A conclusione di questo esame di
coscienza, di questa sintesi della situazione italiana, che dipende da una
analisi approfondita della crisi della Nazione, la conclusione è una: perché si
possa avere quel Governo che alla Nazione occorre è necessario che vi
concorrano due circostanze. La prima è che la Democrazia Cristiana abbia il
coraggio di rompere tutti quei legami che, così attraverso certi suoi uomini e
circoli come attraverso i « partitini », la tengano, avvinta al giogo
capitalistico, specie internazionale, e quindi abbia il coraggio di presentarsi
al Parlamento con un Governo monocolore-tecnico che non abbia pregiudiziali
politiche (questa era la felice formula del Gabinetto Pella), che per il
programma, e soprattutto per la volontà ed il mordente nell'attuarlo, sia un
Governo di vera e propria riconversione economico-sociale della politica della
Comunità nazionale italiana dal piano capitalistico al piano popolare. La seconda
circostanza è che tale Governo, così per avere una sufficiente base parlamentare,
come per non perdere la propria qualificazione di equilibrio politico, possa
chiedere e possa ottenere l'appoggio esterno - o positivo con il voto, o
negativo con l'astensione, ma eguale dalle due parti - così dei socialisti come
dei monarchici. Questo è il punto, e, sebbene la realizzazione di questa
formula possa sembrare ancora lontana a chi guardi dal punto di vista della cristallizzata
realtà odierna, ciascuno che vi sia impegnato ha il dovere di prepararvi se
stesso, perché il momento di rottura della odierna cristallizzazione può
presentarsi improvvisamente, e guai se per la seconda volta - come avvenne
subito dopo le elezioni della primavera 1953 - tutti o qualcuno dei nuovi
protagonisti fossero non preparati e pronti a realizzare la nuova formula.
Anche per questo bisogna superare -
questo va detto a tutti i partiti, ma a noi compete dirlo oggi al nostro
Partito e realizzarlo nella sua azione politica - le barriere ideologiche e le
pregiudiziali che attengono alla filosofia, e quindi trascendono la Politica, o
che dipendano da interessi materiali particolaristici, e quindi sono estranei
al giudizio politico, e per loro natura devono essergli subordinati e non
subordinarlo a se stessi. Bisogna tornare a quel costume democratico e civile
che era comune alle generazioni che precedettero il fenomeno fascista, che
attiene al realismo politico ed è intrinseco nella missione nazionale e nella
tradizione italiana della Monarchia, costume per il quale gli avversari
politici, tutti gli avversari politici, sono giustappunto avversarii e non
nemici. Cioè: uomini e partiti dai quali si dissente per alcuni presupposti
morali ed ideologici e per alcune visioni teleologiche, ma con i quali - tutti
- si deve e si può collaborare allorché gli interessi della 'Nazione, o dei
suoi singoli organi ed istituti, lo richiedono, e l'accordo può raggiungersi
circa la soluzione da dare ai problemi concreti, pratici e contingenti tutti
per loro natura, che appartengono nel momento all'arte della gestione politica.
Giacché si parla di democrazia e ci
si proclama - a giusto titolo democratici, non bisogna dimenticare che è stata una
caratteristica del fenomeno fascista non solo, ma una sua caratteristica
direttamente dipendente dalla sua natura dittatoriale (cioè dalla identificazione
del Partito con lo Stato con lo Stato e dello Stato con la Nazione), quella di
iniziare l’aberrazione di distinguere i partecipanti alla Comunità nazionale in
«antinazionali» ed in «nazionali» a seconda che fossero o non fossero suoi
avversari politici. Ma questo ò stato uno dei punti fondamentali nei quali il
periodo fascista si mantenne estraneo alla Tradizione monarchica nazionale, che
noi dobbiamo oggi riprendere, reinterpretare e continuare. Si può esser sicuri
che, immediatamente prima ed immediatamente dopo di quel periodo, la Maestà di
Vittorio Emanuele Ill e di Umberto II, allorché ricevettero al Quirinale l’Uno l’on.
Turati e l'Altro l'on. Nenni non stimarono di far cosa né scandalosa né
essenzialmente diversa di quello che facevano ricevendovi l'Uno l’on. Giolitti
e l'on. Salandra e l'on. Mussolini, e l'Altro l'on. Ruini, l'on. De Gasperi e
l'on. Selvaggi.
E' a questo costume che noi
dobbiamo, per primi e senza complessi né di inferiorità né di scandalo,
ritornare, se vogliamo essere e nazionali e monarchici e democratici, se non
vogliamo gravemente amputare e sterilizzare la nostra azione politica, se
vogliamo tener pronto il PNM ai compiti cui l'interesse supremo della Nazione
può, forse più presto che non si creda, chiamarlo.
Avversari con tutti, e nei punti
programmatici che ci distinguono da ciascuno; nemici con nessuno. Esser sempre
e rigorosamente noi stessi, approfondire e qualificare da noi la nostra azione,
pronti a collaborare con chiunque quando sia necessario o conveniente, decisi a
non confonderci con nessuno: è questa la formula, spregiudicata ma leale, che
noi chiediamo al Congresso Nazionale di dare all'azione crescente e maturante
del Partito Nazionale Monarchico.
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