I tre dell'Ave Maria...: Azzolina, Ascani, De
Cristofaro
Crolla la Scuola, pilastro portante della
nazione. In Italia non si era mai fermata. Accade ora, senza alcuna
giustificazione attendibile, se non la sua pluridecennale fatiscenza e la
pochezza del governo, mentre funziona a pieno ritmo in Germania. Dagli Anni
Settanta del Novecento la Scuola è stata lo specchio di un Paese sempre in
affanno, quasi brodo primordiale dell'emergenza nazionale. Ha tirato avanti
come ha potuto. La salveranno la ministra Azzolina Lucia e i suoi due
sottosegretari? Che parte giocheranno Conte Giuseppe e i suoi “esperti”?
Azzolina passerà alla storia per vari motivi.
Ministra dimidiata, si trovò tra capo e collo l'epidemia del Covid-19 e si mise
sulla scia dei Decreti-legge e dei Decreti presidenziali senza alcuna idea
originale. Classe 1982, laureata in storia della filosofia a Catania e in
giurisprudenza a Pavia, docente tra Sarzana e Biella, al concorso per dirigente
scolastico risultò al 2542° posto su 2900 vincitori. Il presidente della
Commissione d'esame, Massimo Arcangeli, ricordò che aveva ottenuto risultati
modesti: 0 in informatica e molto indietro in inglese, secondo un quotidiano.
Era lontana insomma dalle tre “I”: inglese, informatica, impresa. Del resto il
movimento dei Cinque Stelle, al quale appartiene, predica che “uno vale uno”,
invoca la “decrescita felice” e quindi va bene un mondo senza scuola, come si
vociferava a metà Anni Sessanta. La fiancheggiano due sottosegretari: la 33enne
del Partito democratico, Ascani Anna, laureata in filosofia teoretica e
dottoranda in Political Theory, e Giuseppe De Cristofaro, a giudizio del quale
la scuola italiana era e rimane “di classe”, come mezzo secolo fa si leggeva in
“Proletari senza rivoluzione”.
Il crollo verticale della scuola comporta
quello del Paese in ogni sua componente, poiché spalanca una voragine al cui
confronto l'eruzione del Vesuvio, da tempo paventata, sarà uno scherzo.
Decretite, commissionite e Trenta Tiranni
L'Italia, 60 milioni di abitanti, terzo paese
manifatturiero d'Europa, da anni non ha un governo all'altezza della sua storia
e delle sue esigenze. Travolto dal Covid-19, l'attuale risulta pessimo. Perciò l'elenco dei delusi, impazienti e
indignati cresce di giorno in giorno. Ormai prossima al livello di guardia
monta l'onda degli arcistufi di un esecutivo che da inizio marzo ha reiterato e
indurito tre volte la reclusione dei cittadini nelle loro case (anche con
assurde ordinanze da “stato di guerra” ed episodi grotteschi di caccia al
“vagante”) senza vero coordinamento Stato/Regioni e, ciò che più conta, senza
un progetto chiaro e credibile. Nessuno scommette sulle prossime mosse del
Conte. Davvero dal 3 maggio i cittadini potranno uscire dai confini comunali e
lasciarsi alle spalle i gabellieri che da settimane li vessano con pretesti
spesso insulsi?
Il neo-presidente della Confindustria, Carlo
Bonomi, appena eletto ha esordito bollando come “smarrita” la “classe
politica”. Ha errato. Il migliaio di parlamentari, infatti, non sono “classe
politica” ma in larga parte personcine passate da professioni casuali o dal
nulla a rappresentanti dei cittadini in forza di una legge elettorale
sciagurata che lascia la scelta dei candidati ai vertici di “partiti” che, come
noto, non rendono conto a nessuno né della loro democrazia interna, né
dell'impiego del fiume di danaro che ricevono dallo Stato, cioè dalle tasche
dei cittadini. Certi partiti che hanno raccolto valanghe di consensi
promettendo di far nuove tutte le cose (come il Mostro dell'Apocalisse) sono
poi i primi a occultare il proprio funzionamento effettivo.
Indeciso a tutto, il governo è affetto da due
malattie di gran lunga peggiori della polmonite da Covid-19: la commissionite e
la decretite, come è stato più volte autorevolmente osservato anche da
costituzionalisti di buon cuore, come Sabino Cassese e Michele Ainis. Dati alla
mano, l'Esecutivo conta un presidente del Consiglio, 21 ministri e ben 42
sottosegretari, in barba alla legge Bassanini sulla composizione del governo. A
Palazzo Chigi Conte si vale di una tribù di circa 270 dirigenti e 2100
dipendenti. Per fronteggiare la lotta contro la diffusione del contagio, sin
dalla dichiarazione dello stato di emergenza del 31 gennaio scorso il
presidente si è coperto il fianco con il capo della Protezione Civile (un
arcipelago sterminato), nonché con il Consiglio Superiore della Sanità (30
membri) e l'Istituto Superiore della Sanità (2000 aggregati). A sua volta, al
di là della pletora di impiegati, funzionari e dirigenti, ogni ministro ha la
sua brava dose di consulenti e non rinuncia a valersi di almeno una commissione
di fedelissimi, scelti “ad nutum principis”.
L'assetto del potere istituzionale italiano
odierno rievoca i “Tyranni triginta” descritti da Trebellio Pollione nella
“Historia Augusta”: Postumo, Postumo il Giovane, Lolliano, Vittorino Quieto,
Erode e un paio di tiranni dai nomi profetici: Ingenuo e Ballista. Alla fine
arrivarono Zenobia (“siamo veramente alla fine della vergogna” ne scrisse il
biografo) e Vitruvia o Vittoria...: dopodiché il diluvio.
Chi volga lo sguardo al passato, agli
organigrammi ministeriali della Ricostruzione, del “famigerato regime” e
dell'età liberale (da Depretis e Crispi a Giolitti) coglie l'immane differenza.
Ogni politico (se bravo rieletto più e più volte, perché governare bene
richiede lunga esperienza sul campo) disponeva di una manciata di funzionari
capaci e devoti allo Stato. Se oggi Roberto Garofoli e altri contrappongono ai
“politici” il primato della “grande burocrazia” lo si deve proprio al
decadimento della “politica”, improvvisata, priva di formazione culturale e
professionale e quindi succuba dei suoi stessi consigliori.
La retorica sulla “lotta contro il contagio”
e il “distanziamento sociale” (neologismo risibile e infelice) ha le ore
contate. Urge un governo all'altezza dell'emergenza vera: rianimare la Scuola e
produrre, due volti di una stessa medaglia. Si trova invece sotto il confuso
“ombrellone” di un esecutivo litigioso sugli obiettivi primari e di ministri
che appaiono e scompaiono secondo la scena di giornata (Interno, Difesa,
Sanità, Giustizia...). I due antichi pilastri dello Stato, politica estera e
difesa, ricordano sempre di più quelli dei viadotti che mostrano a nudo i tondini
di ferro corrosi, ormai privi di guaine e di cemento, inesorabilmente
condannati al crollo, come da vent'anni ammonisce, tra altri, la genovese
Donatella Mascia, docente di ingegneria: dati i materiali di composizione, sin
dalla costruzione essi hanno una durata
prevedibile e presto o tardi crolleranno tutti, uno via l'altro, lasciando
l'Italia in pezzi, come dopo anni di bombardamenti aerei.
Esteri e Difesa, tuttavia, sono meno
periclitanti di quanto si possa temere, poiché l'Italia, privata di indipendenza
effettiva dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale, vive sotto tutela:
essa non può quindi ripetere errori catastrofici come quelli che, nella prima
metà del secolo scorso, ne annientarono il patrimonio coloniale e ne misero a
rischio la stessa unità politica, poi rabberciata con l'istituzione delle
regioni a statuto speciale, fonte di privilegi ormai ingiustificabili.
Però l'Italia ha, o potrebbe avere, pieno
autogoverno almeno su un “mondo” tutto suo e al tempo stesso universale: la
Scuola di ogni ordine e grado. All'indomani degli armistizi del 1943
un’apposita Commissione anglo-americana, integrata da “esperti” nostrani,
provvide alla defascistizzazione del sistema scolastico, intrecciandola con
l'epurazione, cioè con l'allontanamento dal servizio di quanti erano bollati
quali manutengoli delle due fasi del “fascismo”: quello in auge sino al 25
luglio 1943 e la Repubblica sociale italiana. La pretesa era palesemente
assurda. Sin dal 1931 per rimanere in funzione insegnanti e professori avevano
dovuto giurare di essere fedeli non solo al re e ai suoi successori ma anche al
duce. Tranne una dozzina di professori universitari, gli altri si
prosternarono. E che cosa avrebbero potuto fare gli impiegati in servizio
nell'Italia centro-settentrionale all'indomani dell'8 settembre se non rimanere
ai loro posti? Le scuole, dagli asili alle Università, continuarono a
funzionare anche sotto i bombardamenti e malgrado la guerra civile. La
defascistizzazione riguardò persino i libri di testo e le biblioteche scolastiche,
civiche, pubbliche. Dal 1938 erano state
tolte dagli scaffali le opere di autori ebrei considerati incompatibili con le
leggi “per la difesa della razza” (per coerenza avrebbero dovuto gettare dalle
finestre anche l'Enciclopedia Italiana, detta Treccani, la cui dottissima voce
“Ebrei” è scritta da israeliti insigni, come Giorgio Levi della Vida). Dopo il
1945 fu il turno degli autori “fascisti”, additati al pubblico disprezzo e
condannati all'oblio, anche se a volte erano stati perseguitati o poco
apprezzati dal regime.
Dopo una prima stagione di esagerazioni, che
confuse il nazionalismo (ala destra del liberalismo) con il totalitarismo
liberticida e il filonazismo, il malato si riprese e trovò equilibrio con la
Costituzione. Il suo articolo 34 recita: “La scuola è aperta a tutti”. La
Scuola è stata tra i più potenti volani della Ricostruzione, del miracolo
economico e della dinamica sociale, con fasi di accelerazione straordinaria,
quali l'istituzione della scuola media unica (non era scritto da nessuna parte
che vi si dovesse abolire lo studio del latino) e la liberalizzazione degli
accessi alle Facoltà universitarie dapprima senza alcuna filtro, poi con talora
discusse forme di selezione.
La ministra abolisce il valore sostanziale
dei titoli di studio
Qual è lo “stato dell'arte” della Scuola
italiana in tempi di coronavirus? Non potrebbe stare peggio. Il decreto-legge 8
aprile 2020, n. 22, emanato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella,
che fu anche ministro della Pubblica Istruzione, e firmato dal presidente Conte
e dai ministri Azzolina, Manfredi (Università e Ricerca), Di Maio (Esteri),
Bonafede (Giustizia), Gualtieri (Economia e Finanza) e Dadone (Pubblica
Amministrazione), delinea le “misure urgenti sulla regolare conclusione dell'anno
scolastico e sullo svolgimento degli esami di Stato”, previsti dall'articolo 33
comma 5 della Carta, e demanda al ministro l’emanazione di “ordinanze” che, per
non essere impugnate e annullate, dovranno conformarsi alle fonti superiori del
diritto.
Con buona pace dei
suoi illustri firmatari, quel decreto-legge è un cumulo di affermazioni campate
in aria. In primo luogo, quando già era chiaro che a scuola non si potrà
rientrare né il 18 maggio (come tuttavia vi si ipotizza) né ai primi di giugno,
esso abbozza le forme di valutazione degli studenti (terza media e maturità) e
indica il ritorno a scuola generalizzato al 1° settembre 2020. Luigi Einaudi,
liberale autentico e niente affatto reazionario, propugnava l'abolizione del
valore legale del titolo di studio. Azzolina ha fatto di più: ne ha abolito il
valore sostanziale. Tutti gli studenti passeranno all'anno successivo, anche se
insufficienti gravi: “todos caballeros...”.
Col decreto-legge (che dovrà essere
convertito in legge entro il 7 giugno, a pena di decadenza) l'esecutivo ha
mancato di chiarire, ora per allora, la reale prospettiva dell'estate e
dell’autunno prossimi. Sulla Scuola, come del resto su ogni altro aspetto della
vita dei cittadini, esso ha giocato e gioca a rimpiattino. La dilazione è ormai
la sua regola aurea, ma dopo ormai due mesi nessuno più se ne fida. Il governo, infatti, nasconde la
verità. Nel caso della scuola essa è una sola: né a maggio né a giugno la
“macchina scolastica” sarà in grado di reggere l'impatto di 9 milioni di
presenze, tra allievi e docenti, in condizioni minime tali da escludere il
rischio di contagio. Questo non significa però che essa debba rimanere “chiusa”
nei tre mesi estivi. Come tutti gli impiegati pubblici, i docenti hanno diritto
a 32 giorni di ferie. Essi possono quindi essere chiamati in servizio anche a
luglio e ad agosto. È questione di organizzazione del loro calendario e di
volontà/capacità di ministro, “provveditori” e
“dirigenti scolastici”, se davvero preoccupati di recuperare gli allievi.
Sulla “macchina scolastica” ai cittadini va
detta tutta la verità: essa era molto malmessa prima della diffusione del
contagio ma reggeva su silenzi e finzioni, sull'inclinazione a non vedere, a
rinviare e a sperare che nulla accada di clamoroso, salvo insabbiare i disastri
in qualche fascicolo processuale, nelle relazioni di ispettori e nel
chiacchiericcio di commissioni d'inchiesta. L'amministrazione pubblica strizza
l'occhio al cittadino. Ne invoca la connivenza e la complicità, ma talora gli
fa “la faccia feroce”.
Ma le scuole sono “a norma”?
Stiamo ai fatti. Adesso tanti strepitano
perché il sistema sanitario ha mostrato molte gracilità e perché le case di
riposo si sono rivelate per quel che sono: affollati veicoli di epidemie da
anni previste. Per capirlo i loro amministratori e i medici che a vario titolo
vi si affacciavano dovevano proprio attendere che vi infuriasse il morbo?
Altrettanto, e molto più grave, è stata la distrazione di massa nei confronti
della macchina scolastica italiana, sia a gestione pubblica sia privata. Molto
prima che il Covid-19 si affacciasse, i dati statistici ufficiali, reperibili
nei vari siti istituzionali ma oggi curiosamente trascurati, dicevano e ripetono che il 54% degli edifici
scolastici del Paese è privo del certificato di agibilità e quasi il 60% non ha
quello di prevenzione incendi. La Scuola campa alla giornata, tra giaculatorie
e gesti scaramantici, mentre regioni, province (evanescenti ma a loro volta
impiccione) e comuni vessano i
cittadini. Per decenni abbiamo assistito al rimpallo della Scuola fra Stato ed
enti territoriali. Altrettanto, del resto, è accaduto per il personale, sia
docente sia amministrativo, e per i “bidelli”. Nei licei scientifici presidi e
professori erano “statali”, il personale ausiliario provinciale, i bidelli comunali.
Quando un classico (tutto statale) e uno scientifico erano in uno stesso
edificio non avveniva come a Betlemme, ove i sacerdoti cristiani di diverse
confessioni si prendono a colpi di scopa. Semplicemente interrompevano la
pulizia del corridoio mezzo metro prima del confine di competenza.
Vedute le norme vigenti sugli edifici
scolastici, già anche troppo soffocanti per classi normali (risalgono al 1975,
un'era “zoologica” fa), ce la faranno la
ministra Azzolina e le varie amministrazioni a mettere a norma gli edifici e le
loro adiacenze entro l'imminente 1° settembre 2020? Perché non adattare alla
svelta a sedi scolastiche i molti edifici pubblici inspiegabilmente
inutilizzati? Tra le storielle su Cuneo, Beozia d'Italia (chi ci è nato ne va
orgoglioso), una narra che quando Vittorio Emanuele II vi andò in visita il
sindaco e i consiglieri comunali si avvidero all'ultimo che il salone comunale non era abbastanza capiente.
Allora, per allargarlo, sedettero a terra e tutti insieme spinsero la schiena
contro le pareti. Per incitarli le signore presenti sporsero persino le labbra
tumide sino a farle divenire paonazze. Neppure oggi basta un po' più di
rossetto ministeriale per moltiplicare e ampliare aule, palestre, spazi di
ricreazione, parcheggi e quel “verde” che la normativa impone ma è l'ultimo dei
pensieri delle amministrazioni tenute a fornire le basi materiali
dell'istruzione.
La dis-unità d'Italia
Un'ultima considerazione si impone. Da mesi
le forze dell’ordine vigilano sui cittadini, sanzionando, talora
arbitrariamente, chi circola in violazione di decreti e ordinanze di dubbia
legittimità. Ma quegli stessi “tutori della legge” sono mai stati mandati a
constatare se gli edifici scolastici siano o no “a norma”? A verificare se
davvero “la scuola è aperta a tutti” e se “i più capaci e meritevoli hanno
diritto di raggiungere i gradi più elevati degli studi”?
Nel Regno d'Italia la Scuola funse da
ascensore sociale. Ne furono campioni insigni anche ministri della Pubblica
istruzione, come l'albese Michele Coppino, figlio di un ciabattino e di una
cucitrice, asceso ai vertici della cultura nazionale. Era anche massone, come
il fossanese Balbino Giuliano, primo titolare del Ministero dell'Educazione
Nazionale.
Mentre la ministra Azzolina gonfia le gote
dichiarando che nessuno sarà lasciato indietro, in realtà oggi la Scuola
trascura metà dei bambini e dei ragazzi, privi dei costosi strumenti per
seguire le lezioni “da remoto”. Andavano e andranno alfabetizzati ai nuovi linguaggi.
Occorrono investimenti adeguati, corsi accelerati e un impegno civile
colossale, ancor più che finanziario. Nel frattempo la massa di quanti né
studiano né lavorano (almeno un quarto dei giovani fra i 15 e i 29 anni) è
condannata a ingrossarsi. E l'Italia diviene paese del quarto mondo. La sua
dis-unione è alle porte per la voragine esistente tra chi ha o non ha
possibilità di connettersi a internet in modo efficiente; tra chi ha o non ha
accesso a strumenti di studio efficaci. La divisione tra Nord e Sud non è più
geografica, ma si ritrova all'interno di ciascuna regione e provincia, nel
cuore di ogni città.
Mancano solo quattro mesi al 1° settembre.
Senza lavoro, senza vacanze, senza un reddito qualunque, dall'elemosina di
Stato a quello in nero, il prossimo non sarà un “autunno caldo” bensì rovente,
per colpa di un governo riluttante a mettere la Scuola al centro della
“questione nazionale”. Basti constatare che nella cosiddetta task force
capitanata da Vittorio Colao non vi è alcun esperto del mondo scolastico, a
riprova del fatto che, nonostante i proclami di Conte e di Azzolina,
l'Istruzione è proprio l'ultima ruota del carro della vociferata “ripartenza”.
Mala tempora currunt...
Aldo A. Mola
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