VI - LA
PROCLAMAZIONE DEL REGNO (1861), LE DIFFICOLTÀ DEL PRIMO DECENNIO E IL
PAREGGIO DEL BILANCIO (1877)
Uno
sfortunato scrittore siciliano - sfortunato perché la morte gli impedì di
vedere pubblicata l'unica sua lodatissima opera -, nell'immaginare o, forse
meglio, rievocare l'incontro di un aristocratico siciliano con un piemontese,
all'indomani della liberazione del sud dai Borboni, così fa discorrere il primo:
«
... Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle
meraviglie del mondo moderno; per conto mio vedo piuttosto -una centenaria
trascinata in carrozzino all'Esposizione Universale di Londra, che non
comprende nulla, che si impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield
come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto a ritrovare il proprio
dormiveglia... il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno
sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e,
sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali
per noi nel bagaglio... » (20).
Tale
testimonianza e le altre -contenute nell'ormai famoso romanzo, anche se scritte
ai nostri giorni, spiegano, forse più di un'ampia analisi storica, perché le
speranze di benessere nutrite dai più, prima del '61, risultassero presto in
gran parte deluse.
Francesco
Ferrara, con Vittorio Scialoja il più grande economista italiano del tempo,
notò che il Paese denunciava un'esasperante mancanza di iniziativa in materia
economica ed era afflitto da «incertezza» e «mancanza di speranza
nell'avvenire», proprio quando gli altri Stati procedevano spediti sulla strada
del progresso (21).
Se
scendiamo nei dettagli, ci rendiamo pienamente conto degli sforzi allora
compiuti -per migliorare il desolante stato di cose.
Per
cominciare, il disavanzo del bilancio era cresciuto nel '65 e nel '66,
rispettivamente, a 532 e 634 milioni, ma l'adozione del corso forzoso (1866)
poté condurre, nel giro di un decennio, al pareggio (1877): gran merito della
Destra storica!
Altro
aspetto inquietante era rappresentato dall'immobilità demografica delle città:
mentre la popolazione totale era passata da 12, 13 milioni nel '60 a 25 milioni
nel '61, le città non avevano generalmente visto aumentare i propri abitanti,
«indice quanto mai significativo della stazionarietà di tutta la vita economica
e sociale di gran parte delle regioni italiane » (22). Dopo il '66, anche tale
fenomeno negativo comincia a dissolversi in talune regioni e Napoli, Roma,
Milano e Torino si pongono all'avanguardia nello incremento demografico.
Trasferita
la capitale da Torino a Firenze, l'incremento di Torino e quello di Milano, che
pure aveva sofferto per la perdita della posizione della quale godeva nel
Lombardo-Veneto, si spiegano con la formazione del triangolo industriale Torino
- Milano - Genova e la industrializzazione dell'alta Lombardia.
Non
si dimentichino inoltre i problemi di Venezia e di Roma, quello
del contrasto Stato-Chiesa e l'altro del brigantaggio, piaga politica e
sociale delle contrade meridionali.
Moltissimo
giovò a consolidare l'unità ed a creare, dal 1875-76, un effettivo mercato
nazionale la politica ferroviaria del governo: nel 1877 le grandi costruzioni
ferroviarie potevano già considerarsi ultimate, essendo in esercizio 8200
chilometri di ferrovie.
Gli
anni difficili furono contrassegnati da agitazioni popolari, alle quali non
poco contribuirono temporalisti, borbonici, austriacanti e in genere
sostenitori dei regimi sconfitti dalla rivoluzione nazionale: Emilia, Romagna,
Sicilia, furono i principali teatri di tali moti.
Le
difficoltà del momento, le preoccupazioni che in uomini di alta responsabilità
morale e civile, come Quintino Sella, destava, ad es., il problema, che
sembrava irrisolvibile, del debito pubblico, dovuto in massima parte alle
necessità connesse alle guerre di indipendenza, non si conciliavano con le
esigenze di una politica di alleviamento delle condizioni economiche delle
classi più umili; queste erano chiamate a dare un contributo non indifferente
al risanamento finanziario dello Stato: i governi attuavano quella che oggi si
dice una politica di « austerità ».
Molti
malcontenti vedevano nel « piemontesismo » la ragione di tanti mali, ma a
torto, perché «quel prevalere numerico dei Piemontesi ne,ll'amministrazione
dello Stato era necessità di vita ... Per tutta una generazione dopo il '61, lo
Stato italiano si trovò costretto ad attingere soltanto a quella riserva che il
Piemonte poteva dargli . . . Oggi quelli che la mordace fiorentinità
caricaturava appaiono ben altri: silenziosi al lavoro in quei duri anni, in cui
era messa a prova la resistenza del nuovo debole organismo statale, che si
andava consolidando tra enormi difficoltà amministrative, finanziarie,
economiche, politiche e religiose ... A far l'Italia valse non poco questo duro
lavoro di montanari » (23).
Altro
elemento positivo fu dato dallo sviluppo della borghesia che, nelle
industrie nascenti e nei commerci non più regionali, ma nazionali ed
internazionali, nella pubblica amministrazione e nello artigianato
cittadino, pur in varia misura, diede un contributo grandissimo all'affermarsi
della nuova Italia. L'ascesa della borghesia fu palese dimostrazione della
socialità della Monarchia sabauda che, dopo l'abolizione di ogni
privilegio di ceto, altro non chiedeva se non intelligenza e volontà a chi
si accingeva a salire i gradini della comunità.
Al
dinamismo della borghesia cittadina si contrapponeva l'assai minore contributo
di progresso della borghesia agraria. In effetti, uno dei problemi che rimasero
anche dopo il terz'ultimo decennio dell'800, quando altri parvero essere
stati risolti, fu quello delle campagne insufficienti a sfamare il
grandissimo numero di persone che su esse e per esse vivevano. Non mancò
l'interesse del Parlamento, del Governo e degli studiosi: ricordiamo
l'inchiesta
parlamentare
del 1876, gli studi di F. S. Nitti e di Giustino Fortunato. Se un appunto può
farsi ai governi del tempo è che essi, preoccupati di salvaguardare
l'industria nascente, adottarono una politica doganale e tributaria
dannosa all'agricoltura e quindi al Mezzogiorno che non aveva altre
risorse, fenomeno però non limitato alla sola Italia, ma caratteristico di
tutti i Paesi, all'affermarsi della grande industria.
L'emigrazione
servì in gran misura a sanare le piaghe sociali in agricoltura,
anche perché fece uscire i contadini dallo stretto ambito in cui
erano vissuti per secoli, ne migliorò le condizioni
economi-che, debellò l'usura, ridusse la delinquenza, diede loro una
coscienza civile e il desiderio dell'istruzione (24).
Non è
facile tracciare il quadro di un periodo in cui le più intelligenti e oneste
intenzioni urtavano contro l'impossibilità pratica di attuarle, per un
complesso di motivi le cui origini occorre spesso cercare in secoli e secoli
addietro: l'istruzione elementare obbligatoria gratuita non poteva, ad es.,
trasformare milioni di contadini afflitti da millenaria ignoranza in persone
sufficientemente istruite: essa giovò però alla piccola borghesia e
all'artigianato cittadino e non poco contribuì ai progressi del secolo
successivo in cui anche le classi più umili avrebbero avuto il diritto di voto.
Prima di
chiudere questo capitolo, rammenteremo che sostanziali miglioramenti furono
ottenuti nel campo della giustizia sociale, quando si passò, in merito agli
infortuni sul lavoro, dalla teoria della « colpa soggettiva », per la quale il
lavoratore infortunato, al fine di pretendere il risarcimento dal proprio
datore di lavoro, doveva dimostrare l'esistenza di un rapporto di causa ad
effetto tra questi e l'infortunio, a quella dell'« inversione dell'onere della
prova » e poi a quella «contrattuale »: l'« inversione » attribuì l'onere della
prova al datore di lavoro, mentre la teoria « contrattuale » gli impose anche
la dimostrazione, per evitare il risarcimento, di aver usato la normale
diligenza nel prevenire l'incidente (art. 1644 del Codice Civile del 1865: «
L'imprenditore è responsabile dell'opera delle persone che ha impiegato »). Un
ennesimo progresso fu segnato dalla teoria della « responsabilità obbiettiva »,
che trasferiva la responsabilità dalla persona alla cosa (art. 1153 C. C. 1865:
«Ciascuno parimente è obbligato non solo pel danno che cagiona per fatto
proprio ma anche per quello che viene arrecato col fatto delle persone delle
quali deve rispondere, o delle cose che ha in custodia . . . »); essa preludeva
a quella del « rischio professionale » attribuito al datore di lavoro come
contraente più forte, indipendentemente da ogni misura precauzionale assunta
per evitare il verificarsi del sinistro: questa teoria assicurava al lavoratore
il risarcimento del danno in ogni caso, nell'ipotesi di infortunio.
(19) GINO
LUZZATTO: « Storia economica dell'età moderna e contemporanea - Parte seconda:
l'età contemporanea », CEDAM, Padova, 1948, pagine 321, 322, 323.
(20)
GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA: «Il Gattopardo», Feltrinelli, Atilano, 1959, pag.
210.
(21)
FRANCESCO FERRARA: «Rassegna di Finanza», in «Nuova Antoíogia, gennaio 1866.
(22) GINO
LUZZATTO: «Storia economica deIl'età moderna e contemporanea - Parte seconda:
l'età cont-,mporanea», CEDAM, Padova, 1948, pagine 352, 353.
(23)
NICCOLO' RODOLICO: « Storia degli Italiani », Sansoni, Firenze, 1954, pagg.
910, 911.
(24)
NICCOLO' RODOLICO, opera citata, pagg. 918, 919, 920.
Nessun commento:
Posta un commento