata sulla vita quotidiana sino al
3 maggio (se ne veda una rassegna nel sito www.giovannigiolitticavour.it). Al
netto delle ormai ampie e reiterate riserve mosse anche da costituzionalisti di
indole quanto mai mite (incluso Sabino Cassese che paradossalmente rimprovera
ai cittadini di non farsi sentire abbastanza contro la burocrazia paralizzante:
quasi non lo facessero in invano tutti i giorni!) il vizio di fondo della
decretazione d'urgenza che da due mesi e mezzo incombe sulla quotidianità
pubblica e privata è di trattare gli italiani da sudditi anziché da cittadini,
da pupattoli ai quali non si deve dire la verità per non impressionarli,
insomma da minorenni se non da minorati. È il modo peggiore di “fare politica”.
Suscita discredito delle istituzioni, irritazione e diffidenza. Le continue e
ormai arroganti minacce di sanzioni sempre più gravi per chi violi decreti e
ordinanze costringe a rileggerle e a scoprirle caotiche e in tanta parte immotivate,
irrazionali, scritte da chi manifestamente non conosce i loro destinatari: le
persone e il territorio.
Quando finalmente a scuola?
Come non si può chiedere all'Unione Europea di
essere ciò che non è, cioè un governo politico della pletora esorbitante di 27
Stati e statuzzi che la compongono, così non si può chiedere agli italiani di
chiudersi in casa a tempo indeterminato, mentre si spalanca la voragine del
crollo vertiginoso del benessere quotidiano, frutto di inenarrabili sacrifici.
Non per caso gli italiani vantano il primato di risparmi e di proprietà della
“casa”, approdo di secolari lotte per la propria libertà, fondata sulla
possibilità di chiudersi la porta alle spalle contro ogni intruso, politico,
religioso, ideologico.
Ora due considerazioni si impongono. In primo
luogo la condotta del presidente Conte e dei ministri risulta incoerente: un
tira e molla quotidiano con le ormai stucchevoli comparsate di scienziati di
fiducia e l'invenzione di sempre nuovi comitati di esperti. Ma non bastano i
ministri? Governare comporta scegliere. O gli scienziati sono stati incapaci di
prevedere e allora possono essere sostituiti da maghi e indovini. Oppure il
governo gioca con le previsioni credibili e non le incrocia con provvedimenti
di elementare buon senso, chiedendo la leale collaborazione dei cittadini.
Invece seminare mine divisive, con linguaggio estraneo alla tradizione
politica.
Pertanto, e in secondo luogo, qualcuno inviti
Conte (e la “sua” ministra della Pubblica Istruzione, qui non meritevole di
menzione) ad ammettere sin d’ora che la scuola non potrà riaprire a metà maggio
e che quindi è inutile procrastinare al 4 del mese prossimo quanto non sarà
possibile nemmeno dopo. La scuola non potrà riaprire i battenti, né a maggio né
a settembre. La causa è nei fatti. In Italia si contano, invero, circa otto
milioni di studenti, 800.000 docenti e oltre 100.000 “amministrativi”. Le aule
sono quelle che sono. L'ultima legge sull'edilizia scolastica risale al 1975,
appena un po' spennellata nel 1992. Ogni aula deve contare almeno 45 metri
quadrati, vale a dire 6 metri per 7 e mezzo. Quanti banchi possono stare in
quella misera superficie, che deve ospitare anche la cattedra e magari una
bibliotechina di classe? Al massimo 9 o 10. Ma la normativa impone che le
classi abbiano da 18 a 26 bambini negli asili, sino a 26 nelle elementari, da
18 a 27 nelle medie e da 27 a 30 nelle secondarie. Tra il 1966 e il 1969 chi
scrive ha fatto lezione in varie città di antica tradizione, sempre in aule
inadeguate o del tutto indecenti. Fu poi preside in edifici “di risulta”: un ex
seminario, un antico palazzo civico del tutto fuori norma, un ex convento di
clarisse, in un convento francescano il cui primo piano (quello delle aule) non
crollava a patto che reggesse il porticato sottostante, una caserma. I servizi
igienici erano inadeguati, spesso ributtanti e senza palestre a portata di
piede. La richiesta al Comune di spogliatoi separati per allievi e allieve di
classi miste sembrava un capriccio della docente di educazione fisica.
L'alternativa era chiudere e mandare a spasso centinaia di studenti. Questa è
l'Italia. Non c'è governo Conte che possa rimediare da qui a metà maggio né da
qui al 1° settembre.
E allora? Una soluzione saggia sarebbe stata e
ancora può essere consentire senza tanti intralci prefettizi (a cominciare dal
prefetto ministro dell'Interno) di consentire a chi può (mezza famiglia,
tutt'intera, secondo i casi) di trasferirsi dalla reclusione forzata in città
nelle “seconde case”, ovunque esse siano, collegato da remoto col lavoro e con
la “scuola”.
Del pari occorre smetterla di interdire spazi
pubblici, anzitutto quelli demaniali, come gli arenili, a chi mostra di saperli
usare con maggior saggezza di quanta è stata adoperata nelle case di riposo.
Anziché considerarli sudditi da adocchiare a ogni passo (addirittura con vigili
in borghese o con i droni: siamo ormai al ridicolo), lo Stato e le sue
articolazioni lascino mostrino fiducia nei cittadini. Se proprio essi vogliono
fare l'interesse dei loro territori, anziché sguinzagliare pattuglie a caccia
di chissà quali untori, i sindaci dei comuni rivieraschi alzino “osservatori”
(come quelli dei “bagnini”) sulle spiagge e ingaggino giovani e meno giovani a
scrutare se chi ama prendere il sole e magari fare un tuffo tiene le debite
distanze dagli altri: il “distanziamento sociale” come dice lo stolido
burocratichese contiano. Il tempo esige di uscire dal torpore. Richiede il
discernimento predicato dal gesuita papa Francesco. Occorre inventare in fretta
rimedi, prima che la pressione superi il livello di guardia. In ormai quasi tre
mesi abbiamo sentito sindaci dire sciocchezze, salvo pentimenti tardivi, e
usare turpiloquio convinti di risultare più suadenti. Non è questo il modo di
governare, perché tosto o tardi anche gli “utenti” potrebbero rispondere alla
stessa maniera.
La pasqua ebraica ricorda l'Esodo; quella
cristiana la Resurrezione. La pasqua italiana del 2020 rimarrà negli annali per
le sempre più ampie allarmanti crepe tra istituzioni e cittadini. Sic stantibus
rebus difficilmente i cittadini si consegneranno tramite “app” a controlli
sulla loro persona. Se poi venisse loro imposto, scapperebbero dall'Italia a
gambe levate nel timore del peggio.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA DELLA ILLUSTRAZIONE:
Un'aula di ieri (Alessandria, Museo
Etnografico).
Non manca la stufa a legno, unica fonte di
calore (a parte insegnante e allievi...). Così era nelle scuole medie di Cuneo,
in piazza Santa Chiara.
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