La prefazione
di Fisichella , iniziando con il ricordo
e le motivazioni
che Luigi Einaudi, scrisse alla
vigilia del referendum
del 1946 , per spiegare
il “Perché voterò
per la Monarchia”, si sofferma
sulla figura dei
tre personaggi sabaudi
per spiegare il
senso di costruttori
dello stato, che li
differenzia da altri
pur illustri e meritevoli
sovrani della millenaria
dinastia, che Croce definì
nella sua “Storia
d’Europa”, uscita nel 1932, come “la più
antica stirpe sovrana
che rimanesse in
Europa”. E per questo
compito di illustrarne, sia pure
in sintesi, la vita
e le realizzazioni
la scelta di
tre illustri storici
e cattedratici che, scrive
Fisichella ,”..si
caratterizzano per spirito
di libertà intellettuale, per chiarezza
di informazione e
per serenità di
giudizio”, punto questo finale
che distingue l’autentico
storico, dai tanti dilettanti
della storia ed
ancor peggio dai
tanti che ne
scrivono con la
mente offuscata dalla
ideologia o dalla
passione politica.
Pietro Silva, infatti non
tace alcuni caratteri negativi del principe, ma
ne sottolinea le
doti di comandante
e di uomo di
azione, malgrado le tristi
condizioni iniziali in
cui si era
trovato a vivere
da ragazzo, sottolineando ad
esempio il severissimo
proclama alle truppe , all’inizio del
suo comando,”…diretto a
proibire, con minacce di
pene tremende, le violenze
e le rapine
e l’indisciplina dei
soldati”, sicuramente
ispiratogli dal quadro
delle devastazioni soldatesche
avvenute nel suo
ducato, che appunto dovette
ricostruire dalle fondamenta, quando lasciò
il comando supremo
dell’esercito imperiale. In questa
ricostruzione, per cui fu
anche definito “il
secondo fondatore di Casa Savoia”, spicca la decisione,
rivelatasi determinante per
il futuro della
dinastia, di trasferire la
capitale da Chambery
a Torino ed il
rafforzamento delle strutture
difensive e dello
spirito militare della
popolazione, di cui Silva
ricorda successivi episodi, oggi
sicuramente sconosciuti, che testimoniano
lo stretto legame tra
i principi ed il
popolo, consolidatosi
proprio con Emanuele
Filiberto, principe “italiano”,
come lo
definì un ambasciatore
veneto, il Lippomano, in una
relazione al suo
governo.
La
non facile figura
del secondo personaggio, Carlo Alberto, è
trattata con obiettività
ed ampiezza di
riferimenti, da Ettore
Rota, senza sottacere le
vicende del marzo
1821, quando con la concessione
della Costituzione,
effettuata come Reggente, salvo l’approvazione del
Re Carlo Felice, che
si trovava a
Modena, il quale non
riconobbe tale concessione, nacque la
leggenda nera di
questo Principe, che faticò
tutto il resto
della sua vita per cancellare
le accuse di
tradimento, o le definizioni
un po’ più
benevole di “italo
Amleto”, o “Re tentenna”, o
come disse il
Santarosa , pure monarchico e
“suddito affezionato al
Re e leale
piemontese” ,”voleva e disvoleva”, per cui
Carducci, in una mirabile
sintesi parlò “…del Re per
tant’anni bestemmiato e
pianto…”. In questa analisi
del Rota largo
spazio è poi
dedicato alle riforme
amministrative e militari, e
da qui il
“costruttore”, che
favorirono e poi
portarono alla sia pure
sofferta concessione dello
Statuto, la carta costituzionale che
dal Piemonte divenne
la Carta del
Regno d’Italia, fino al
1946.
E da
questa fedeltà allo
Statuto, ed al mantenimento
della bandiera tricolore , anche dopo
la sconfitta di
Novara nel 1849, il
nuovo Re, Vittorio Emanuele
II, come tratteggiato nel
suo saggio da
Francesco Cognasso, trasse la
forza politica e
morale, grazie prima al
D’Azeglio e poi
ancor meglio al
Cavour, di diventare il
punto di riferimento
di quanti si
battevano per la
indipendenza dell’ Italia,
non più
soggetta a principi
stranieri, e retta da un
regime costituzionale e liberale,
opera che fu
appunto realizzata con
questo Sovrano, che va
valutato nel suo
significato storico di
garante all’interno ed
all’estero del nuovo
Stato unitario e di
mediatore tra forze
ed uomini non
sempre concordi, e non per i suoi fatti personali
e privati.
Con Vittorio
Emanuele II, la costruzione statale iniziata
con lungimiranza da
Emanuele Filiberto, giungeva a
compimento , dando il giusto
posto al padre, il
Re che voleva fare
l’Italia, ma che se
fallì allo scopo per
eventi superiori alle
forze a sua
disposizione, ne gettò le
basi per il
figlio, che ne seppe
essere degno e
di questa dignità
e continuità dinastica, nel 1859, all’inizio della
seconda Guerra d’ Indipendenza, partendo con
l’esercito, nel timore che
gli austriaci, tardando l’arrivo
delle alleate truppe
francesi, potessero giungere a
Torino, così scriveva al
Ministro della Real
Casa, Giovanni Nigra: “Io
proverò a sbarrare
la via di
Torino; se non ci riesco
e che il
nemico avanzi, ponete al
sicuro la mia
famiglia ed ascoltate
bene questo: vi
sono al Museo
delle Armi quattro bandiere
austriache prese dalle
nostre truppe nella
campagna del 1848
e la deposte
da mio Padre. Questi
sono i trofei
della sua gloria. Abbandonate tutto, al bisogno, valori, gioie, archivi, collezioni,
tutto ciò che
contiene questo palazzo, ma
mettete in salvo
quelle bandiere. Che io le
ritrovi intatte e
salve, come i miei
figli. Ecco tutto quello
che vi chiedo, il
resto non è
niente”.
Domenico Giglio
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