NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 13 maggio 2016

Il Libro azzurro sul referendum - premessa II parte


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Premessa, II parte

5) La legge sul «referendum»

Prima di fissare la data del referendum sarebbe stato necessario risolvere due problemi, due punti basilari, come li chiamava un corrispondente del «New York Times» il 26 gennaio 1946 : 1) il ritorno in Patria dei prigionieri di guerra che assommavano a circa mezzo milione; 2) la firma del trattato di pace che definisse le frontiere italiane.

Il primo punto era stato segnalato alla Consulta dall'On. Marazzini in questi termini: «Dieci milioni di italiani, disseminati in tutte le parti del mondo, 500.000 prigionieri, ancora chiusi nei campi di concentramento, sono assenti, e nell'impossibilità di partecipare al voto. A questi Italiani, privi del diritto di voto, sono da aggiungere 300.000 profughi dalle colonie che fecondarono con  il loro sudore, ed i moltissimi altri profughi che la guerra in Italia ha sparpagliato, lontani dalle loro abituali residenze, dove dovrebbero esercitare il loro diritto di voto... La situazione delle masse elettorali della provincia di Gorizia, quella di Trieste nostra, quelle di Pola, di Fiume, di Zara non possono essere dimenticate. Questi sono i problemi che è indispensabile porre e risolvere, perché se non si dovesse trovare soluzione opportuna, si priverebbero nel  complesso milioni di Italiani dal diritto di voto ».

Analoghe dichiarazioni fece il Rettore della Regia Università di Torino Allara alla consulta il 14 febbraio 1946: «Si deve, riconoscere al popolo di partecipare alla formazione della nuova carta costituzionale attraverso un referendum che risolva il problema costituzionale e stabilisca i limiti di tempo e di materia dei poteri della costituente».

Il Ministero del « referendum » non volle ascoltare quelle voci e il 16 marzo 1946 decise il rinvio dei comizi elettorali della Venezia Giulia e della provincia di Bolzano, e non volle tener conto né degli italiani all'estero, né dei profughi, né dei prigionieri di guerra.

Il 28 maggio 1946 il Senatore Alberto Bergamini ancora ammoniva: «tre milioni di italiani non potranno esercitare il loro diritto di voto, voto che sarebbe certo per noi, perché i cittadini della Venezia Giulia non potrebbero associarsi ai comunisti rinunciatari di quelle sacre terre italiane dove, Tito imperversa e prepara il giogo rosso... » .

La legge per la costituente fu approvata con questa votazione: su 440 consultori, presenti e votanti 222, maggioranza 112; risposero « si » 172; risposero « no » 50.
I favorevoli rappresentano il 40 per cento dei consultori.

Balza evidente da tutto questo che la volontà del popolo non è stata giuridicamente perfetta, perché il soggetto di tale volontà non risulta di tutti gli elementi, dei quali doveva essere costituito, perché la volontà manifestata avesse valore giuridico. I fanatici del metodo democratico - la frase tanto abusata - presenti ai Consigli dei ministri lasciarono correre su questa violazione dello spirito e della forma di vera democrazia.

Il dottor Michael Chinino, direttore dell’International News Service, così riferisce l'intervista avuta con il Re dopo varata la legge del referendum: «Alla mia domanda sulla tempestività del referendum e all'osservazione che circa quattro milioni di Italiani, prigionieri di guerra, abitanti in zone ancora contestate, e vari altri che non hanno potuto avere la scheda elettorale, e sono nella impossibilità di votare, S.M. si rabbuia in viso: «Noi non possiamo nascondere la nostra preoccupazione - Egli dice - per il fatto che molti Italiani, ed in particolare i prigionieri di guerra e gli abitanti di territori ancora contestati, non possono esprimere la loro opinione in un momento nel quale la volontà di ogni cittadino italiano non può legittimamente essere ignorata».

Vien fatto di chiedere: perchè non si volle che i reduci della prigionia partecipassero al referendum? Perché la ostilità dimostrata da migliaia di reduci sbarcati nei porti dell'Adriatico alle rappresentanze di comunisti venuti loro incontro, non dava affidamento che potessero essere attruppati al seguito di comunisti. Quei prigionieri avevano troppo patito nei Paesi retti da comunisti. Quanto poi ai milioni di Italiani emigrati, il loro vecchio patrimonio di idealità, conservato per la patria lontana, anche questo dava poco affidamento ai negatori di quelle idealità.

Non solo per quello che mancava in questa legge si resta perplessi nel giudicarla ma anche per qualcosa che essa aveva di equivoco. L'ultimo capoverso dell'articolo II: «Qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci a favore della Monarchia continuerà l'attuale regime luogotenenziale    fino all'entrata in vigore delle deliberazioni dell'Assemblea sulla nuova Costituzione e sul Capo dello Stato ». Si sarebbe insomma di nuovo messa in alto mare la questione istituzionale anche dopo il referendum se favorevole alla Monarchia. Era una carta di riserva delle sinistre, e che si doveva alla sottigliezza dell'avvocato Brosio allora ministro e poco dopo ambasciatore della repubblica presso il governo sovietico.

Non va dimenticata la discussa vicenda per la scelta dei simboli delle schede. Da parte governativa vi fu fino all'ultimo opposizione a mettere per la Monarchia il simbolo della Corona; sull'argomento vi furono discussioni vivaci tra l'on Alcide De Gasperi e il Ministro della Real Casa Falcone Lucifero. I repubblicani ottennero di mettere «la corona» turrita nel simbolo della scheda per la repubblica.


6) La votazione

A due anni di distanza del referendum, alla vigilia delle elezioni politiche del 18 aprile il ministro che aveva il portafoglio dell'Interno, già tenuto dal Romita, lo Scelba, pronunziò a Roma in piazza del Popolo un discorso elettorale. Il giornale La Stampa di Torino così riferiva: «Il successo maggiore è toccato al ministro dell'Interno quando è tornato sul tema di Romita. Ha detto che, stavolta non si avranno brogli elettorali come quelli che si ebbero il 2 giugno. Dallo scrutinio dei risultati di una sezione risultava che tutti avevano votato per la repubblica. Ma il presidente disse: « Qui è un pasticcio senza dubbio. Mia moglie ha detto di avere votato per la Monarchia e mia figlia lo stesso. Possono avere detto una bugia come fanno le donne facilmente; ma il mio voto, per lo meno ci deve essere. Io ho ben votato per la Monarchia. La mia scheda dove è andata a finire? Così la folla si divertiva».

Chi la faceva così divertire era un ministro della repubblica

Quanti furono i votanti?

Il verbale della Corte di Cassazione del 10 giugno preannunciava: «La Corte in altra adunanza indicherà il numero complessivo degli elettori votanti». Nel verbale del 18 giugno giugno non ve ne è traccia, e la omissione non fu certo casuale.

Sommando il numero dei voti per la repubblica,  quale risulta dall'ultimo verbale della Corte con la cifra dei voti per la Monarchia e con quella dei voti nulli, si raggiunge la somma di circa venticinque milioni (24.935.343).

Orbene non era possibile, secondo dati ufficiali i dell'Istituto di Statistica, che circa venticinque milioni avessero  votato. I dati relativi: a) alla entità della popolazione italiana b) alla percentuale di maggiori di ventun  anni, cioè elettori; c) agli elettori defunti assenti, inabilitati, impossibilitati; d) ai numerosissimi certificati elettorali non consegnati ai vari destinatari, portano concordemente a stabilire che fra il numero degli aventi diritto al voto e il numero dei votanti quali risultano dalle cifre ufficiali vi è uno scarto in più di votanti di circa due milioni. A chi andarono questi 2 milioni di voti inventati? 

7) Come si giunse alla seduta della Corte di Cassazione del 10 giugno

Ma prescindiamo anche da tutte queste cifre; la discussione trova legittimamente materia sul terreno legale, ove si consideri il criterio con cui fu stabilita la cifra di  maggioranza. Si considerarono elettori votanti soltanto quelli il cui il voto fu riconosciuto valido. A combattere queste tesi valgano le osservazioni dei Procuratore Generale della Corte di Cassazione, esposte pubblicamente nella sua relazione alla Corte: «Non solo la lettera della legge impone di interpretare il termine «elettori votanti» nel senso di elettori che hanno comunque compiuto le operazioni di votazione, non solo i principii del diritto e la nostra tradizione, ma anche e soprattutto lo spirito della legge, se la legge mira, come è, a costituire precisamente un sistema di garanzie per la formazione della volontà collettiva».

Tale questione fu svolta con chiaro acuto senso di giustizia dall’On. Enzo Selvaggi nel ricorso presentato alla Corte di Cassazione.

La legge sui referendum stabiliva all'articolo 17 che la Corte avrebbe dovuto proclamare l'esito solo dopo che fossero pervenuti i verbali di tutti gli uffici di circoscrizione. Sino al giorno 10 mancavano i verbali di 118 sezioni e i verbali mandati - come risulta dal verbale della Cassazione del 10 giugno - erano in gran parte incompleti.

I ricorsi presentati turbarono l'euforia di coloro che, entro il Governo e fuori, intendevano di bruciare i tempi, e far subito proclamare dalla Cassazione l'avvento della repubblica.

Il ministro, guardasigilli, Togliatti, nei giorni 8 e 9 giugno sollecitò il Presidente, della Cassazione, Pagano, perché si affrettasse a proclamare l'esito del referendum. Alle osservazioni del Presidente che occorreva prima esaminare verbali e reclami, il Guardasigilli rispose che la Cassazione non aveva altro compito, se non quello di controllare la somma dei dati risultanti dei verbali. Alla qualcosa il Presidente rispose che quello sarebbe stato un incarico adatto ad un ragioniere e non alla Corte di Cassazione. Sta di fatto che sino a tutto il 10 giugno non solo mancavano i verbali di 118 Sezioni, ma dovevano essere ancora esaminati i ricorsi, e si doveva indicare il numero degli elettori votanti e quello dei voti nulli. Ma la Suprema Corte di Cassazione si trovava e si trovò nella impossibilità di poter accertare l’esatta entità dei voti annullati e delle schede bianche, in quanto che moltissimi seggi elettorali all'atto dello scrutinio non verbalizzarono i dati relativi alle schede non ritenute valide ed anzi addirittura distrussero le schede stesse senza allegarle al verbale dello scrutinio. Talvolta i dati furono scritti a lapis. Solo circa 1/3 delle Corti di appello furono in grado di inviare alla Corte di Cassazione i plichi contenenti le schede annullate, così che non fu possibile un controllo su scala nazionale del come  e del perché fu annullata l’enorme cifra di un milione e mezzo di voti.

Fallita l'azione del Guardasigilli presso il Presidente della Cassazione, il Romita cercò altre vie, anzi viottoli, per raggiungere lo scopo, perché la Corte si riunisse il giorno dopo, la domenica 9 giugno.
La narrazione di questa brutta vicenda nella «Storia  segreta di un mese di Regno», desta penosa impressione; alla illegalità si aggiunge la più deplorevole scorrettezza. (1).

Il presidente della Cassazione, sollecitato ancora, indisse la, seduta per il giorno 10 giugno.

Quella che doveva essere la solenne proclamazione della Repubblica si ridusse alla comunicazione dei risultati pervenuti. La Corte faceva le seguenti riserve : a) mancano i verbali di centodiciotto sezioni; b) dovranno essere ancora esaminati reclami e contestazioni; c) resta da indicare il numero complessivo dei votanti; d) resta da stabilire il numero dei voti nulli. La Corte comunicava che «emetterà in altra adunanza il giudizio definitivo sulle contestazioni, si indicherà il numero complessivo degli elettori votanti e di quello dei voti nulli ».

La Corte dunque rimandava la definitiva proclamazione; il Re continuava ad essere il Re.

8) Il governo e il Re dopo l’11 giugno

La decisione presa dal Consiglio dei ministri la notte dal 12 al 13 giugno di prendere atto della comunicazione dei risultati del referendum fatta il 10 giugno, di dichiarare il governo garante del voto di maggioranza, e di riconoscere capo provvisorio dello Stato il presidente dei ministri, fu atto rivoluzionario. Il «Manchester Guardian» di Londra diede notizia che Stone aveva espresso la sua personale opinione che l'annuncio della Suprema Corte fosse indefinito; la stessa osservazione fu attribuita all'ambasciatore a Roma Sír Noel Charles.

Il « Times » commentò «il Governo italiano si è cacciato con le sue mani :ti una situazione imbarazzante. Esso deve essere biasimato per l'affrettata proclamazione ».

Si metta a confronto il testo dell'ordine del giorno del Consiglio dei ministri suddetto della notte sul 13 giugno e la comunicazione ufficiale della Presidenza del  ministri per  l’insediamento dell'On. De Nicola  a capo provvisorio dello Stato. Nel primo dei due documenti è nominato l'On. De Gasperi per      l’esercizio    delle funzioni di Capo provvisorio dello Stato ope legis. Nel documento l'On De Gasperi - è detto - ha trasmesso il 1° luglio 1946 i poteri di Presidente della repubblica da lui esercitati nella sua qualità di presidente del Consiglio dal giorno dell'annuncio dei risultati definitivi del referendum istituzionale. I risultati definitivi sono del 18 giugno dopo la seconda seduta della Carte di Cassazione dello stesso giorno è datato un ordine del giorno del Consiglio dei ministri che «prende atto del giudizio definitivo della Corte di Cassazione».


Dal 13 al 18 dunque l'assunzione dei poteri di Capo provvisorio dello Stato non era legale.

Non aveva dunque il diritto, anzi il dovere, il Re di protestare e di chiamare gesto rivoluzionario quello compiuto dal Consiglio dei Ministri nella notte dal 12 al 13 giugno?

La storia segreta di un mese di Regno riporta i verbali dei Consigli dei  ministri di quei giorni dal 12 al 18 giugno. Penosa lettura è quella per la faziosità e la scorrettezza di condotta. Com'era lontano lo spirito del Mazzini in quel momento in cui nasceva questa repubblica.

I tre documenti ufficiali del momento più acuto della crisi: il proclama del Re del 13 giugno, il comunicato della presidenza dei Consiglio della notte sul 14 giugno, il radio discorso del presidente del Consiglio del 14 giugno sono documenti in cui più che di fronte ad elementi giuridici per impostare questioni giuridiche, ci si trova di fronte, ad una questione morale. La qualifica di «mendacio», «fazioso», lanciata al Re per il suo proclama rivela semplice gratuita calunnia. La lealtà, la generosità la regalitá con cui S.M. Umberto II è stato sempre al di sopra delle fazioni, la pronta accettazione del sacrificio per l'amore dell'Italia, la sua azione personale per evitare la guerra civile: tutto questo balza fuori dalle parole e dalla condotta del Re.

Restare fino al responso definitivo della Cassazione, ritirarsi a Napoli nell'attesa di esso, erano stati consigli a lui dati, e che poggiavano su ragionevoli argomenti. A Napoli in quei giorni le dimostrazioni monarchiche erano state dalla polizia del Romita represse nel sangue.

«I lazzaroni del Re» - così con disprezzo erano chiamati quei popolani - erano gli stessi che nelle vie di Napoli per tre giorni furiosamente e sanguinosamente - avevano combattuto i tedeschi. Nessuna città italiana può vantare, più di Napoli, giornate così gloriose una lotta di popolo contro lo straniero senza macchie di lotta civile.

Il Re non volle ritirarsi a Napoli. «La mia Casa - disse - ha unito l'Italia. Andando a Napoli la dividerei... Non voglio un trono macchiato di sangue. Mi sono costantemente preoccupato di non intaccare la compattezza delle forze armate. E' sopratutto per questo che, come militare, cercai fin che fu possibile, di giungere ad un regolare trapasso di poteri».

L’amore all'Italia è questa la passione che Lo tormenta e Lo sorregge.

Dalla formazione del Ministero del Referendum all'assunzione dei poteri di Capo provvisorio dello Stato da parte dei presidente del Consiglio dei Ministri, nella via che. condusse alla Repubblica, da tappa a tappa, il fardello di illegalità sempre più si appesantisce.

Il punto di partenza tra uno stato di animo che per bruschi radicali e ripetuti capovolgimenti di situazioni, per il disorientamento che lo aveva turbato, per le passioni che lo infiammavano non si trovava nelle condizioni per un giudizio consapevole e sereno. Il fardello è già pesante fin da principio per l'assurda esclusione di una parte del popolo italiano alla partecipazione di manifestazioni dì volontà collettiva, che doveva decidere dell'assetto fondamentale dello Stato. E fin da quella prima tappa la mancanza di assoluta indipendenza nel collegio votante era dovuta alla non ancor definita posizione internazionale italiana ed alla perdurante occupazione di potenze straniere. Il fardello era già pesante in partenza per l'esistenza di un governo di autoinvestitura che tendeva ad un risultato predeterminato, Nel cammino si aggiungono altre deficienze ed irregolarità, anche in rapporto alle stesse leggi che disciplinavano il referendum e culminarono nella circostanza, in fatto di valore determinante della assunzione dei poteri di Capo di Stato da parte del presidente del Consiglio anteriormente alla pronuncia della Cassazione del 18 giugno, e nella mancanza in tal pronuncia, dell'essenziale requisito del numero dei votanti.

Il «Times» scrisse in quei giorni: «Bisogna riconoscere che la maggioranza che i repubblicani hanno riportato nelle elezioni di domenica scorsa è in notevole contrasto colla maggioranza di 100 a 1 che innalzò al trono Vittorio Emanuele II ed è improbabile che i monarchici convinti accettino come definitivi i risultati del referendum.

In realtà sono i risultati di questo esame che non danno alle coscienze oneste quella tranquillità morale, che, sola, avrebbe potuto determinare nei monarchici l'accettazione definitiva dì un risultato inviso, e giustificare nei repubblicani, che vagheggiassero non già una repubblica comunque sorta, bensì una repubblica fondata su di un atto di nascita, esente da vizi ed ispirata a legalità e giustizia, il ragionevole rifiuto alla revisione e rinnovazione dei referendum.

Niccolò Rodolico - Vittorio Prunas Tola

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