Nel 70° anniversario dell'ascesa al trono di Re Umberto e della di poco successiva instaurazione della repubblica anche noi celebriamo, a modo nostro, l'evento.
Si ringraziano i membri dello Staff per aver trovato e reso disponibile il libro.
PREMESSA
1) Questione politica e questione morale
Nel generale turbamento degli spiriti che
precedette ed accompagnò il tempo del referendum, uno sprazzo di luce parve rompere la
nuvolaglia ed indicare una via: il senso di giustizia da secoli radicato nella
coscienza dei nostro popolo. Il quale, di fronte alla questione istituzionale,
preferì alla soluzione rivoluzionaria, l’espressione della propria volontà
manifestata con il referendum.
Ci si riconduceva in certo modo al momento
storico del Risorgimento, ai plebisciti che furono base morale, oltre che politica
e giuridica, della formazione del Regno d’Italia.
Come allora, anche ora, la questione non
era politica era profondamente morale.
Coloro che erano chiamati a preparare la legge del referendum e a farla eseguire assumevano di fronte al
popolo italiano una responsabilità, che era anche di ordine morale. Essi erano
chiamati ad essere esecutori di una volontà di giustizia.
Ma oggi a sei anni di distanza dal referendum perdura
un pesante strascico di dubbi sulla validità del procedimento tenuto. Non è
rimpianto di sentimentali, non è come con brutta parola è stato detto,
monarchismo, è senso di giustizia turbato, è questione morale.
Nella vita dei popoli come in
quella degli individui le questioni morali non si prescrivono; non vi sono
ragioni di opportunità che valgano a rimandarne la soluzione; sono sempre
questioni vive ed aperte. Poiché permanendo questo stato di animo turbato non è
possibile raggiungere
quella unità
morale della Nazione, che è stata, ed è termine di aspirazione degli
artefici del Risorgimento e degli apostoli veri della democrazia italiana.
Bisogna rasserenare le coscienze, ed
occorrendo, legalmente riparare. Procedere ad una revisione è dunque necessario
ed è sempre attuale per la imprescrittibilità delle questioni morali.
Come?
Anzitutto con l'esame dei documenti su cui le parti avverse nulla abbiano da
eccepire perché essi attestano dei fatti.
2)
Il ministero del referendum
Il
ministero che preparò la legge del referendum e che la eseguì, traeva le sue
origini e le fonti di sua autorità, non da un voto di popolo: esso era
emanazione dei partiti del comitato di liberazione nazionale non senza
interferenze delle Potenze occupanti. La proporzione in cui i vari partiti ivi
erano rappresentati non rispondeva alla loro reale consistenza del Paese. Lo
provarono, in seguito, le elezioni politiche,
e amministrative. E, come nei comitati di liberazione i partiti di sinistra
prevalevano, così nel Ministero dodici dei diciannove membri erano di sinistra.
Nessuno di essi monarchico.
Avevano
i posti chiave : Togliatti alla Giustizia e Romita agli Interni. Tre erano i
ministri democristiani. Il congresso del loro partito abilmente manovrato dai
dirigenti aveva fatto professione repubblicana, nonostante forti correnti
monarchiche. Dei due liberali, il Brosio teneva ad acquistarsi benemerenze
repubblicane e solo il Cattani, non per convinzione monarchica, ma per spirito
di lealtà, si oppose ripetutamente ai soprusi più gravi. Il De Courten si era
assegnato il compito di salvaguardare quanto rimaneva della flotta, si
dichiarava Ministro tecnico e non
politico e fino all'ultimo si comportò di conseguenza.
Nessuna
garanzia di imparzialità poteva essere data da un simile Governo ma né l'On.le
Parri, né l'On.le De Gasperi annuirono alle richieste del Luogotenente Generale
del Re di allargare le basi del Gabinetto. E quando il Generale Bencivenga, già
Comandante a Roma delle forze della Resistenza, rilevò alla Consulta che i sei
partiti al governo non
rappresentavano che il sedici per cento della popolazione, l'On.le Carlo Sforza, Presidente dell'Assemblea, gli tolse la parola mentre i deputati della sinistra
lo aggredirono strappandogli le cartelle di mano. In una tale situazione di
cose, l'On.le Roberto Lucifero aveva ben ragione di dichiarare nella seduta
della consulta del 9 marzo 1946: «Noi opposizione contestiamo all'attuale
governo di parte la qualifica, la legittimità e l'autorità
di emanare provvedimenti i quali tendono a sottrarre al popolo sovrano, il solo
che ne abbia la qualifica, la legittimità e l'autorità, la decisione su
problemi fondamentali del suo destino, del suo avvenire, quali, ad esempio i
poteri della Costituente e la ratifica delle sue decisioni. Noi contestiamo
all'attuale governo di parte la qualifica, la legittimità e l'autorità di
presiedere alle elezioni politiche, perché, appunto in quanto governo di parte,
e data la gravità e la straordinarietà delle decisioni da prendere, esso non
offre tanto al Paese, quanto all'Estero, verso il quale abbiamo degli impegni,
le necessarie indispensabili garanzie ».
Anche
l’On. Nitti nel suo discorso del 9 marzo rilevò la mancanza di garanzie che il
governo per la sua formazione non poteva dare al Paese ed affermò che vi erano
provincie ove l'ordine era solo apparente.
LE
DITTATURE HANNO IL, PRIVILEGIO DI OTTENERE, SEMPRE ELEZIONI FAVOREVOLI PURE FRA
LO SCETTICISMO DI TUTTI che non credono ai risultati. Ma LA DITTATURA non è soltanto
quella esercitata da uno solo, o da una oligarchia, ma come nel caso in esame
quella DI UNA PARTITOCRAZIA AUTONOMINATASI AL GOVERNO D'ITALIA.
Se
questo era l'aspetto politico del problema anche la base giuridica del D. L. 25
giugno 1944 che era il punto di partenza per ]a legge sul «referendum» può
essere fondamentalmente discussa, come ha dimostrato un notissimo
costituzionalista, il Crosa, e come sostiene con abbondanza di argomenti il De
Francesco Rettore dell'Università degli Studi di Milano. Il Governo
nell'emanazione del D.L. richiamò il testo legislativo di carattere
costituzionale, che viceversa è proprio quello che escludeva dal Governo la
facoltà di cui si serviva; la legittimità del D.L. era sottoposta per l'art. 6
alla condizione della conversione in legge da parte delle assemblee legislative
che venivano appunto soppresse dal D.L.; la costituzione fu poi approvata
quando i termini massimi di un anno di vita dell'assemblea costituente erano
scaduti.
Necessità
di passare sopra a formalità legali in un momento così difficile? In verità non
si tratta di mera formalità,
Il
«referendum» è un istituto di democrazia diretta, è la tipica manifestazione di
volontà democratica ed appunto per questo presuppone condizioni perfette di
democraticità e di completa ed assoluta libertà di propaganda delle tesi in contrasto.
Dobbiamo
obiettivamente rilevare che queste condizioni di validità non esistevano in
Italia il 2 giugno 1946. L 'Italia
era occupata dallo straniero e si trovava in tale situazione di fermento che in
molta parte di essa non era possibile né tenere discorsi di propaganda né
affiggere manifesti. Le condizioni obiettive per il referendum istituzionale in
Italia erano inficiabili in « nuce », in radice.
3)
Le potenze occupanti e la «non interferenza»
Non
certo quello era il momento per la libera manifestazione della volontà
popolare: il Paese era occupato dalle Potenze alleate vincitrici; né si sapeva
ancora a quali mutilazioni il territorio nazionale sarebbe stato sottoposto. Non si spiegherebbe l'ansia la fretta di ministri del referendum, il motto
del Romita «ora o mai», se costui e i suoi compagni non avessero considerato
invece opportunissimo il momento per la nascita della repubblica nel clima
di un Paese vinto, ed occupato dalle armate vittoriose.
Vi
è stato - né del tutto è scomparso - nella coscienza del popolo degli Stati
Uniti, o meglio dei suoi uomini politici, un fondo di illusioni. Tra esse
quella di una missione storica degli Stati Uniti da compiere in Europa:
insegnare la democrazia. Su questo stato d'animo aveva facile presa la
scaltrita mentalità dei nostri uomini di sinistra, i quali ripetevano il
giudizio del Molotov « la
Monarchia italiana è baluardo della reazione ».
Sulla
politica americana, fin dal tempo di Roosevelt, altra illusione agiva sulla
fantasia: avere bene allacciata la Russia, potere manovrare contando su di essa
a servizio della politica americana nel mondo; se pure non agivano nelle
direttive di Washington occulte infiltrazioni comuniste nel governo democratico
molti posti chiave erano occupati in Italia da comunisti sovente alla testa
delle organizzazioni per la distribuzione viveri.
Conveniva
pertanto accontentare la Russia
in una questione come questa, in cui, in fondo, si trattava della democrazia
abbattendo il «baluardo della reazione». Ed è così che la proclamata «non
interferenza» si risolveva in un favoreggiamento, anche se inconsapevole, all'azione
delle sinistre.
L'altra
potenza occupante l'Inghilterra, aveva certo una più chiara visione; il suo
primo ministro per la sua esperienza e nella sua coscienza, non credeva
all'oracolo dei Molotov e dei corifei italiani. Nella sua opera «La 2° guerra
mondiale - Da Teheran a Roma» Churchill scrive: «I superstiti avversari del
fascismo miravano a far cadere la
Monarchia » e parlando del Governo Badoglio giudica che esso
aveva «maggiore autorità di qualunque altro Governo costituito con i
superstiti relitti dei partiti politici, nessuno dei quali possedeva il minimo
titolo per governare- né per elezione né per diritto ».
Certo: l'Inghilterra vedeva più chiaro e avrebbe potuto impedire sviste ed errori
della politica americana ma essa non intendeva avere screzio alcuno con la sua
alleata. La questione, italiana in
tanto le interessava, in quanto la soluzione serviva agli interessi inglesi
nel Mediterraneo, mandando via gli Italiani dall'Africa.
Come
del resto, le Potenze occupanti guardassero allora alla Italia, e con quali
sentimenti non sono esse a farcelo sapere, ma uno dei faziosi italiani del
tempo, il ministro Bracci. Il 12 giugno 1946 incitando il De Gasperi ad
assumere la funzione di capo di Stato provvisorio, avvertiva: « Gli alleati in
fin del conti sperano in una repubblica più disarmata della Monarchia al
momento della firma di un trattato di pace che ci stanno preparando. Durante
la giornata (12 giugno) varii di noi hanno suggerito ad essi che la repubblica
non ha legami col passato; essa è fuori del ginepraio dei nazionalismi, guarda
al futuro, consapevole, d'altra parte, delle colpe italiane».
Che
cosa di più gradito poteva giungere all'orecchio di un nemico per calpestare
il disprezzabile vinto?
4)
Tregua istituzionale
La
tregua fu proclamata fin dal momento in cui, ritiratosi Vittorio Emanuele III
nominato il Luogotenente, si stabilì d'accordo con lo stesso Luogotenente di
risolvere la questione istituzionale con un referendum e frattanto osservare
osservare una tregua istituzionale
Come fosse intesa e praticata da uomini
politici, aventi responsabilità di governo, la tregua, valgano questi due
esempi : il 12 aprile 1944,
primo giorno della Luogotenenza il ministro Sforza in Consiglio dei Ministri
gridò allo scandalo accusando il Luogotenente di avere
concessa una intervista ad un giornalista inglese nella quale aveva
calunniato il popolo italiano, chiamandolo responsabile della guerra.
Contemporaneamente all'accusa fatta in Consiglio dei Ministri la stampa
insorgeva contro il Luogotenente. Il giornalista inglese protestò, smentì ma
nessun giornale italiano volle pubblicare la smentita e la esatta versione del
suo articolo.
Non
fu questo il solo caso - durante la proclamata tregua istituzionale - in cui si
cercò insidiosamente di colpire il Luogotenente non solo presso il popolo, ma
anche presso gli alleati. La stampa divulgò, alterata, una intervista da Lui
concessa. L'originale della intervista era stato letto, approvato con aggiunte
e correzioni di pugno del primo ministro Bonomi e fu mandato agli Alleati. Se
ne conserva la fotografia. Non fu consentito di
pubblicare nella stampa smentite o l'esatta versione dell'intervista.
Iniziata
la lotta elettorale uomini di governo non intesero il dovere di rispettare la
tregua. Chi veramente, solo, la rispettò fu il calunniato.
Tutto
questo - è vero - non deve stupire, si spiega nel fuoco della lotta politica.
Ma vi sono fatti per cui reagisce la coscienza onesta; la responsabilità del
calunniatore appare tanto più grave, quanto più balza evidente la malafede. Chi
è ingannato dalla propaganda, non ha colpa; colpevole è l'ispiratore dell'inganno.
Valga un esempio: il 31 maggio 1946 il Re trovavasi a Genova, a villa
Gropallo ricevette centinaia di visitatori: gente di popolo. Si presentò un giovane
operaio, disse: «Sono comunista, partigiano, voglio far firmare dal Re il mio
brevetto». Informato il Sovrano da chi volentieri avrebbe sconsigliato dal
concedere una tale udienza, rispose: «Naturalmente, venga con gli altri. Il
giovane entra con una certa spavalderia. Il Re gli tende la mano con la consueta
sua affabile semplicità. Il comunista, sorpreso, gli chiede: «E' vero che Lei
odia il popolo?» - «Ma chi glielo ha
detto? » - « Me lo dicono ogni giorno in cellula, e mi ordinano di dirlo agli
altri ». Il Re scosse la testa.
Tra
le calunnie che più avevano presa nella ingenua mente di tanta povera gente,
era quella dello sperpero di vistose somme, di cui la Monarchia godeva a spese
del popolo. Giornali di sinistra riportavano false cifre dal bilancio dello
Stato. Né a dare la smentita una voce si levava da quel Ministero delle Finanze,
che avrebbe fornite tali vistose somme.
L'assegno
della lista civile era di lire-carta 11.250.000, fissata nel 1919, anno in cui
fu ridotta di 3.000.000 rispetto alla precedente. Per volere del Re Vittorio
Emanuele III i 3.000.000 erano stati devoluti alla Opera Nazionale
Combattenti. Ma la stampa inventava che la somma era pagata in oro, e che
perciò la cifra assommava a lire 80.000.000 di carta. Nessuno diceva che nel
bilancio della Real Casa all'entrata di lire 11.250.000 corrispondeva un'uscita
presso a poco identica, e non di rado superiore per elargizioni disposte dal Re
a privati e ad istituzioni benefiche. Superfluo, qualsiasi confronto.
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