NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 11 maggio 2018

Io difendo la Monarchia cap IV - 4

Sembrano queste, oggi, delle bestemmie, ma allora passavano sotto il nome di filosofia dell’autorità o della volontà e avevano il favore della stampa e del pubblico. E ancora oggi questo metodo si applica a tutto lo spazio
del pianeta dall’Adriatico al Pacifico. I fatti del 1922 sono ormai passati dalla cronaca alla storia. Essi sono stati qualificati e registrati nei testi di storia italiani estranieri. Non guardiamo ai testi del fascismo, ma a quelli dell’antifascismo.

Il senatore Carlo Sforza in un suo libro (1) scrive: «Fu la fine della breve luna di miele tra l'Italia e il fascismo. Questa luna di miele ci fu, anche se passionati scrittori antifascisti la negarono: pochi uomini furono accompagnati più di Mussolini da voti di successo così numerosi».

Come poi lo stesso Sforza, nello stesso libro, a breve distanza da questo periodo che abbiamo riferito, trascenda a parlare di tradimento regio (che avrebbe cagionato l’ascesa del fascismo al potere) è inesplicabile.
Ma che tradimento regio se, come dice lo scrittore, vi era una luna di miele fra l'Italia e il fascismo e se Mussolini fu accompagnato da voti di successo così numerosi che pochi uomini hanno avuti? Dunque Carlo Sforza condanna da sé la triste frase del tradimento.

Guardiamo ora agli esponenti maggiori della politica del tempo: chi di essi ha mai accusato il Sovrano di avere (dopo esaurita tutta la gamma parlamentare) chiamato al Governo Mussolini, per dare veste legale al tentativo rivoluzionario e restituire la pace alla Nazione? È inutile citare dalla stampa italiana di quei giorni traboccante d’entusiasmo, di patriottismo e di enfasi. A Roma erano per il fascismo nascente tutti i giornali.

Questo era il clima italiano che circondava il Re. Quanto ai giornali stranieri, citeremo per tutti un commento del Times, del 18 novembre 1922, all’indomani del discorso di Mussolini al Parlamento: «L’elevazione del fascismo è la conseguenza naturale della degradazione progressiva del sistema rappresentativo a Roma. Le dichiarazioni di Mussolini hanno il tono dei discorsi di Cromwell ».

Incominciavano subito all’estero le amplificazioni rettoriche, le prime raffigurazioni eroiche di cui avremo piene e infastidite le orecchie sino alla Conferenza di Monaco (settembre 1938). E veniamo ora agli scrittori antifascisti. Prendiamo Luigi Salvatorelli nel suo libro Vent’anni tra due guerre. Si legga nel cap. 1, tutto il paragrafo: «L'Italia: avvento del fascismo (pag. 59). Il più ortodosso degli scrittori fascisti potrebbe sottoscriverlo. Non vi  si trova ombra di dubbio sulla piena legittimità e sulla necessità storica del movimento fascista, sulla perfetta ortodossia costituzionale della crisi del 1922 nei rapporti tra Governo e Parlamento, tra Parlamento e Sovrano. Del socialismo è detto che esso si rivelò effettivamente incapace di fare la rivoluzione; di Mussolini si parla come di un dominatore per le sue doti eccezionali per la propaganda e l’azione; del fascismo al potere si ricorda l’opera di riorganizzazione e trasformazione dello Stato e la politica estera «fatta gelosa del prestigio italiano e rivolta a far valere la voce dell'Italia nelle competizioni internazionali».

Passiamo ora al Sommario della Storia d’Italia e al Profilo della Storia d’Europa dello stesso Salvatorelli sulla cui opera insistiamo perché egli è il più severo degli intellettuali antifascisti ed ha pronunciata tendenza repubblicana. L’autorevole storico tralascia ogni aggettivazione favorevole al fascismo, ma si guarda anche da ogni critica. Nel Profilo della Storia d’Europa descrive anche l’estendersi della forma autoritaria a quasi tutti i paesi d’Europa e con ciò riconosce implicitamente l’essenza profonda del movimento fascista e il suo carattere storico. A mano a mano il sistema autoritario passò dall’Italia alla Spagna, con la dittatura De Rivera (1923); e poi al Portogallo (1926) e, insieme, alla Polonia (maggio 1926). E ancora alla Lituania, alla Turchia, alla Jugoslavia, alla Bulgaria, alla Grecia. Infine esso si diffuse e prese maggior vigore in Germania. Tutta l’Europa fu attorno al 1935, autoritaria o semiautoritaria. La democrazia parlamentare rimase una eccezione. Parlare senza una esatta cognizione e comprensione, a distanza di un quarto di secolo, di un tale fenomeno divenuto da italiano europeo, e poi mondiale causa i fatti dell’Asia Orientale (Cina, Giappone, Manciukuo) e della America del Sud; parlarne svalutandolo e facendo credere che da noi il Re, lui solo, poteva e doveva stroncarlo, come se fosse semplice ed agevole cosa; tutto ciò è prova di ottusa passione politica che oscura la mente e il raziocinio.

Nel terzo volume della mirabile Storia di Europa H. A. L. Fisher, un autore inviso al fascismo che ne sequestrò tutta l’opera, il capitolo finale descrive le «nuove dittature e le vecchie democrazie». Scompare, dice l'autore « nella mentalità media dell’uomo comune la vigorosa fede nella libertà civile e nella persuasione pacifica, caratteristica del secolo diciannovesimo». Il pensiero di Fisher s’incontra qui con quello di Croce. Ognuno può rilevare che ci troviamo dinnanzi ad un grave  fenomeno di decadenza della civiltà europea che coincide con la prima guerra mondiale. Mentre le nazioni del Continente sembravano raggiungere le più alte vette del benessere e del progresso, la loro concorrenza mercantile, industriale e coloniale preparava l’urto degli opposti imperialismi. Nello stesso tempo lo stesso progresso del capitalismo eccitava il moto della rivoluzione sociale. La guerra imperialista esplodeva nel 1914; la guerra sociale nel 1917, in Russia. Da allora, né i paesi europei, né il mondo intero hanno avuto più pace. La prima guerra mondiale sembrava avere affermato i principi ei diritti delle nazionalità ed ha invece portato, dopo un ventennio, alla distruzione dei piccoli Stati. Il conflitto non risoluto nel 1914 -918, tra Germania e Inghilterra, si è rinnovato nel 1939 e di nuovo tutti i popoli sono stati coinvolti nel tremendo urto. La conclusione si è avuta ora e il wilsonismo e i suoi diritti delle nazioni, sono stati sostituiti con l'equilibrio temporaneo e molto instabile dei grandi imperi. L’Europa è divenuta zona d’influenza del gruppo anglosassone e del gruppo sovietico. La rivoluzione sociale, rimasta in posizione di attesa in questo quarto di secolo, ha trovato ora, nella Russia vittoriosa, i milioni di baionette per traboccare ad occidente e nell’Asia orientale. Ma il mondo occidentale, rifugiato negli Stati Uniti di America, ha trovato nella grande industria e nella ricerca scientifica la sua difesa e probabilmente i mezzi per ottenere, in un possibile conflitto, l’incontrastato dominio ecumenico. Entro questo grande quadro bisogna porre la crisi del fascismo e la vittoria dell’antifascismo. I piccoli  uomini che oggi ritengono in Italia di fare con il sussidio di una legittima reazione storica, cieche e continue vendette, nient’altro che vendette, commettono un grave errore. Non si costruisce con l’odio quel che è andato distrutto per l’urto di forze cosmiche estranee ed esterne alla vicenda italiana.  Quella confortevole Europa, quella dolce Italia del periodo
liberale, che aveva, nella borghesia delle professioni, la sua classe dirigente vivamente satireggiata nella stampa ma, infine, allegramente sopportata, non ritornano con la guerra civile e con la guerra sociale, con i campi di concentramento e i campi di confino, con la minaccia di nuove rivoluzioni, di nuove esplosioni e di nuove esperienze. La grossolanità politica e l’ignoranza degli uomini nuovi; lo spirito alacre di vendetta dei settuagenari e degli ottuagenari (solo Croce, Orlando, Nitti e Bonomi hanno conservato con la dignità della cultura, l’elevatezza dello spirito e la superiorità dell'apostolato civile) minacciano di distruggere il consorzio italiano assai più della tetra stupidità del fascismo e della stessa imponente coalizione nemica. E vediamo come il Fisher studia il fascismo nel generale quadro europeo della caduta del liberalismo. Dopo aver riprodotto molteplici giudizi sull’inizio del fascismo, vediamo altri importanti giudizi sul suo svolgimento, sul suo sviluppo fino alla decadenza.

«La paura del contagio russo - scrive l’autore inglese - influì profondamente sulla politica italiana. Anche qui si ebbe, alla fine della guerra, un sentimento generale di stanchezza o di delusione. Era convinzione comune che l'Italia avesse sofferto molto per ottenere pochissimo. Già prima della guerra vi era stata in Italia una grande propaganda rivoluzionaria che aveva poi contributo alla débàcle di Caporctto: e quando finalmente giunse la vittoria c non ebbe altro risultato che nuove tasso, prezzi alti e scarsità di carbone, gli operai italiani si chiesero in che tanti sforzi avevano giovato al paese. Uno stato di animo di aspra ostilità contro il Governo esistente si diffuse tra gli operai delle fabbriche dell'Italia settentrionale. Il nome di Lenin era popolare, il ritratto del profeta russo circolava, gli scioperi si susseguivano. Vecchi soldati, reduci della guerra, venivano ingiuriati per la via. Essendo il Parlamento eletto con la rappresentanza proporzionale, i gruppi politici erano molti e i ministri debolissimi. Regnava libertà di linguaggio e di discussione, ma il Governo non aveva qualità capaci di conquistare l’opinione pubblica... Quest'apparente dispersione e paralisi delle forze nazionali spiega la meteorica fortuna di Benito Mussolini ». Qui l'autore descrive il periodo socialista di Mussolini per poi parlare del suo interventismo e dell'azione successiva.
Egli (Mussolini) «uscì alla fine della guerra ardente di patriottismo, condottiero di fortuna, pronto, violento,  limpido, non alieno da alcuna violenza, cospiratore nato. Nei soldati reduci dalla guerra, feriti dall'indifferenza del paese, il partito trovò i suoi militi. Il 28 ottobre 1922 marciava su Roma e, conservando il primato nominale del Re, assumeva la direzione dello Stato».

(1) Carlo Sforza: L’Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi. Mondadori, Roma, 1944.

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