NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 11 giugno 2012

La Monarchia Sabauda e i problemi sociali - VI parte

VI - LA PROCLAMAZIONE DEL REGNO (1861), LE DIFFICOLTÀ DEL PRIMO DECENNIO E IL PAREGGIO DEL BILANCIO (1877)


Uno sfortunato scrittore siciliano - sfortunato perché la morte gli impedì di vedere pubblicata l'unica sua lodatissima opera -, nell'immaginare o, forse meglio, rievocare l'incontro di un aristocratico siciliano con un piemontese, all'indomani della liberazione del sud dai Borboni, così fa discorrere il primo:

« ... Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio vedo piuttosto -una centenaria trascinata in carrozzino all'Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla, che si impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto a ritrovare il proprio dormiveglia... il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio... » (20).

Tale testimonianza e le altre -contenute nell'ormai famoso romanzo, anche se scritte ai nostri giorni, spiegano, forse più di un'ampia analisi storica, perché le speranze di benessere nutrite dai più, prima del '61, risultassero presto in gran parte deluse.

Francesco Ferrara, con Vittorio Scialoja il più grande economista italiano del tempo, notò che il Paese denunciava un'esasperante mancanza di iniziativa in materia economica ed era afflitto da «incertezza» e «mancanza di speranza nell'avvenire», proprio quando gli altri Stati procedevano spediti sulla strada del progresso (21).

Se scendiamo nei dettagli, ci rendiamo pienamente conto degli sforzi allora compiuti -per migliorare il desolante stato di cose.

Per cominciare, il disavanzo del bilancio era cresciuto nel '65 e nel '66, rispettivamente, a 532 e 634 milioni, ma l'adozione del corso forzoso (1866) poté condurre, nel giro di un decennio, al pareggio (1877): gran merito della Destra storica!

Altro aspetto inquietante era rappresentato dall'immobilità demografica delle città: mentre la popolazione totale era passata da 12, 13 milioni nel '60 a 25 milioni nel '61, le città non avevano generalmente visto aumentare i propri abitanti, «indice quanto mai significativo della stazionarietà di tutta la vita economica e sociale di gran parte delle regioni italiane » (22). Dopo il '66, anche tale fenomeno negativo comincia a dissolversi in talune regioni e Napoli, Roma, Milano e Torino si pongono all'avanguardia nello incremento demografico.

Trasferita la capitale da Torino a Firenze, l'incremento di Torino e quello di Milano, che pure aveva sofferto per la perdita della posizione della quale godeva nel Lombardo-Veneto, si spiegano con la formazione del triangolo industriale Torino - Milano - Genova e la industrializzazione dell'alta Lombardia.

Non si dimentichino inoltre i problemi di Venezia e di Roma, quello del contrasto Stato-Chiesa e l'altro del brigantaggio, piaga politica e sociale delle contrade meridionali. 

Moltissimo giovò a consolidare l'unità ed a creare, dal 1875-76, un effettivo mercato nazionale la politica ferroviaria del governo: nel 1877 le grandi costruzioni ferroviarie potevano già considerarsi ultimate, essendo in esercizio 8200 chilometri di ferrovie.

Gli anni difficili furono contrassegnati da agitazioni popolari, alle quali non poco contribuirono temporalisti, borbonici, austriacanti e in genere sostenitori dei regimi sconfitti dalla rivoluzione nazionale: Emilia, Romagna, Sicilia, furono i principali teatri di tali moti.

Le difficoltà del momento, le preoccupazioni che in uomini di alta responsabilità morale e civile, come Quintino Sella, destava, ad es., il problema, che sembrava irrisolvibile, del debito pubblico, dovuto in massima parte alle necessità connesse alle guerre di indipendenza, non si conciliavano con le esigenze di una politica di alleviamento delle condizioni economiche delle classi più umili; queste erano chiamate a dare un contributo non indifferente al risanamento finanziario dello Stato: i governi attuavano quella che oggi si dice una politica di « austerità ».

Molti malcontenti vedevano nel « piemontesismo » la ragione di tanti mali, ma a torto, perché «quel prevalere numerico dei Piemontesi ne,ll'amministrazione dello Stato era necessità di vita ... Per tutta una generazione dopo il '61, lo Stato italiano si trovò costretto ad attingere soltanto a quella riserva che il Piemonte poteva dargli . . . Oggi quelli che la mordace fiorentinità caricaturava appaiono ben altri: silenziosi al lavoro in quei duri anni, in cui era messa a prova la resistenza del nuovo debole organismo statale, che si andava consolidando tra enormi difficoltà amministrative, finanziarie, economiche, politiche e religiose ... A far l'Italia valse non poco questo duro lavoro di montanari » (23).

Altro elemento positivo fu dato dallo sviluppo della borghesia che, nelle industrie nascenti e nei commerci non più regionali, ma nazionali ed internazionali, nella pubblica amministrazione e nello artigianato cittadino, pur in varia misura, diede un contributo grandissimo all'affermarsi della nuova Italia. L'ascesa della borghesia fu palese dimostrazione della socialità della Monarchia sabauda che, dopo l'abolizione di ogni privilegio di ceto, altro non chiedeva se non intelligenza e volontà a chi si accingeva a salire i gradini della comunità.

Al dinamismo della borghesia cittadina si contrapponeva l'assai minore contributo di progresso della borghesia agraria. In effetti, uno dei problemi che rimasero anche dopo il terz'ultimo  decennio dell'800, quando altri parvero essere stati risolti, fu quello delle campagne insufficienti a sfamare il grandissimo numero di persone che su esse e per esse vivevano. Non mancò l'interesse del Parlamento, del Governo e degli studiosi: ricordiamo l'inchiesta

parlamentare del 1876, gli studi di F. S. Nitti e di Giustino Fortunato. Se un appunto può farsi ai governi del tempo è che essi, preoccupati di salvaguardare l'industria nascente, adottarono una politica doganale e tributaria dannosa all'agricoltura e quindi al Mezzogiorno che non aveva altre risorse, fenomeno però non limitato alla sola Italia, ma caratteristico di tutti i Paesi, all'affermarsi della grande industria.
L'emigrazione servì in gran misura a sanare le piaghe sociali in agricoltura, anche perché fece uscire i contadini dallo stretto ambito in cui erano vissuti per secoli, ne migliorò le condizioni economi-che, debellò l'usura, ridusse la delinquenza, diede loro una coscienza civile e il desiderio dell'istruzione (24).

Non è facile tracciare il quadro di un periodo in cui le più intelligenti e oneste intenzioni urtavano contro l'impossibilità pratica di attuarle, per un complesso di motivi le cui origini occorre spesso cercare in secoli e secoli addietro: l'istruzione elementare obbligatoria gratuita non poteva, ad es., trasformare milioni di contadini afflitti da millenaria ignoranza in persone sufficientemente istruite: essa giovò però alla piccola borghesia e all'artigianato cittadino e non poco contribuì ai progressi del secolo successivo in cui anche le classi più umili avrebbero avuto il diritto di voto.

Prima di chiudere questo capitolo, rammenteremo che sostanziali miglioramenti furono ottenuti nel campo della giustizia sociale, quando si passò, in merito agli infortuni sul lavoro, dalla teoria della « colpa soggettiva », per la quale il lavoratore infortunato, al fine di pretendere il risarcimento dal proprio datore di lavoro, doveva dimostrare l'esistenza di un rapporto di causa ad effetto tra questi e l'infortunio, a quella dell'« inversione dell'onere della prova » e poi a quella «contrattuale »: l'« inversione » attribuì l'onere della prova al datore di lavoro, mentre la teoria « contrattuale » gli impose anche la dimostrazione, per evitare il risarcimento, di aver usato la normale diligenza nel prevenire l'incidente (art. 1644 del Codice Civile del 1865: « L'imprenditore è responsabile dell'opera delle persone che ha impiegato »). Un ennesimo progresso fu segnato dalla teoria della « responsabilità obbiettiva », che trasferiva la responsabilità dalla persona alla cosa (art. 1153 C. C. 1865: «Ciascuno parimente è obbligato non solo pel danno che cagiona per fatto proprio ma anche per quello che viene arrecato col fatto delle persone delle quali deve rispondere, o delle cose che ha in custodia . . . »); essa preludeva a quella del « rischio professionale » attribuito al datore di lavoro come contraente più forte, indipendentemente da ogni misura precauzionale assunta per evitare il verificarsi del sinistro: questa teoria assicurava al lavoratore il risarcimento del danno in ogni caso, nell'ipotesi di infortunio.


(19) GINO LUZZATTO: « Storia economica dell'età moderna e contemporanea - Parte seconda: l'età contemporanea », CEDAM, Padova, 1948, pagine 321, 322, 323.

(20) GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA: «Il Gattopardo», Feltrinelli, Atilano, 1959, pag. 210.

(21) FRANCESCO FERRARA: «Rassegna di Finanza», in «Nuova Antoíogia, gennaio 1866.

(22) GINO LUZZATTO: «Storia economica deIl'età moderna e contemporanea - Parte seconda: l'età cont-,mporanea», CEDAM, Padova, 1948, pagine 352, 353.

(23) NICCOLO' RODOLICO: « Storia degli Italiani », Sansoni, Firenze, 1954, pagg. 910, 911.

(24) NICCOLO' RODOLICO, opera citata, pagg. 918, 919, 920.

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