NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 3 maggio 2016

Costruttori dello Stato – Sovrani di Casa Savoia


La  Biblioteca  di  Storia  e  Politica, diretta  da  Domenico  Fisichella, ed  edita da  “Pagine”, è  giunta  già  al  suo  terzo  volume  dedicato  ai  profili  che   tre  grandi  storici, Pietro  Silvia, Ettore  Rota, e  Francesco  Cognasso  hanno  dedicato  a  fondamentali  sovrani  di  Casa  Savoia, Emanuele  Filiberto, Carlo  Alberto  e  Vittorio  Emanuele II.

La  prefazione  di  Fisichella , iniziando  con  il  ricordo  e  le  motivazioni  che  Luigi  Einaudi, scrisse  alla  vigilia  del  referendum  del  1946 , per  spiegare  il  “Perché  voterò  per  la   Monarchia”, si  sofferma  sulla  figura  dei  tre  personaggi  sabaudi  per  spiegare  il  senso  di  costruttori  dello  stato, che  li  differenzia  da  altri  pur  illustri  e meritevoli  sovrani  della  millenaria  dinastia, che  Croce  definì  nella  sua  “Storia  d’Europa”, uscita  nel  1932, come “la  più  antica  stirpe  sovrana  che  rimanesse  in  Europa”. E  per  questo  compito  di  illustrarne, sia  pure  in  sintesi, la  vita  e  le  realizzazioni  la  scelta  di  tre  illustri  storici  e  cattedratici  che, scrive   Fisichella ,”..si  caratterizzano  per  spirito  di  libertà  intellettuale, per  chiarezza  di  informazione  e  per  serenità  di  giudizio”, punto  questo  finale  che  distingue  l’autentico  storico, dai  tanti  dilettanti  della  storia  ed  ancor  peggio  dai  tanti  che  ne  scrivono  con  la  mente  offuscata  dalla  ideologia  o  dalla  passione  politica.

Pietro  Silva, infatti  non  tace  alcuni  caratteri negativi    del  principe, ma  ne  sottolinea  le  doti  di  comandante  e  di uomo  di  azione, malgrado  le  tristi  condizioni  iniziali  in  cui  si  era  trovato  a  vivere  da  ragazzo, sottolineando  ad  esempio  il  severissimo  proclama  alle  truppe , all’inizio  del  suo  comando,”…diretto  a  proibire, con  minacce  di  pene  tremende, le  violenze  e  le  rapine  e  l’indisciplina  dei  soldati”, sicuramente  ispiratogli  dal  quadro  delle  devastazioni  soldatesche  avvenute  nel  suo  ducato, che  appunto  dovette  ricostruire  dalle  fondamenta, quando  lasciò  il  comando  supremo  dell’esercito  imperiale. In  questa  ricostruzione, per  cui  fu  anche  definito  “il  secondo  fondatore  di  Casa  Savoia”, spicca  la  decisione, rivelatasi  determinante  per  il  futuro  della  dinastia, di  trasferire  la  capitale  da  Chambery  a  Torino  ed il  rafforzamento  delle  strutture  difensive  e  dello  spirito  militare  della  popolazione, di  cui  Silva  ricorda  successivi  episodi, oggi  sicuramente  sconosciuti, che  testimoniano  lo  stretto legame  tra  i  principi  ed il  popolo, consolidatosi  proprio  con  Emanuele  Filiberto, principe  “italiano”, come  lo  definì  un  ambasciatore  veneto, il  Lippomano, in  una  relazione  al  suo  governo.

La non  facile  figura  del  secondo  personaggio, Carlo  Alberto, è  trattata  con  obiettività  ed  ampiezza  di  riferimenti,  da  Ettore  Rota, senza  sottacere  le  vicende  del  marzo  1821, quando  con  la  concessione  della  Costituzione, effettuata  come  Reggente, salvo  l’approvazione  del  Re  Carlo  Felice, che  si  trovava  a  Modena, il  quale  non  riconobbe  tale  concessione, nacque  la  leggenda  nera  di  questo  Principe, che  faticò  tutto  il  resto  della  sua  vita  per  cancellare   le  accuse  di  tradimento, o  le  definizioni  un  po’  più  benevole  di  “italo  Amleto”, o  “Re  tentenna”, o  come  disse  il  Santarosa , pure  monarchico  e  “suddito  affezionato  al  Re  e  leale  piemontese” ,”voleva  e  disvoleva”, per  cui  Carducci, in  una  mirabile  sintesi  parlò  “…del  Re  per  tant’anni  bestemmiato  e  pianto…”. In  questa  analisi  del  Rota  largo  spazio  è  poi  dedicato  alle  riforme  amministrative  e  militari, e  da  qui  il  “costruttore”, che  favorirono  e  poi  portarono alla  sia  pure  sofferta  concessione  dello  Statuto, la  carta  costituzionale  che  dal  Piemonte  divenne  la  Carta  del  Regno  d’Italia, fino  al  1946.

E  da  questa  fedeltà  allo  Statuto, ed  al  mantenimento  della  bandiera  tricolore , anche  dopo  la  sconfitta  di  Novara  nel  1849, il  nuovo  Re, Vittorio  Emanuele  II, come  tratteggiato  nel  suo  saggio  da  Francesco  Cognasso, trasse  la  forza  politica  e  morale, grazie  prima  al  D’Azeglio  e  poi  ancor  meglio  al  Cavour, di  diventare  il  punto  di  riferimento  di  quanti  si  battevano  per  la  indipendenza  dell’ Italia, non  più  soggetta  a  principi  stranieri, e retta  da  un  regime  costituzionale  e  liberale, opera  che  fu  appunto  realizzata  con  questo  Sovrano, che  va  valutato  nel  suo  significato  storico  di  garante  all’interno  ed  all’estero  del  nuovo  Stato  unitario   e  di  mediatore  tra  forze  ed  uomini  non  sempre concordi, e  non  per  i  suoi  fatti  personali  e  privati.

Con  Vittorio  Emanuele  II, la costruzione  statale   iniziata  con  lungimiranza  da  Emanuele  Filiberto, giungeva  a  compimento , dando  il  giusto  posto  al  padre, il  Re  che voleva  fare  l’Italia, ma che   se  fallì   allo  scopo  per  eventi  superiori  alle  forze  a  sua  disposizione, ne  gettò  le  basi  per  il  figlio, che  ne  seppe  essere  degno   e  di  questa  dignità  e  continuità  dinastica, nel  1859, all’inizio  della  seconda  Guerra  d’ Indipendenza, partendo  con  l’esercito, nel  timore  che  gli  austriaci, tardando  l’arrivo  delle  alleate  truppe  francesi, potessero  giungere  a  Torino, così  scriveva  al  Ministro  della  Real  Casa, Giovanni  Nigra:  “Io  proverò  a  sbarrare  la  via  di  Torino; se non  ci  riesco  e  che  il  nemico  avanzi, ponete  al  sicuro  la  mia  famiglia  ed  ascoltate  bene  questo:  vi  sono  al  Museo  delle Armi   quattro  bandiere  austriache  prese  dalle  nostre  truppe  nella  campagna  del  1848  e  la  deposte  da  mio  Padre. Questi  sono  i  trofei  della  sua  gloria. Abbandonate tutto, al  bisogno, valori, gioie, archivi, collezioni, tutto  ciò  che  contiene  questo  palazzo, ma  mettete  in  salvo  quelle  bandiere. Che  io  le  ritrovi  intatte  e  salve, come  i  miei  figli. Ecco  tutto  quello  che  vi  chiedo, il  resto  non  è  niente”.


Domenico  Giglio

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