NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 9 maggio 2016

Il libro azzurro sul referendum - premessa I parte


Nel 70° anniversario dell'ascesa al trono di Re Umberto e della di poco successiva instaurazione della repubblica anche noi celebriamo, a modo nostro, l'evento.
Si ringraziano i membri dello Staff per aver trovato e reso disponibile il libro.



PREMESSA


1) Questione politica e questione morale

Nel generale turbamento degli  spiriti che precedette ed accompagnò il tempo del referendum,  uno sprazzo di luce parve rompere la nuvolaglia ed indicare una via: il  senso di giustizia da secoli radicato nella coscienza dei nostro popolo. Il quale, di fronte alla questione istituzionale, preferì alla soluzione rivoluzionaria, l’espressione della propria volontà manifestata con il referendum.
Ci si riconduceva in certo modo al momento storico del Risorgimento, ai plebisciti che furono base morale, oltre che politica e giuridica, della formazione del Regno d’Italia.
Come allora, anche ora, la questione non era politica era profondamente morale.
Coloro che erano chiamati a preparare la legge del referendum e a farla eseguire assumevano di fronte al popolo italiano una responsabilità, che era anche di ordine morale. Essi erano chiamati ad essere esecutori di una volontà di giustizia.

Ma oggi a sei anni di distanza dal referendum perdura un pesante strascico di dubbi sulla validità del procedimento tenuto. Non è rimpianto di sentimentali, non è come con brutta parola è stato detto, monarchismo, è senso di giustizia turbato, è questione morale.

Nella vita dei popoli come in quella degli individui le questioni morali non si prescrivono; non vi sono ragioni di opportunità che valgano a rimandarne la soluzione; sono sempre questioni vive ed aperte. Poiché permanendo questo stato di animo turbato non è possibile raggiungere quella unità morale della Nazione, che è stata, ed è termine di aspirazione degli artefici del Risorgimento e degli apostoli veri della democrazia italiana. Bisogna rasserenare le coscienze, ed occorrendo, legalmente riparare. Procedere ad una revisione è dunque necessario ed è sempre attuale per la imprescrittibilità delle questioni morali.

Come? Anzitutto con l'esame dei documenti su cui le parti avverse nulla abbiano da eccepire perché essi attestano dei fatti.


2) Il ministero del referendum

Il ministero che preparò la legge del referendum e che la eseguì, traeva le sue origini e le fonti di sua autorità, non da un voto di popolo: esso era emanazione dei partiti del comitato di liberazione nazionale non senza interferenze delle Potenze occupanti. La proporzione in cui i vari partiti ivi erano rappresentati non rispondeva alla loro reale consistenza del Paese. Lo provarono, in seguito, le elezioni politiche, e amministrative. E, come nei comitati di liberazione i partiti di sinistra prevalevano, così nel Ministero dodici dei diciannove membri erano di sinistra. Nessuno di essi monarchico.

Avevano i posti chiave : Togliatti alla Giustizia e Romita agli Interni. Tre erano i ministri democristiani. Il congresso del loro partito abilmente manovrato dai dirigenti aveva fatto professione repubblicana, nonostante forti correnti monarchiche. Dei due liberali, il Brosio teneva ad acquistarsi benemerenze repubblicane e solo il Cattani, non per convinzione monarchica, ma per spirito di lealtà, si oppose ripetutamente ai soprusi più gravi. Il De Courten si era assegnato il compito di salvaguardare quanto rimaneva della flotta, si dichiarava Ministro tecnico e  non politico e fino all'ultimo si comportò di conseguenza.

Nessuna garanzia di imparzialità poteva essere data da un simile Governo ma né l'On.le Parri, né l'On.le De Gasperi annuirono alle richieste del Luogotenente Generale del Re di allargare le basi del Gabinetto. E quando il Generale Bencivenga, già Comandante a Roma delle forze della Resistenza, rilevò alla Consulta che i sei partiti al governo non rappresentavano che il sedici per cento della popolazione, l'On.le Carlo Sforza, Presidente dell'Assemblea, gli tolse la parola mentre i deputati della sinistra lo aggredirono strappandogli le cartelle di mano. In una tale situazione di cose, l'On.le Roberto Lucifero aveva ben ragione di dichiarare nella seduta della consulta del 9 marzo 1946: «Noi opposizione contestiamo all'attuale governo di parte la qualifica, la legittimità e l'autorità di emanare provvedimenti i quali tendono a sottrarre al popolo sovrano, il solo che ne abbia la qualifica, la legittimità e l'autorità, la decisione su problemi fondamentali del suo destino, del suo avvenire, quali, ad esempio i poteri della Costituente e la ratifica delle sue decisioni. Noi contestiamo all'attuale governo di parte la qualifica, la legittimità e l'autorità di presiedere alle elezioni politiche, perché, appunto in quanto governo di parte, e data la gravità e la straordinarietà delle decisioni da prendere, esso non offre tanto al Paese, quanto all'Estero, verso il quale abbiamo degli impegni, le necessarie indispensabili garanzie ».

Anche l’On. Nitti nel suo discorso del 9 marzo rilevò la mancanza di garanzie che il governo per la sua formazione non poteva dare al Paese ed affermò che vi erano provincie ove l'ordine era solo apparente.

LE DITTATURE HANNO IL, PRIVILEGIO DI OTTENERE, SEMPRE ELEZIONI FAVOREVOLI PURE FRA LO SCETTICISMO DI TUTTI che non credono ai risultati. Ma LA DITTATURA non è soltanto quella esercitata da uno solo, o da una oligarchia, ma come nel caso in esame quella DI UNA PARTITOCRAZIA AUTONOMINATASI AL GOVERNO D'ITALIA.

Se questo era l'aspetto politico del problema anche la base giuridica del D. L. 25 giugno 1944 che era il punto di partenza per ]a legge sul «referendum» può essere fondamentalmente discussa, come ha dimostrato un notissimo costituzionalista, il Crosa, e come sostiene con abbondanza di argomenti il De Francesco Rettore dell'Università degli Studi di Milano. Il Governo nell'emanazione del D.L. richiamò il testo legislativo di carattere costituzionale, che viceversa è proprio quello che escludeva dal Governo la facoltà di cui si serviva; la legittimità del D.L. era sottoposta per l'art. 6 alla condizione della conversione in legge da parte delle assemblee legislative che venivano appunto soppresse dal D.L.; la costituzione fu poi approvata quando i termini massimi di un anno di vita dell'assemblea costituente erano scaduti.

Necessità di passare sopra a formalità legali in un momento così difficile? In verità non si tratta di mera formalità,

Il «referendum» è un istituto di democrazia diretta, è la tipica manifestazione di volontà democratica ed appunto per questo presuppone condizioni perfette di democraticità e di completa ed assoluta libertà di propaganda delle tesi in contrasto.

Dobbiamo obiettivamente rilevare che queste condizioni di validità non esistevano in Italia il 2 giugno 1946. L'Italia era occupata dallo straniero e si trovava in tale situazione di fermento che in molta parte di essa non era possibile né tenere discorsi di propaganda né affiggere manifesti. Le condizioni obiettive per il referendum istituzionale in Italia erano inficiabili in « nuce », in radice.

3) Le potenze occupanti e la «non interferenza»


Non certo quello era il momento per la libera manifestazione della volontà popolare: il Paese era occupato dalle Potenze alleate vincitrici; né si sapeva ancora a quali mutilazioni il territorio nazionale sarebbe stato sottoposto. Non si spiegherebbe l'ansia la fretta di ministri del referendum, il motto del Romita «ora o mai», se costui e i suoi compagni non avessero considerato invece opportunissimo il momento per la nascita della repubblica nel clima di un Paese vinto, ed occupato dalle armate vittoriose.

Vi è stato - né del tutto è scomparso - nella coscienza del popolo degli Stati Uniti, o meglio dei suoi uomini politici, un fondo di illusioni. Tra esse quella di una missione storica degli Stati Uniti da compiere in Europa: insegnare la democrazia. Su questo stato d'animo aveva facile presa la scaltrita mentalità dei nostri uomini di sinistra, i quali ripetevano il giudizio del Molotov « la Monarchia italiana è baluardo della reazione ».

Sulla politica americana, fin dal tempo di Roosevelt, altra illusione agiva sulla fantasia: avere bene allacciata la Russia, potere manovrare contando su di essa a servizio della politica americana nel mondo; se pure non agivano nelle direttive di Washington occulte infiltrazioni comuniste nel governo democratico molti posti chiave erano occupati in Italia da comunisti sovente alla testa delle organizzazioni per la distribuzione viveri.

Conveniva pertanto accontentare la Russia in una questione come questa, in cui, in fondo, si trattava della democrazia abbattendo il «baluardo della reazione». Ed è così che la proclamata «non interferenza» si risolveva in un favoreggiamento, anche se inconsapevole,  all'azione delle sinistre.

L'altra potenza occupante l'Inghilterra, aveva certo una più chiara visione; il suo primo ministro per la sua esperienza e nella sua coscienza, non credeva all'oracolo dei Molotov e dei corifei italiani. Nella sua opera «La 2° guerra mondiale - Da Teheran a Roma» Churchill scrive: «I superstiti avversari del fascismo miravano a far cadere la Monarchia» e parlando del Governo Badoglio giudica che esso aveva «maggiore autorità di qualunque altro Governo costituito con i superstiti relitti dei partiti politici, nessuno dei quali possedeva il minimo titolo per governare- né per elezione né per diritto ».
Certo: l'Inghilterra vedeva più chiaro e avrebbe potuto impedire sviste ed errori della politica americana ma essa non intendeva avere screzio alcuno con la sua alleata. La questione, italiana in tanto le interessava, in quanto la soluzione serviva agli interessi inglesi nel Mediterraneo, mandando via gli Italiani dall'Africa.

Come del resto, le Potenze occupanti guardassero allora alla Italia, e con quali sentimenti non sono esse a farcelo sapere, ma uno dei faziosi italiani del tempo, il ministro Bracci. Il 12 giugno 1946 incitando il De Gasperi ad assumere la funzione di capo di Stato provvisorio, avvertiva: « Gli alleati in fin del conti sperano in una repubblica più disarmata della Monarchia al momento della firma di un trattato di pace che ci stanno preparando. Durante la giornata (12 giugno) varii di noi hanno suggerito ad essi che la repubblica non ha legami col passato; essa è fuori del ginepraio dei nazionalismi, guarda al futuro, consapevole, d'altra parte, delle colpe italiane».

Che cosa di più gradito poteva giungere all'orecchio di un nemico per calpestare il disprezzabile vinto?

4) Tregua istituzionale

La tregua fu proclamata fin dal momento in cui, ritiratosi Vittorio Emanuele III nominato il Luogotenente, si stabilì d'accordo con lo stesso Luogotenente di risolvere la questione istituzionale con un referendum e frattanto osservare osservare una tregua istituzionale

Come fosse intesa e praticata da uomini politici, aventi responsabilità di governo, la tregua, valgano questi due esempi : il 12 aprile 1944, primo giorno della Luogotenenza il ministro Sforza in Consiglio dei Ministri gridò allo scandalo accusando il Luogotenente di avere concessa una intervista ad un giornalista inglese nella quale aveva calunniato il popolo italiano, chiamandolo responsabile della guerra. Contemporaneamente all'accusa fatta in Consiglio dei Ministri la stampa insorgeva contro il Luogotenente. Il giornalista inglese protestò, smentì ma nessun giornale italiano volle pubblicare la smentita e la esatta versione del suo articolo.

Non fu questo il solo caso - durante la proclamata tregua istituzionale - in cui si cercò insidiosamente di colpire il Luogotenente non solo presso il popolo, ma anche presso gli alleati. La stampa divulgò, alterata, una intervista da Lui concessa. L'originale della intervista era stato letto, approvato con aggiunte e correzioni di pugno del primo ministro Bonomi e fu mandato agli Alleati. Se ne conserva la fotografia. Non fu consentito di pubblicare nella stampa smentite o l'esatta versione dell'intervista.

Iniziata la lotta elettorale uomini di governo non intesero il dovere di rispettare la tregua. Chi veramente, solo, la rispettò fu il calunniato.

Tutto questo - è vero - non deve stupire, si spiega nel fuoco della lotta politica. Ma vi sono fatti per cui reagisce la coscienza onesta; la responsabilità del calunniatore appare tanto più grave, quanto più balza evidente la malafede. Chi è ingannato dalla propaganda, non ha colpa; colpevole è l'ispiratore dell'inganno. Valga un esempio: il 31 maggio 1946 il Re trovavasi a Genova, a villa Gropallo ricevette centinaia di visitatori: gente di popolo. Si presentò un giovane operaio, disse: «Sono comunista, partigiano, voglio far firmare dal Re il mio brevetto». Informato il Sovrano da chi volentieri avrebbe sconsigliato dal concedere una tale udienza, rispose: «Naturalmente, venga con gli altri. Il giovane entra con una certa spavalderia. Il Re gli tende la mano con la consueta sua affabile semplicità. Il comunista, sorpreso, gli chiede: «E' vero che Lei odia il popolo?» - «Ma chi glielo ha detto? » - « Me lo dicono ogni giorno in cellula, e mi ordinano di dirlo agli altri ». Il Re scosse la testa.

Tra le calunnie che più avevano presa nella ingenua mente di tanta povera gente, era quella dello sperpero di vistose somme, di cui la Monarchia godeva a spese del popolo. Giornali di sinistra riportavano false cifre dal bilancio dello Stato. Né a dare la smentita una voce si levava da quel Ministero delle Finanze, che avrebbe fornite tali vistose somme.

L'assegno della lista civile era di lire-carta 11.250.000, fissata nel 1919, anno in cui fu ridotta di 3.000.000 rispetto alla precedente. Per volere del Re Vittorio Emanuele III i 3.000.000 erano stati devoluti alla Opera Nazionale Combattenti. Ma la stampa inventava che la somma era pagata in oro, e che perciò la cifra assommava a lire 80.000.000 di carta. Nessuno diceva che nel bilancio della Real Casa all'entrata di lire 11.250.000 corrispondeva un'uscita presso a poco identica, e non di rado superiore per elargizioni disposte dal Re a privati e ad istituzioni benefiche. Superfluo, qualsiasi confronto.


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