Il
no alla riforma costituzionale è in vantaggio. La tv di Stato lo sa, ma non lo
dice
Augusto
Minzolini
Stranezze
del Belpaese. In queste settimane c'è stato un fiorire di sondaggi, su tutto e
su chiunque. Governo, partiti, banche, ma sullo scontro che sarà la madre di
tutte le battaglie nell'immaginario renziano, cioè il referendum sulle riforme
costituzionali, nessuno.
O
meglio, ce ne sono, ma non sono venuti alla ribalta. Ulteriore segno della
cappa mediatica che regna in Italia. Uno di questi sondaggi lo aveva una
trasmissione della tv pubblica, ma è rimasto nella scaletta, dimenticato nell'almanacco delle cose che si potevano dire e che non sono state dette. Eppure
quei dati sono curiosi e ancora di più il trend che rivelano, specie se messi a
confronto con i toni trionfalistici del premier.
Ebbene,
dallo studio in questione emerge che nel novembre scorso il 40% degli italiani
non sapeva nulla della riforma del Senato, mentre tra quelli che ne erano al
corrente il 31% avrebbe votato sì, il 21% avrebbe votato no, mentre l'8% non
era intenzionato in ogni caso ad andare a votare.
A
gennaio, in base ad un campione raccolto la scorsa settimana, la situazione è
cambiata. Di molto. Addirittura si è capovolta. Il numero degli elettori
completamente all' oscuro del tema è sceso al 30%, gli irremovibili del «non
voto» sono rimasti quelli che erano e, con grande scorno del premier, i no si
sono ritrovati ad avere 10 punti di vantaggio rispetto ai sì.
Insomma,
il trend è per ora completamente sfavorevole alle mire renziane.
Certo
manca ancora molto tempo, anche se il premier ha tentato di anticipare il
referendum da ottobre a giugno per farlo coincidere con le amministrative. «Ci
ha provato e ci riproverà - conferma il capogruppo di Sel al Senato, Loredana
De Pretis, che ha buoni contatti in Cassazione -: dipende tutto da Mattarella».
Ma,
al di là della data di svolgimento della consultazione, sicuramente Renzi
scommette molto sulle elargizioni di primavera per risalire nelle simpatie
degli italiani (il suo gradimento ora è al 29%) e per vincere il duello
referendario: per essere più chiari, confida molto nell' entrata in vigore
della card da 500 euro per la cultura dei diciottenni e nell'abolizione della
prima rata dell'Imu a giugno. Anche tenendo conto di questi atout, però, la
scelta del premier di giocare l'intera posta sulla vittoria nel referendum
appare, più che una mossa azzardata, quasi un peccato di arroganza.
Simile
a quello che commise Massimo D'Alema nella primavera del 2000, quando puntò
tutto sulla vittoria nelle elezioni regionali, che si conclusero invece con una
caporetto per il centrosinistra e con la sua cacciata da Palazzo Chigi: i due
si odiano, ma in fondo si somigliano.
Già,
Renzi rischia davvero di perdere i referendum, di rimediare una sonora batosta.
Come
gli capita spesso, infatti, dà per scontati elementi tutti da verificare.
Ad
esempio, la campagna che gli è più congeniale, quella basata sullo schema «il
nuovo contro il vecchio» poteva convincere se il protagonista fosse stato il
Renzi neo-inquilino di Palazzo Chigi, ma è trita e ritrita in bocca al Renzi di
oggi, quello che per fare passare la riforma del Senato utilizza le poltrone
delle commissioni parlamentari o mercanteggia sul rimpasto di governo.
Neppure
i democristiani di un tempo - va detto - avrebbero usato questi metodi, che
pure gli erano congeniali, per cambiare la Costituzione. E anche lo slogan
«manderemo a casa i senatori» rischia di non solleticare più molto le pance del
populismo nostrano, colpa delle delusioni patite dall' opinione pubblica per
riforme gridate ai quattro venti che hanno partorito solo topolini.
I
nove milioni di spettatori dell'ultimo film di Checco Zalone, ad esempio, hanno
scoperto, grazie alle vicissitudini del protagonista, che le tanto vituperate
Province non sono state abolite, ma hanno solo cambiato nome. Più o meno quello
che succederà con il Senato.
Pur
potendo mettere in campo un efficace bombardamento mediatico, Renzi ha di
fronte, quindi, problemi ben più grandi di quelli che pensa di avere: e,
soprattutto, per la prima volta dovrà fare i conti con il suo logoramento nel
rapporto con il Paese. Un logoramento che, invece, è ben chiaro nella mente dei
tanti avversari che lo assediano.
E
qui emerge un altro «handicap» del premier. Certo il fronte del no è diviso in
molti comitati elettorali, mette insieme il diavolo e l'acqua santa,
anti-berlusconiani da sempre come Zagrebelsky & company e lo stesso
Cavaliere, estrema sinistra e leghisti, cattolici conservatori e laici
estremisti, ma l' obiettivo che unisce le varie anime dello schieramento è
chiaro ed estremamente semplice: mandare a casa Renzi.
Di
fatto lo ha fornito lo stesso premier, impostando il referendum come un
plebiscito sul suo nome.
Il
sì, invece, avrà un solo comitato nel quale, però, albergheranno mille giochi.
Chi chiede a Pier Luigi Bersani, per fare un nome, se spera nella vittoria dei
sì, può ricevere una risposta che può sorprendere solo qualche sprovveduto: «Ma
chi l'ha detto che sono da quella parte della barricata?». Parole provocatorie
che si ritrovano anche sulla bocca di personaggi come Gotor e di altri
esponenti della minoranza del Pd.
E,
a ben guardare, pure i potenziali grandi alleati del premier, hanno
atteggiamenti enigmatici. «Durante l'intervento di Renzi in Senato sulle
riforme - racconta il senatore di Ncd, Luigi Compagna - Napolitano è stato
tutto il tempo a bofonchiare per esprimere il proprio disappunto anche se il
premier lo copriva di lodi. Ad un certo punto gli ho detto: Presidente, ma lo
hai voluto tu!. E lui mi ha risposto: Caro Luigino vedo che non sei informato
bene...».
Il
continuo movimentismo di Renzi aggiunge, infatti, alla guerriglia degli
avversari interni anche la diffidenza di quelli che sulla carta dovrebbero
essere degli alleati. La polemica contro la Ue, l'attacco alla politica dell'
austerity, che il premier ha agitato per uscire dal cul de sac dello scandalo
di Banca Etruria, sono stati interpretati da Napolitano - inventore del governo
Monti, assertore del dogma «prima di tutto la Ue» - come un mezzo tradimento.
Le «nuove tesi» del premier sull' Europa, infatti, finiscono fatalmente per
metterlo sul banco degli imputati della Storia.
Così,
l'elenco degli avversari più o meno dichiarati di Renzi continua ad allungarsi.
Per
molti di loro la sconfitta del premier nel referendum può rivelarsi come lo
strumento più efficace e più pulito per liberarsene senza sporcarsi le mani.
Diranno: è stato il Paese a decidere. E nel Paese i numi tutelari di Renzi
nelle aule di questo scassato Parlamento, cioè i vari Alfano e Verdini, contano
davvero poco.
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