NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 14 aprile 2020

L'“Europa” non risorgerà perché non esiste

di Aldo A. Mola

Molti si domandano se l'“Europa” sopravvivrà alla crisi attuale. Ce la farà di sicuro, perché è un guazzabuglio di poteri e di norme, capaci di adattarsi a qualsiasi catastrofe. È indistruttibile perché nebulosa, evanescente, lontanissima da responsabilità oggettive e quindi invulnerabile. A crollare sono gli Imperi, gli Stati, i regimi politici. Ma l'Europa non è nulla di tutto ciò. È come il ponte di Aulla, metafora di tante “istituzioni”. Si affloscia ma è sempre lì: una congerie di materiali. Non svolge più la funzione originaria, ma è persino più seducente di prima. Appena ne avranno la possibilità (ma chissà quando, col vento che tira) le moltitudini andranno a fotografarlo, come fecero con “Costa Concordia” adagiata su un fianco all'isola del Giglio.

Un'aula di ieri. Alessandria Museo etnografico

L'Unione Europea non ha né le fattezze né la consistenza di un Impero o di uno Stato, monarchico o repubblicano che lo si voglia. Non ha potere decisorio sui suoi membri, non ha politica estera univoca, né difesa comune. Perciò non le si può chiedere di essere quel che non è, né di agire al di là dei vincoli che si è data da quando, 65 anni orsono, scartò la via maestra, farsi Stato, e imboccò il viottolo degli “affari” e della conseguente voracissima elefantiasi burocratica. Questa Unione Europea è il punto di arrivo di una lunga serie di finzioni travestite da funzioni. “Scoprirlo” adesso può essere comodo per sviare l'attenzione dalla realtà, ma non cambia i fatti. Non si cava il sangue da una rapa. Per comprenderlo basta rileggere il farraginoso Trattato di Lisbona, varato in una terra che ama il riso condito con sangue crudo di pollo, innaffiato da vino più acidulo che aspro. Lì l'UE stabilì che non ha radici greco-latine o ebraico-cristiane ma genericamente “umanistiche”. Cioè?

L'Europa (da dove a dove? dall'Atlantico agli Urali come proponeva, inascoltato, Charles De Gaulle? o solo fino alla Polonia, con recisione della terra di Tolstoj, Erenburg, Pasternak...) per ora rimane un'“espressione geografica”.
Le prime pulsioni verso vaghe forme di federazione europea risalgono all'inizio del Novecento. La principale vetrina della possibile unione del Vecchio Continente fu l'Esposizione di Parigi del 1900, assise mondiale delle scienze e dei buoni sentimenti. Subito dopo, il sociologo Giacomo Novicow propose la Federazione europea, antemurale contro l'altrimenti inevitabile guerra fra Stati, che poi durò trent'anni, dal 1914 al 1945. Durante la sua prima fase (1914-1918: quindici milioni morti solo in Europa, va ricordato a chi oggi, riferendosi all’emergenza da coronavirus, parla di “guerra”) alcuni lungimiranti, come Luigi Einaudi, Attilio Cabiati e Giovanni Agnelli proposero una Federazione europea. Inascoltati. La gara sitibonda di profitti e di sangue, alimentata da odio sociale, razziale e ideologico riprese nel 1939-1945. Fra l'uno e l'altro macello la Società delle Nazioni accampata a Ginevra rimase misera spettatrice. In quell'intervallo il conte Coudenhove Kalergi propose invano la Pan-Europa, visione ammodernata e corretta degli Imperi: Romano e Carolingio (dopo la “debellatio” del Sacro romano impero da parte di Napoleone I, quello degli Asburgo d'Austria stette ai precedenti come un bonsai sta a una sequoia).
Durante la seconda fase della guerra dei Trent'anni vennero proposti alcuni progetti di Unione. Spiccano, fra i molti, il “Manifesto per un'Europa libera e unita” di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, scritto al confino politico a Ventotene (1941) e la Carta di Chivasso (19 dicembre 1943), mirante a conciliare Stato e autonomie locali. Non per caso a inizio Anni Novanta l'istituto magistrale di quella città venne intitolato “Europa unita”: un'idea forte, che fa dell'Europa il soggetto, non un semplice aggettivo come è invece “Unione Europea” (assonante con la non efficientissima Unione Africana). Bisognava ripensare la sovranità di ogni Paese nei suoi rapporti con gli altri Stati e anche al suo interno in nome della più matura libertà dei cittadini. Va riletto “Federalismo, autonomie locali, autogoverno” di Giorgio Peyronel (maggio 1944), militante del Partito d'azione, unico movimento nettamente federalista ed europeista, come il socialista profetico Ignazio Silone. In quella temperie, nel 1944 Luigi Einaudi scrisse “Via il prefetto!”, contro l'incubo dello Stato accentratore, rivelatosi tiranno, liberticida e inetto malgrado le rodomontate degli “otto milioni di baionette”.
Per l'Europa il cammino seguente fu irto di sassi e di spini. Dalla guerra essa uscì nel maggio 1945; il Giappone in agosto, dopo le due bombe atomiche sganciate dagli Stati Uniti. L'Europa visse lo strascico di guerre civili all'interno dei singoli Paesi (per numero di morti e di odio sprigionato nel “regolamento di conti” quella italiana fu di gran lunga superata dallo sterminio dei “collaborazionisti” perpetrato in Francia), nuove divisioni muro contro muro, reviviscenza di separatismi armati all'interno dei singoli Paesi. Oggi dimenticato, l'Esercito Volontari per l'Indipendenza della Sicilia (EVIS) rimane una lugubre pagina della nostra storia.
Dinnanzi alla minacciosa contrapposizione tra Stati Uniti d'America e Unione Sovietica, nell'Europa occidentale, rinascente anche grazie al celebre e molto interessato Piano Marshall, alcuni Paesi avviarono le prime forme di collaborazione interstatuale, come l'Organizzazione Europea di Cooperazione Economica (OECE). L'anno di svolta fu il 1949: 71 anni fa. A Ovest fu varato il Trattato Nord-Atlantico di difesa (NATO). Mosca fece esplodere la sua prima bomba atomica. Iniziò l'equilibrio del terrore. I partiti di sinistra (in Italia erano il PCI e a lungo il Partito socialista, ancora uniti nel fronte popolare) avversarono qualunque vera alleanza politica europea e, sulla sua scia, economica: una pregiudiziale che durò anche dopo la sanguinosa repressione dell'insurrezione in Ungheria (1956) e in Cecoslovacchia (1968). I comunisti liquidavano gli “europeisti” (Mario Albertini, Mario Zagari, Giuseppe Petrilli...) come utopisti da strapazzo e servi sciocchi del capitalismo. Ai progetti di federazione europea timidamente coltivati da Schumann, De Gasperi e Adenauer, nell'età del bipolarismo vennero contrapposti, quale forza d’interdizione, i Paesi “neutrali”, comprendenti persino la Jugoslavia del sanguinario Tito, che non è certo un campione dei diritti umani.

L'Europa morì in fasce col fallimento della CED
L'“Europa” morì nel 1954. Nel 1951 fu istituita a Parigi la Comunità europea del carbone e dell'acciaio. L'anno seguente venne proclamata la Comunità Europea di Difesa (CED), che in Italia ebbe il sostegno convinto di Ferruccio Parri e di Giuseppe Romita. L'alternativa alla CED sarebbe stata l'alleanza USA-Germania. Nel 1953 fu elaborato lo statuto della Comunità Politica Europea: il traguardo sembrava a portata di mano, ma nel 1954 il Parlamento francese, in un raptus di neo-nazionalismo (condiviso dalle “destre” di altri Paesi, Italia inclusa) respinse il Trattato costitutivo. Così gli Stati Uniti d'Europa morirono in fasce. La possibile Federazione non si è più riavuta. Il suo sudario avvolse però anche quel che restava degli imperi coloniali. In quello stesso anno la Francia si prese la legnata in Vietnam. Poi affondò nel sangue dell'insurrezione dell'Algeria che le costò la guerra civile scatenata dall'OAS e il ritorno di De Gaulle. La Gran Bretagna ripiegò passo dopo passo, dal Kenia alla Rhodesia. Ritirandosi dal Sud Africa lasciò in eredità l'apartheid. L'Olanda dismise il suo dovizioso impero. Infine il misero Belgio scomparve dal Congo... In pezzi, l'Europa mostrò il suo ritardo nei confronti della Storia. I paesi più retrogradi, come il Portogallo, furono gli ultimi a lasciare le loro colonie, da Diu, Goa e Damao in India sino ad Angola e Mozambico in Africa.
La pur lungimirante Conferenza di Messina (1955), i Trattati di Roma (1957), con cui l’Europa dei “sei” (Italia, Francia, Germania federale e Benelux) diede vita alla Comunità economica europea e al Mercato Europeo Comune (CEE-MEC) e all’EURATOM, e gli accordi degli anni successivi non colmarono mai il vuoto della politica. Anziché tendere la mano alla Gran Bretagna, la Francia  si provvide della bomba atomica: “force de frappe”, quando già le maggiori potenze avevano quella all'idrogeno.
Le attuali istituzioni comunitarie sono un conglomerato di villette, neppure a schiera: disseminate senza un preciso piano regolatore. Perciò i loro vertici non hanno “sensibilità politica”. Questa Europa è un “contratto”, con una serie di clausole per compensi e rescissioni. Un “affare” che dura sin che giova ai contraenti. Non ha alle spalle né progetto né affetto: solo un calcolo di convenienza. E si sa come finiscono queste partite: sono la fortuna dei burocrati, a discapito dei cittadini. L'Europa è un edificio non di bronzo o di pietra ma di materiali deperibili, come il cosiddetto cemento armato, condannati dal tempo che li corrode. Anziché dalla base, cioè dal consenso dei suoi abitanti, è sorto da accordi economici, incardinati infine sul Sistema monetario europeo e, di seguito, su una moneta, l'“euro”, rifiutato da alcuni suoi membri (non pare siano i meno avveduti). Inoltre le istituzioni “europee” non hanno convinto molti cattolici apostolici romani che vi intravidero la loro “deminutio capitis” rispetto a evangelici, riformati, non credenti e ai temutissimi massoni, secondo la leggenda annidati nei palazzi del potere comunitario.
Dopo il crollo dell'Unione Sovietica l'Unione Europea ha incluso Stati dell'Europa orientale per ampliare il raggio d'azione della Nato. Così ha suscitato la reazione di Mosca: i cui abitanti prima che zaristi o comunisti si sentono “russi”. Lo spiegò bene Franco Venturi in un'opera magistrale.

La disunità d'Italia: cittadini o sudditi?
Dalla crisi sanitaria, dall'esasperante regime di costrizione e dal collasso senza riparo di tanta parte del suo sistema produttivo, a cominciare dal turismo, l'Italia non risorgerà o lo farà con enorme fatica. Rimarranno ferite profonde, sulle quali governo, regioni e comuni bene farebbero a riflettere per imboccare una via diversa da quella percorsa dal 31 gennaio a oggi e ormai proiettata sulla vita quotidiana sino al 3 maggio (se ne veda una rassegna nel sito www.giovannigiolitticavour.it). Al netto delle ormai ampie e reiterate riserve mosse anche da costituzionalisti di indole quanto mai mite (incluso Sabino Cassese che paradossalmente rimprovera ai cittadini di non farsi sentire abbastanza contro la burocrazia paralizzante: quasi non lo facessero in invano tutti i giorni!) il vizio di fondo della decretazione d'urgenza che da due mesi e mezzo incombe sulla quotidianità pubblica e privata è di trattare gli italiani da sudditi anziché da cittadini, da pupattoli ai quali non si deve dire la verità per non impressionarli, insomma da minorenni se non da minorati. È il modo peggiore di “fare politica”. Suscita discredito delle istituzioni, irritazione e diffidenza. Le continue e ormai arroganti minacce di sanzioni sempre più gravi per chi violi decreti e ordinanze costringe a rileggerle e a scoprirle caotiche e in tanta parte immotivate, irrazionali, scritte da chi manifestamente non conosce i loro destinatari: le persone e il territorio.

Quando finalmente a scuola?
Come non si può chiedere all'Unione Europea di essere ciò che non è, cioè un governo politico della pletora esorbitante di 27 Stati e statuzzi che la compongono, così non si può chiedere agli italiani di chiudersi in casa a tempo indeterminato, mentre si spalanca la voragine del crollo vertiginoso del benessere quotidiano, frutto di inenarrabili sacrifici. Non per caso gli italiani vantano il primato di risparmi e di proprietà della “casa”, approdo di secolari lotte per la propria libertà, fondata sulla possibilità di chiudersi la porta alle spalle contro ogni intruso, politico, religioso, ideologico.
Ora due considerazioni si impongono. In primo luogo la condotta del presidente Conte e dei ministri risulta incoerente: un tira e molla quotidiano con le ormai stucchevoli comparsate di scienziati di fiducia e l'invenzione di sempre nuovi comitati di esperti. Ma non bastano i ministri? Governare comporta scegliere. O gli scienziati sono stati incapaci di prevedere e allora possono essere sostituiti da maghi e indovini. Oppure il governo gioca con le previsioni credibili e non le incrocia con provvedimenti di elementare buon senso, chiedendo la leale collaborazione dei cittadini. Invece seminare mine divisive, con linguaggio estraneo alla tradizione politica.
Pertanto, e in secondo luogo, qualcuno inviti Conte (e la “sua” ministra della Pubblica Istruzione, qui non meritevole di menzione) ad ammettere sin d’ora che la scuola non potrà riaprire a metà maggio e che quindi è inutile procrastinare al 4 del mese prossimo quanto non sarà possibile nemmeno dopo. La scuola non potrà riaprire i battenti, né a maggio né a settembre. La causa è nei fatti. In Italia si contano, invero, circa otto milioni di studenti, 800.000 docenti e oltre 100.000 “amministrativi”. Le aule sono quelle che sono. L'ultima legge sull'edilizia scolastica risale al 1975, appena un po' spennellata nel 1992. Ogni aula deve contare almeno 45 metri quadrati, vale a dire 6 metri per 7 e mezzo. Quanti banchi possono stare in quella misera superficie, che deve ospitare anche la cattedra e magari una bibliotechina di classe? Al massimo 9 o 10. Ma la normativa impone che le classi abbiano da 18 a 26 bambini negli asili, sino a 26 nelle elementari, da 18 a 27 nelle medie e da 27 a 30 nelle secondarie. Tra il 1966 e il 1969 chi scrive ha fatto lezione in varie città di antica tradizione, sempre in aule inadeguate o del tutto indecenti. Fu poi preside in edifici “di risulta”: un ex seminario, un antico palazzo civico del tutto fuori norma, un ex convento di clarisse, in un convento francescano il cui primo piano (quello delle aule) non crollava a patto che reggesse il porticato sottostante, una caserma. I servizi igienici erano inadeguati, spesso ributtanti e senza palestre a portata di piede. La richiesta al Comune di spogliatoi separati per allievi e allieve di classi miste sembrava un capriccio della docente di educazione fisica. L'alternativa era chiudere e mandare a spasso centinaia di studenti. Questa è l'Italia. Non c'è governo Conte che possa rimediare da qui a metà maggio né da qui al 1° settembre.
E allora? Una soluzione saggia sarebbe stata e ancora può essere consentire senza tanti intralci prefettizi (a cominciare dal prefetto ministro dell'Interno) di consentire a chi può (mezza famiglia, tutt'intera, secondo i casi) di trasferirsi dalla reclusione forzata in città nelle “seconde case”, ovunque esse siano, collegato da remoto col lavoro e con la “scuola”.
Del pari occorre smetterla di interdire spazi pubblici, anzitutto quelli demaniali, come gli arenili, a chi mostra di saperli usare con maggior saggezza di quanta è stata adoperata nelle case di riposo. Anziché considerarli sudditi da adocchiare a ogni passo (addirittura con vigili in borghese o con i droni: siamo ormai al ridicolo), lo Stato e le sue articolazioni lascino mostrino fiducia nei cittadini. Se proprio essi vogliono fare l'interesse dei loro territori, anziché sguinzagliare pattuglie a caccia di chissà quali untori, i sindaci dei comuni rivieraschi alzino “osservatori” (come quelli dei “bagnini”) sulle spiagge e ingaggino giovani e meno giovani a scrutare se chi ama prendere il sole e magari fare un tuffo tiene le debite distanze dagli altri: il “distanziamento sociale” come dice lo stolido burocratichese contiano. Il tempo esige di uscire dal torpore. Richiede il discernimento predicato dal gesuita papa Francesco. Occorre inventare in fretta rimedi, prima che la pressione superi il livello di guardia. In ormai quasi tre mesi abbiamo sentito sindaci dire sciocchezze, salvo pentimenti tardivi, e usare turpiloquio convinti di risultare più suadenti. Non è questo il modo di governare, perché tosto o tardi anche gli “utenti” potrebbero rispondere alla stessa maniera.
La pasqua ebraica ricorda l'Esodo; quella cristiana la Resurrezione. La pasqua italiana del 2020 rimarrà negli annali per le sempre più ampie allarmanti crepe tra istituzioni e cittadini. Sic stantibus rebus difficilmente i cittadini si consegneranno tramite “app” a controlli sulla loro persona. Se poi venisse loro imposto, scapperebbero dall'Italia a gambe levate nel timore del peggio.

Aldo A. Mola

DIDASCALIA DELLA ILLUSTRAZIONE:
Un'aula di ieri (Alessandria, Museo Etnografico).
Non manca la stufa a legno, unica fonte di calore (a parte insegnante e allievi...). Così era nelle scuole medie di Cuneo, in piazza Santa Chiara.

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