Testo della conferenza tenuta il 5 Maggio per il Movimento Monarchici dal Nostro Gianluigi Chiaserotti
Gentili Signore, gentili Signori,
ringrazio Mauro Mazzoni, presidente del
Movimento “Monarchici” di avermi
invitato quest’oggi qui a Lucca, antica Città di tradizioni anche monarchiche, città
che non conoscevo, città napoleonica, assegnata, il 23 giugno 1805, ad Elisa
Bonaparte (1777-1820) ed al consorte Felice Baciocchi (1762-1841), mantenendo
però una certa autonomia rispetto alle altre città italiane, ma sempre sotto il diretto dominio di Napoleone, di cui, tra
l’altro, quest’oggi è l’anniversario della sua morte immortalata nell’Ode “Cinque Maggio” di Alessandro Manzoni (1785-1873).
Con il Congresso di Vienna venne deciso di
creare il Ducato di Lucca ed il 10 maggio 1815 subentrò, come reggente, Maria
Luisa di Borbone-Spagna (1782-1824), alla quale succedette il figlio Carlo
Ludovico di Borbone (1799-1883) e, nel 1847, la città venne ceduta al Granducato
di Toscana.
Ma anche l’Alighieri incluse molte riferimenti alle famiglie
feudali che ebbero una grande giurisdizione con poteri amministrativi ed
giudiziali.
Ed il Sommo Poeta stesso spese molti dei suoi
anni in esilio a Lucca.
Ma oggi non sono qui per parlare della Storia
di Lucca, ma bensì dei motivi che 157 anni or sono portarono all’Unificazione
dell’Italia sotto la Monarchia Sabauda.
Il 17 marzo 1861, nella suggestiva
aula del Parlamento Subalpino di Torino sita in Palazzo Carignano, fu
proclamato il Regno d’Italia e la nostra Penisola divenne appunto una ed
indipendente.
Ma, senza alcuna ombra di dubbio, la
suddetta data è la conclusione di un ciclo di
fatti, di movimenti politici, di movimenti culturali, di imprese
belliche ed eroiche, che cercarono di portare all’Unità, ma anche l’inizio di
un ulteriore ciclo che condurrà al 20 settembre 1870 con la proclamazione di
Roma, Capitale d’Italia.
In questa mia alquanto imprecisa e
superficiale “conversazione” (data,
essenzialmente, la vastità dell’argomento) cercherò di darVi, da modesto
appassionato, un opportuno quadro generale sulle premesse, oserei dire, di
quello che sarà l’Unità d’Italia. Quindi un ricordo di colui, che a mio modo di
vedere, fu il vero, e più originale, artefice dell’Unità, Camillo Benso Conte
di Cavour (1810-1861), operante nell’antico Regno di Sardegna.
Concluderò con delle brevi riflessioni di insigni storici sul
periodo.
§ 1.
Note introduttive –
A) La
Rivoluzione Francese, Napoleone
La nostra penisola era, da secoli,
divisa e per nulla tenuta in considerazione. Quindi le grandi
e potenti nazioni d’Europa avevano trovato un campo aperto alle loro
ambizioni.
L’Italia era considerata una semplice
espressione geografica.
Tutti
si erano lanciati verso l’Italia, come, oserei dire, su una facile
preda: Francia, Spagna, Austria erano venute a conquistarvi intere provincie:
le due più grandi città d’Italia, Milano
e Napoli, erano cadute in mano straniera. Ed i superstiti piccoli Stati
Italiani, anche se di nome avevano conservato la loro indipendenza, di fatto
finivano con il gravitare, come satelliti, intorno ai pianeti europei.
Gli Italiani non erano più nessuno in
casa propria.
Ed è veramente triste affermarlo!
Per lunghi, lunghissimi anni (più di
trecento), nelle più fiorenti regioni italiane, francesi, tedeschi o spagnoli
vi comandavano.
In questa situazione, anche
attraverso i secoli, si erano levate voci che incitavano gli italiani a
riconquistare la libertà perduta. Voci di poeti, di storici, di politici, di
musicisti che testimoniavano la rivolta morale della parte più nobile del
paese.
Ma perché l’Italia si risollevasse
dalla decadenza, non bastava il richiamo di pochi spiriti eletti.
Era necessario che il risveglio
penetrasse profondamente nell’animo della nazione.
Era necessario che gli italiani si
trasformassero, si facessero, per così dire, un’anima nuova. Per acquistare la
libertà, necessitava che negli animi sorgesse il desiderio, il bisogno della
libertà.
Per raggiungere l’unità, era
opportuno superare le divisioni, acquistare la coscienza di formare un’unica
famiglia, affratellata in un’unica sorte. Per ottenere l’indipendenza, gli
italiani dovevano apprendere quello che,
nei secoli, avevano dimenticato: a lottare, a combattere, a morire per la loro
causa.
Eccoci quindi alla storia del nostro
Risorgimento che non è soltanto quella di un seguito di insurrezioni e di
battaglie: è ben di più, è la storia di un popolo che si trasforma, che si
rinnova, è la storia della nuova Italia che nasce.
Ma quando questa c. d. “Nuova Italia” nasce?
Nasce molti anni prima, cioè alla
fine del secolo XVIII, con quel grande movimento politico che scoppiò in
Francia: la Rivoluzione Francese e tutte le conseguenze che portò.
L’ascesa di un astro come Napoleone
Bonaparte, la sua discesa in Italia del 1796-97, e l’elevazione, il 7 gennaio
1797, in Reggio dell’Emilia, del primo tricolore italiano.
Quindi anche l’Italia partecipa a questo fervore di rinnovamento,
che percorre l’Europa: vi partecipa con i suoi uomini migliori. L’inerzia degli
italiani si scuote. Un’avanguardia di pensatori e di uomini di azione si mette
in testa del movimento, e ciò nelle grandi città che formano i centri più
attivi della vita italiana.
Ecco, a Milano, Cesare Beccaria
(1738-1794), filosofo, giurista, letterato, che ispira con il suo libro più
famoso “Dei delitti e delle pene”, la
riforma del diritto penale; e Pietro Verri (1728-1797), economista e storico,
che lascia una profonda impronta, con i suoi studi e con la sua opera sul terreno filosofico e finanziario.
Ma non di meno è quanto accadde a Napoli,
centro di questo risveglio: con Gaetano Filangeri (1753-1788), giurista e
filosofo, il quale espose un pensiero frutto della grande cultura napoletana
antecedente l’Unità d’Italia, rappresentata da Giovan Battista Vico (1668-1744)
e da Pietro Giannone (1676-1748), i quali interpolarono la dottrina di
Charles-Louis de Secondat, barone de la Brède et de Montesquieu (1689-1755);
Antonio Genovesi (1713-1769), il quale, anch’egli, seguì le lezioni del Vico e,
ordinato sacerdote, insegnò metafisica ed etica all’Università di Napoli, ma
dopo l’incontro con l’economista Ferdinando Galiani (1728-1787), si dedicò
all’economia, di cui tenne nel 1754 la prima cattedra in Europa.
Nelle “Lezioni di commercio o sia d’economia civile” (1765-1767) il
Genovesi trattò del valore (connesso, utilitariamente, alla soddisfazione dei
bisogni) ed anche di politica economica, combinando tra loro posizioni
mercantiliste, liberiste e fisiocratiche, al fine di conciliare l’etica con il
lusso generato dallo sviluppo economico; e tanti altri, che sarebbe lungo
ricordare, filosofi, giuristi, economisti, tutti, si puo’ dire, operai della
costruzione della nuova fabbrica, se mi sia permesso di denominare così la
nostra Penisola.
Sono tutti personaggi che hanno posto
in evidenza quel “lumen rationis”
delle idee illuministe di fine secolo XVIII e che ispirarono la Rivoluzione
Francese.
Gli eserciti della repubblica
francese discendono dalle Alpi come un torrente devastatore; ed è, man mano che
spazzano via, con le loro vittorie, gli eserciti degli antichi dominatori,
spazzano via anche unitamente i vecchi Stati, i vecchi ordinamenti, le vecchie
classi dirigenti.
E’ veramente un mondo nuovo che
nasce, in quei giorni…..
L’Italia si copre di repubbliche [la
Cispadana (1796), la quale si fonderà (27 giugno 1797) con la Transpadana,
dando vita alla repubblica Cisalpina, con capitale Milano] ad immagine e somiglianza della grande
repubblica francese. Sono delle creazioni improvvisate, disordinate, confuse,
che si reggono sulla forza delle armi francesi più che sulla propria forza. Ma
sono delle creazioni nuove. Non più sovrani, non più privilegi: tutti son
chiamati a collaborare, la strada è aperta per tutti.
Le nuove parole del secolo, libertà,
eguaglianza, popolo, nazione, che prima esistevano come idee vaghe ed alquanto
astratte, divengono ora per gli italiani, qualcosa di vivo, di presente, ma
soprattutto di concreto.
Gli anni trascorrono.
Il generale rivoluzionario Bonaparte
si trasforma nell’imperatore Napoleone; le repubbliche si trasformano in regni.
L’Italia aveva trovato (purtroppo) in
Napoleone un nuovo padrone, che prese il posto degli antichi. Ne prese il posto,
ma non fu uguale a loro.
I vecchi padroni rappresentano il
passato.
Il nuovo padrone rappresenta, non
ostante tutto, l’avvenire. Anche se porta sul capo una corona anche se si comporta, qualche volta, come un
tiranno, resta per l’Italia come per la Francia, il figlio della rivoluzione.
La corona è detta “del
ferro” o “ferrea”, ed è
conservata attualmente nel Duomo di Monza. Essa molto simboleggiò la storia
italica e, in senso lato, quella
europea. Detta corona è il simbolo per antonomasia dell’Unità e del Regno d’Italia.
Negli stati napoleonici gli italiani
vengono chiamati a governare, partecipano alle cariche pubbliche; imparano così
quello che non avevano appreso prima, a reggersi da soli, ad occuparsi delle
loro attività politiche. Ed apprendono anche quello che da secoli avevano
dimenticato, a combattere. Sorgono eserciti italiani, combattono sotto bandiere
italiane. Gli italiani riprendono le armi in mano, cominciano ad adoperarle: la
lezione di Napoleone è anche per gli italiani, una lezione di forza.
Quando, dopo vent’anni, il grande
Còrso viene sconfitto ed abbattuto, codesta è l’eredità che egli lascia
all’Italia: la coscienza di se stessa, la coscienza di formare un popolo, ed
una nazione.
L’Italia che Napoleone lascia non è
più quella che egli ha trovato, calando dalle Alpi in quella bella lontana
primavera del 1796: è un’altra Italia. Anzi, possiamo dire, è in quegli anni
che la nostra Penisola iniziò ad esistere, e si prepara a combattere per la sua
esistenza.
Ma il 18 giugno 1815, sul campo di
battaglia di Waterloo, la grande ed indimenticata avventura napoleonica trovava
la sua conclusione. L’imperatore dei francesi era battuto ed esiliato
nell’isola di Sant’Elena, dove, come dicevo all’inizio, il 5 maggio 1821,
proprio centonovantasette anni fa, morì.
B) Restaurazione,
Romanticismo e le nuove idee
Non fu soltanto una semplice disfatta
di un uomo, che vedeva crollare le sue sconfinate ambizioni di dominio: con
lui, era la rivoluzione che veniva vinta ed abbattuta. Il vecchio mondo
prendeva la sua rivincita. I sovrani d’Europa, radunati a Vienna in congresso,
si proposero di restaurare l’antico edificio, che la Rivoluzione e Napoleone
avevano sconvolto.
“Restaurazione”,
appunto, è il nome che danno alla loro opera: restaurazione del vecchio ordine
politico e sociale che aveva preceduto la rivoluzione.
Restaurazione anche in Italia. Gli
antichi stati vengono richiamati in vita; gli antichi sovrani risalgono sui
loro troni. Ritorna, come prima, l’Austria. Più forte di prima: ai suoi antichi
dominii della Lombardia ha aggiunto una nuova conquista, Venezia. La vecchia,
gloriosa repubblica di San Marco era stata travolta dagli sconvolgimenti del
periodo rivoluzionario: ora, divenne una preda dei vincitori.
Così, l’Italia Settentrionale, dal
Ticino all’Adriatico, diviene una provincia austriaca: e con essa, Vienna tenne
nelle sue mani le chiavi della Penisola.
Ma la “Restaurazione” fu l’inizio di una nuova stagione per la nostra
Penisola, che, culminerà, come più volte abbiamo detto, nell’Unità d’Italia.
Agli ideali illuministici, razionali,
che portarono alla Rivoluzione Francese, si comincia a contrapporre quel nuovo
movimento culturale che è il Romanticismo.
Fra tutti gli avversari della Restaurazione, gli ex-ufficiali
napoleonici, formati alla scuola ardimentosa dell’esercito imperale ed impazienti
dell’inerzia cui son ridotti, costituiranno, non di rado l’elemento più
combattivo e pronto a passare all’azione rivoluzionaria contro i governi
restaurati. Ed accanto a loro un grosso
contingente di oppositori è dato dalla borghesia dei commerci e delle
industrie, danneggiata, nei propri interessi, ed esasperata dal risorto
predominio dell’aristocrazia, oppure da
nobili di idee progressiste, ma soprattutto dagli intellettuali, influenzati,
come si diceva poc’anzi, dall’ormai irresistibile diffusione del Romanticismo
dalla Germania verso il resto dell’Europa.
Da principio puo’ apparire che il
Romanticismo, predicando il ritorno alla tradizione od esaltando il sentimento,
in netta antitesi al razionalismo illuministico, sia alleato alla Restaurazione.
Ma si vede che la rievocazione della storia, l’esaltazione delle tradizioni
nazionali, il richiamo alla coscienza popolare significano solo l’alimento del
patriottismo. Fare appello, come i romantici, al sentimento individuale, alla
libera espressione del cuore e della fantasia, in antitesi alle regole del
classicismo, significa alimentare la battaglia per la libertà contro lo spirito
autoritario della Restaurazione.
Romantico diviene sinonimo ovunque di
liberale e patriota.
Non dimentichiamoci che il Romanticismo
nasce in Germania da quel movimento (pre-romantico) denominato “Sturm und
Drang”, “impeto ed assalto”.
La cultura del Romanticismo, infatti,
non vive isolata in una sua “turris
eburnea”, (la torre d’avorio), ma partecipa caldamente alla battaglia
politica che attorno a lei si svolge.
In ogni paese, le università con i
loro studenti e docenti costituiscono altrettanti focolai di agitazione
liberale e di cospirazioni. Il poeta, il dotto, il musicista si sentono
investiti di una specie di missione morale e, come tali, non ascoltati dai loro
contemporanei.
La pubblicazione di un’opera di
poesia romantica, di una grande opera storica o la rappresentazione di uno dei
melodrammi romantici, come quelli dei musicisti Vincenzo Bellini (1801-1835),
eppoi di Giuseppe Verdi (1813-1901), di Gioacchino Rossini (1792-1868), di cui
quest’anno cadono il CL anni dalla morte, tutti in Italia, destano ondate di
commozione e fremiti di entusiasmo, che li trasformano in altrettante battaglie
di libertà.
Animatrice del patriottismo
nazionale, la cultura romantica mantiene del resto vivissimo l’anelito
umanitario ad una fraternità estesa al di sopra delle barriere nazionali.
Come l’idea liberale e l’idea
nazionale, ai primi del secolo XIX, coincidono al punto da rendere sinonimi i
termini “liberale” e “patriota”, così le vittorie e le sconfitte
dell’idea liberale o del principio di nazionalità, in un qualsivoglia paese
europeo, vengono sentite, dai liberali e dai patrioti di ogni altro paese, come
vittorie o sconfitte di una causa comune.
La lotta contro l’assolutismo in nome
del liberalismo costituzionale si identifica, nella coscienza generale, con la
lotta per l’unità e l’indipendenza dei varii popoli smembrati e/o asserviti
dalle idee guida del Congresso di Vienna.
E’ anche il periodo in cui sorgono le
c. d. “società segrete”, e la più
importante fu la Carboneria, che svolse un importante ruolo nella prima fase
del Risorgimento italiano.
Le sue origini si ricollegano ai sodalizi
politici francesi sorti alla fine del Secolo XVIII nella Franca Contea, dove le
società dei “charbonnies” dissimulavano i propri programmi politici
entro associazioni di carattere mutualistico professionale (“compagnonnage”).
La Carboneria fu introdotta nel Meridione d’Italia da ufficiali francesi. In
Italia si caratterizzò per gli ideali di indipendenza e la rivendicazione di
forme di governo monarchico-costituzionali. La Carboneria si affermò così nella
borghesia liberale e nel patriziato più aperto. Al fine di fare leva sul
sentimento religioso delle masse, la Carboneria adottò un rituale ed un
simbolismo derivanti dal culto di San Teobaldo [era un eremita vissuto tra il
1017 (ca.) ed il 1066] e dalla passione di Gesù Cristo. Essa era divisa in
sezioni dette “vendite” con gli aderenti chiamati “buoni cugini”.
La società segreta era regolata da una rigidissima gerarchia (apprendista,
maestro, gran maestro), in base alla quale si graduavano non solo gli incarichi
ma anche la conoscenza stessa del programma segreto.
Dopo il 1814 la Carboneria si diffuse in
tutte le regioni d’Italia, incontrandosi con altre formazioni (Filadelfi,
Adelfi e Federati), ed assunse, in molti casi, la direzione delle attività
insurrezionali.
La sua azione culminò con i moti
costituzionali del 1820-1821, il cui fallimento segnò anche l’inizio della
decadenza della società segreta, soppiantata, in breve, da altre associazione
tipo la “Giovine Italia” di Giuseppe Mazzini (1805-1872).
Fallì anche il tentativo compiuto a Parigi di
ridare vita ai resti della Carboneria ma in senso democratico e repubblicano
(1832-1833).
Siamo quindi giunti al periodo di
nuovi rivolgimenti europei (dal 1831 al 1848) con le svariate ed articolate
rivoluzioni che vanno dal Portogallo
alla Spagna, dalla Francia all’Italia e tutte le loro conseguenze.
§ 2.
Il Conte di Cavour –
Ma torniamo all’Italia. Più precisamente al
Piemonte dove un nuovo astro illuminato sorge. E’ il Conte di Cavour.
Camillo Benso Conte di Cavour nacque il 10
agosto 1810 a Torino, allora capoluogo di un dipartimento dell’impero
napoleonico.
Il principe Camillo Borghese (1775-1832), duca
di Guastalla e coniuge di Paolina (Maria Paola) Bonaparte (1780-1825) (sorella
di Napoleone I), governatore dei dipartimenti francesi in Italia, tenne (per
procura) a battesimo il Nostro e gli diede il nome. Infatti il marchese Michele
Benso (1781-1850), padre del Cavour, era ciambellano del principe medesimo.
La famiglia Benso era originaria di Chieri ed
avevano ottenuto il titolo marchionale ai tempi del Re di Sardegna Carlo
Emanuele III (1701-1773) con Michele Antonio, signore di Santena.
Camillo di Cavour aveva come madre, la
ginevrina Adele di Sellon (1780-1846), la quale, nell’ottobre 1811, abiurò al
calvinismo per farsi cattolica. La famiglia, però, era imparentata con
l’aristocrazia protestante e liberale di Ginevra, ove ebbe cari specialmente i
De la Rive, mentre l’ava paterna, Filippina di Sales, della famiglia di San
Francesco di Sales (1567-1622), si allacciava all’alta società della Savoia.
Inoltre due zie materne erano rispettivamente sposate una con Jean-Louis Douhet
Conte d’Auzers (+ nel 1831) e l’altra con il duca Clermont-Tonnerre ed avvicinavano
il Nostro al patriziato legittimista francese.
Codesti variegati influssi concorsero a
temprare l’animo e la mente del Cavour. Ma egli fu prima di tutto figlio del
Piemonte, e da questa terra di nobili sabaudi e di soldati trasse il necessario
impulso alle sue idealità politiche nazionali.
Suo primo maestro fu l’abate Frézet, degno e
colto sacerdote, di cui conservò sempre un particolare e gradito ricordo.
Quindi dal 1820 al 1826, Camillo frequentò
l’Accademia Militare, e, nel 1824, fu paggio del principe Carlo Alberto di
Savoia-Carignano (1798-1849), futuro Re di Sardegna.
Il Nostro studiò le scienze esatte e la
matematica, che era insegnata dal matematico ed astronomo Giovanni Antonio
Amedeo Plana (1781-1864), ma poco profitto nelle discipline letterarie,
le quali nell’Accademia erano ritenute di secondaria importanza e meno si
confacevano, del resto, all’indole del di lui ingegno. Ma la vita militare non era
per il Conte di Cavour, e quindi (12 novembre 1831), ottenuto il permesso della
famiglia, chiese ed ottenne le dimissioni dall’Accademia.
Deposta l’uniforme, il Benso iniziò ad
occuparsi di agricoltura e delle scienze economiche e sociali. Fu in questo
periodo della sua vita che, allontanate le rivoluzionarie idee di gioventù, il
Nostro si avvicinò a quel liberalismo pratico che professò poi con maggiore
risolutezza e con più profonda consapevolezza, ma che era, in sostanza, sin
d’allora, nello spirito di tutta (o quasi), l’aristocrazia piemontese.
Il Conte di Cavour si fece conoscere (nel
1834) con la pubblicazione di un “Extrait”
relativo all’inchiesta inglese sulla tassa dei poveri e come combattere la
miseria, difendendo il principio della “carità
legale” che deve integrare e non sopprimere quella privata.
Il Cavour, quindi, viaggiò molto in Europa con
il recondito fine di apprezzare idee e conoscere persone.
Nel 1835, rientrò a Torino ove il padre era
stato nominato Prefetto di Polizia, e Camillo si assunse l’onere di
amministrare i beni di famiglia in quel di Leri, nel vercellese. Vi rimase sino
al 1848.
Il Piemonte era allora un paese ad economia
tendenzialmente agricola, ma proprietari e fittavoli, chiusi nei vecchissimi
sistemi patriarcali, ripugnavano a quelle applicazioni scientifiche che erano
state introdotte, e con profitto, nel Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda
del Nord, nella Francia, nella Confederazione Elvetica, ed anche, in parte, nel
Granducato di Toscana. Certamente l’attività imprenditoriale del Cavour gli
permise di conoscere l’intima struttura economico e finanziaria del paese, di
cui apprese quindi anche ad inquadrare i problemi politici in una limpida e
chiara visione della realtà.
Fu in questa realtà che il conte di Cavour,
continuando sempre ad osservare e studiare il liberalismo inglese [a lui è
dovuta la fondazione in Torino della “Société
du Whist” (1841), circolo aristocratico di giuoco e di conversazione sul
modello dei “clubs” di Londra e di
Parigi], per consiglio di Achille Léonce Victor Charles Duca di Broglie (1785-1870) (politico e
diplomatico francesce) ed a proposito del libro del conte Ilarione Petitti di
Roreto (1790-1850) (economista, scrittore, consigliere di Stato e Senatore del
Regno) sulle strade ferrate, pubblicò nella “Revue nouvelle” di Parigi
una “Étude des chemins de fer en Italie”
(maggio 1846), in cui il problema delle ferrovie era trattato non solo sotto
l’aspetto degli interessi materiali, ma anche e soprattutto sotto quello delle
idealità politiche e nazionali.
Codesti studi potevano far apprezzare il
Nostro in certe sfere, ma non conquistargli l’anima del popolo. Suo padre, come
vicario, aveva nemici che lo accusavano persino di affarismo. Il 17 giugno 1847
il marchese Michele si dimise. Il 29 ottobre il Re Carlo Alberto, gettandosi
sulla strada aperta dal Pontefice, il Beato Pio IX [Giovanni Battista Mastai
Ferretti (nato nel 1792) 1846-1878], concesse alcune riforme, tra cui una
moderata libertà di stampa. Così, il 15 dicembre, apparve il “Risorgimento”, giornale quotidiano, di
cui il Cavour fu direttore, redattore-capo e gerente. La vocazione alla vita
pubblica, che di già a vent’anni gli faceva sognare di svegliarsi un giorno
primo ministro del Regno d’Italia, s’era venuta in lui consolidando con il
tempo e con gli studi. Gentiluomo di campagna, sicuro di sé, aperto alle voci
della sua terra subalpina, ma poco o nulla sensibile ai ricordi classici ch’erano
e sono tanta parte della coscienza della nazione, non si lasciava abbagliare
dalle fulgide visioni di Vincenzo Gioberti (1801-1852) e non ammetteva affatto
con lui “che nulla potesse farsi senza il
Papa”. Piuttosto il Cavour acconsentiva con le idee dello storico e
politico Cesare Balbo (1789-1853), il quale, attraverso le memorie del 1821,
meglio rispondevano alle tradizioni secolari piemontesi. Ma mentre quest’ultimo
dichiarava di mirare solo all’indipendenza, Camillo di Cavour poneva come
condizione di questa libertà, anzi di tutte le libertà, economiche, religiose e
politiche, che fossero compatibili con
l’ordine pubblico.
Il 7 gennaio 1848 in un convegno di
giornalisti, provocato dalle agitazioni di Genova, il Nostro propose che si
chiedesse la costituzione al Re, e fu appoggiato da altri influenti dell’epoca,
ma non dai democratici sospettosi che egli mirasse a prendere loro la mano.
Proclamato lo Statuto (4 marzo 1848), il
Cavour ne rivendicò la perfettibilità per consenso di principe e di popolo e
propose egli stesso il senato elettivo e l’aperta dichiarazione dei culti.
Nelle discussioni per la legge elettorale si adoperò affinché il diritto di
voto fosse concesso a tutti gli individui capaci di esprimere un consapevole
proposito politico.
Nelle elezioni suppletive del 26 giugno 1848,
il Conte di Cavour fu eletto in ben quattro collegi elettorali, ma optò per
quello di Torino. Il 4 luglio, prese, per la prima volta, la parola alla Camera
del Parlamento Subalpino.
Da quel momento la vita di Camillo Benso
Conte di Cavour nuovamente cambiò. Finalmente era immerso nella vita pubblica
del suo Piemonte.
Da questa mutazione pubblica, si poteva
benissimo comprendere che presto sarebbe divenuto il padrone. Libero scambista,
convinto che il Piemonte dovesse sempre più e meglio confondere la propria vita
economica con quella delle potenze occidentali, il Nostro, da Ministro
dell’Agricoltura, sottoscrisse un trattato di commercio e di navigazione con la
Francia (5 novembre 1850), poi uno con il Belgio (24 gennaio 1851), ed un terzo
con il Regno Unito (27 febbraio 1851).
Tutto il decennio successivo (1849-1859) è
storia più che nota. Fu, da parte del Cavour, un tessere, giorno per giorno,
momento per momento, occasione per occasione, le maglie diplomatiche per l’unificazione
dell’Italia sotto la fulgida guida del Re di Sardegna, Vittorio Emanuele II di
Savoia (1820-1878).
Le occasioni ed i momenti fondamentali
furono, senza dubbio: la guerra di Crimea (ottobre 1853-gennaio 1856) e quindi l’appoggio
piemontese alla Francia ed al Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord
contro la Russia; il conseguente congresso (25 febbraio/16 aprile 1856) e
trattato (30 marzo 1856) di Parigi, che sanzionò la sconfitta russa nella detta
guerra, ed ove il Conte di Cavour pose abilmente all’attenzione delle potenze
europee la questione italiana, ed, infine, gli accordi di Plombières
(les-Bains), conclusi il 20 luglio 1858 con l’imperatore dei francesi Napoleone
III (1808-1873), i quali prevedevano l’aiuto della Francia al Piemonte per
muovere guerra all’Austria, con la cessione, però, di Nizza e della Savoia alla
Francia medesima.
Ed eccoci a quel 17 marzo 1861, come si
diceva all’inizio, nella nobile e suggestiva cornice dell’aula del Parlamento
Subalpino di Palazzo Carignano di Torino, in cui fu proclamato il Regno
d’Italia.
La rivoluzione aveva dato forza alla
diplomazia, ma, senza quest’ultima, la rivoluzione non avrebbe nulla concluso.
Però codesto spirito rivoluzionario, imbaldanzito dalla fortuna, era divenuto
l’anima di una partito detto “di azione”
che, insofferente di indugi, pretendeva di imporsi allo Stato e di trascinarlo
alle più arrischiate avventure.
L’Italia era unificata, ma senza la capitale
a Roma l’opera non poteva, non doveva essere completa. Infatti il 25 marzo
1861, il deputato di Bologna Rodolfo Audinot (1814-1874) tenne alla Camera un
vibrante discorso sulla questione romana, che dette lo spunto al Cavour per le
sue celebri dichiarazioni e per l’emanazione dell’ordine del giorno con il
quale Roma era proclamata capitale d’Italia (“non ci sarebbe stata l’Italia unita se Roma non fosse stata la Capitale”).
Purtroppo l’improvvisa morte (6 giugno 1861)
interruppe la singolare opera del Conte di Cavour.
Sin dalla prima giovinezza, come abbiamo
visto, il Cavour aveva avuto l’ambizione di essere un grande ministro di un
paese costituzionale all’inglese. La fede nella libertà, patrimonio delle
aristocrazie, e la persuasione ch’essa potesse poggiare soltanto sugli ordini
rappresentativi, sono le sue caratteristiche e costituiscono l’unità mirabile
della sua vita.
Nel 1861, il Cavour avrebbe potuto ripetere
ciò che nel 1852 aveva detto alla Camera:
“Dovessi
rinunziare a tutti i miei amici d’infanzia, dovessi vedere i miei conoscenti
più intimi trasformarsi in nemici accaniti, non fallirei al dover mio, non
abbandonerei mai i principi di libertà ai quali ho votato me medesimo, del cui
sviluppo ho fatto il mio compito ed a cui per tutta la vita sono stato fedele”.
Piemontese anzitutto, mirò a realizzare,
memore dell’esperienza del 1848, quel regno sabaudo dell’Alta Italia che era
stato l’ambizione ed il tormento del Re Carlo Alberto. Ma quando Cavour si
accorse che si poteva ottenere di più, non esitò a farsi italiano ed a mettersi
risolutamente alla testa del movimento unitario e monarchico.
Il Cavour ebbe quella visone esatta della
realtà, anzi di tutte le realtà, sino agli estremi limiti del possibile; e
tutto il possibile volle conseguire sfruttando le circostanze con sommo
ingegno, con ferrea tenacia, con calda passione di artista della politica.
Qui sta la sua grandezza e la sua
originalità.
Soprattutto fu un grande diplomatico, ma le
risorse della vecchia diplomazia in lui si unirono con l’impeto del
rivoluzionario e l’audacia del giocatore d’azzardo.
Nessuno puo’ dire che cosa avrebbe fatto per
compiere l’unità politica della Nazione, al fine di risolvere i problemi ideali
che il Risorgimento implicava, per dare il soffio di una vita sua originale al
rinnovato popolo d’Italia. Il Conte di Cavour, come l’ammiraglio Horatio Nelson
(1758-1805), morì nella gloria di un trionfo che pochi anni prima era pura
follia sperare.
§ 3.
Conclusioni –
Ho cercato, e spero, cari Amici, di averVi
dato un sintetico quadro degli svariati aspetti che portarono la nostra
Penisola a divenire unita sotto un Regno.
Dopo l’Illuminismo, dopo la Rivoluzione
Francese, dopo l’impresa napoleonica, dopo gli ideali del Romanticismo, dopo le
rivoluzioni europee del 1848, per conseguire la necessaria unità ci dovette
riflettere, come abbiamo visto, il conte di Cavour. Presidente del Consiglio di
quel piccolo stato dislocato tra le Alpi, che era il Regno di Sardegna.
Un Regno appunto! Quindi la grandezza e
l’immortalità della Monarchia che ha rappresentato, rappresenta e rappresenterà
anche in codesto Terzo Millennio dell’Era Cristiana.
Ma questi ideali di unità erano, senza
dubbio, insiti nel piccolo stato.
Infatti, attraverso i secoli, due principi
cercarono essenzialmente di infonderli: uno fu il duca Emanuele Filiberto di
Savoia (1528-1580), il quale per la sua ostinazione, fu chiamato dagli spagnoli
“Cabeza de hierro” “Testa di ferro”, secondo fondatore dello
Stato Sabaudo, il quale spinto dal motto “spoliatis
arma supersunt”, riconquistò tutto quanto era stato perduto della sua terra
e riformò l’ordinamento dello Stato su basi molto moderne, a cui potremmo
quest’anno, CDXC della sua nascita,
dedicare un incontro; un l’altro è il re Vittorio Amedeo II di Savoia (1666-1732), il quale fu il primo Re di
Sardegna, dopo l’esserlo stato di Sicilia, e che dedicò gli ultimi dieci anni (1720-1730)
del di lui regno ad un sostanziale, strutturale, radicale miglioramento dello
stato, e ciò con una visione organica e coerente dei maggiori problemi.
Ma fu, nella cultura che, pur adottando
misure restrittive della libertà di stampa e di pensiero, Vittorio Amedeo II
non esitò a combattere il monopolio ecclesiastico nell’insegnamento, promovendo
l’apertura di scuole laiche e restringendo i privilegi di quelle religiose.
E’ certamente un accenno di cultura liberale che
ebbe il suo sviluppo nel ben noto “Secolo dei Lumi” e nell’Enciclopedia
(1751).
Sotto
il regno vittorino, si riorganizzò, ma su nuove basi, con l’aiuto di due
giuristi siciliani [Niccolò Pensabene (1660-1730), nominato conservatore, e
Francesco d’Aguirre (1682-1773 ca.), nominato avvocato fiscale dell’Università]
l’Università stessa di Torino inviandovi maestri insigni dall’Italia e
dall’estero, riservando alle quattro facoltà l’esclusivo diritto di conferire
lauree, e fondando un collegio delle province per gli studenti poco abbienti.
E ciò fu dovuto anche
a Vittorio Amedeo il quale, dalla lontana Torino, si affacciò sulle tradizioni
e sulla cultura siciliana.
Le sue idee, la sua “forma
mentis”, comune ai personaggi sabaudi, risvegliarono animi e spiriti sopiti
nella profonda tradizione della cultura meridionale.
A Vittorio Amedeo succedette Carlo
Emanuele III. A lui Vittorio Amedeo III (1725-1796), eppoi Carlo Emanuele IV
(1751-1819), Vittorio Emanuele I (1759-1824), Carlo Felice (1765-1831) e Carlo
Alberto. Sovrani tutti non inclini, anzi contrari, a quella visione liberale
del Regno, la quale, per ritrovarla, dovranno trascorrere oltre cento anni
dalla morte di Vittorio Amedeo II, e che si personificò, come abbiamo visto,
nell’ultimo Re di Sardegna e primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II.
Al riguardo scrisse
il grande storico Gioacchino Volpe (1876-1971):
“[…]
La Monarchia, quella Monarchia
rappresentata da quel Casato di antica origine, che nel ‘700 rimase l’unico
Casato in certo senso “nazionale” della
Penisola, cominciò ad operare, anche senza proporselo, per l’unità, sin da
quando, nel ‘600 e ‘700, essa, per difendere il suo Stato o per guadagnare
qualche provincia o città della Lombardia, ebbe a fronteggiare stranieri e
soltanto stranieri, Spagna o Austria o Francia, richiamando su di sé
l’attenzione, la simpatia e qualche speranza di Italiani di ogni paese, stanchi
di tanta sarabanda di conquistatori e predoni, e diventando il punto di
convergenza loro. […]”.
Scrive ancora il
Volpe:
“[…]
E il dualismo (Italia monarchica e
sabauda e l’Italia di popolo) era poi
destinato a scomparire, quasi risolvendosi in forza, nel crescente
riconoscimento che la Monarchia era l’unità, era la continuità, era la forza
necessaria in un paese che aveva, e per di più poco benevolo, il Papato. […]”.
Quindi
la monarchia sabauda fu accettata pur di veder realizzata l’Unità d’Italia. E
fu anche accettata in quella Sicilia
borbonica, attaccata alle sue tradizioni millenarie. Al riguardo è interessante
leggere quel capolavoro di romanzo che è “Il
Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957). Scrive l’Autore:
“[…] Don Fabrizio, lirico e critico nello
stesso tempo, con occhio disincantato, fuori dagli avvenimenti, li vede mutare,
li vede sfuggire dal di lui controllo e, suo malgrado, è del tutto incapace di
adeguarvisi. “(…) è meglio il male
certo che il bene non sperimentato (…)” scrive l’Autore, facendo suo, un proverbio millenario nel momento in
cui il protagonista vota affermativamente per il plebiscito di annessione al
Regno d’Italia, e ciò con stupore generale della gente di Donnafugata, restia a
ratificare, sia per ragioni personali, sia che per fede religiosa, sia anche
per aver ricevuto immensi favori dal passato regime. Ma anche perché questa
gente effettuò un viaggio “ad
limina Gattopardorum” in quanto
stimava impossibile che un Principe di Salina, Pari del Regno delle Due
Sicilie, potesse votare in favore di quella che la gente denominava
Rivoluzione. […] ”.
Da ultimo ritengo esporVi un concetto letterario/politico,
che ritengo fondamentale, per quanto ho cercato dirVi fin qui. E’ di Francesco
de Sanctis (1817-1883), storico della letteratura italiana e ministro della
Pubblica Istruzione nel primo governo dell’Italia Unita presieduto da Camillo
Benso Conte di Cavour (23 marzo 1861/12 giugno 1861) . Nella sua opera “Storia
della Letteratura Italiana”, che è, pertanto, anche storia dell’intera
civiltà italiana dal Medio Evo agli inizi del secolo XIX, vi si trova esposta
la sua interpretazione del Risorgimento come risultato della lotta delle due
scuole, liberale e democratica. Esse combattendosi aspramente, furono gli
elementi necessari di una dialettica feconda dalla quale scaturì l’azione
concreta per l’Unità d’Italia.
Nel messaggio del 17 marzo 1961 (alla
Consulta dei Senatori del Regno), il Re Umberto II (1904-1983) limpidamente
scrisse:
“[…]
L’epica impresa poté grado a grado
raggiungere l’altissimo fine, perché il re Vittorio Emanuele II, con a fianco
Camillo di Cavour, aveva assunto con mano ferma la direzione e la
responsabilità del moto nazionale, coraggiosamente superando difficoltà di ogni
genere.
Attorno
ad essi sorsero da ogni parte d’Italia – magnifico prodigio – falangi di
patrioti, sempre tutti presenti nei nostri grati cuori.
L’apostolato
di Mazzini e l’eroismo di Garibaldi integrarono l’opera meravigliosa, risultato
di forze confluenti e contrastanti, fuse dalla sintesi costruttiva della
Monarchia nazionale. Discordie e rancori di partiti furono arsi dal sentimento
religioso della Patria: così sorse il Regno d’Italia. […]”.
Ed ora, richiamando i
versi del poeta Publio Virgilio Marone (70 a. C.- 19 a. C.) (Georg. III,
284) nella loro perenne e duratura validità: “fugit interea, fugit
inreparabile tempus […]”, taccio e chiudo questa mia sommaria e
forzatamente molto incompleta esposizione, ma mi sia permesso di chiudere con
l’intenzione di rendere omaggio ad una simpatica, saggia ed autorevole Signora,
oggi alquanto trascurata ed abbandonata; mi riferisco alla Storia,
rappresentata, sin dai tempi antichi, dalla musa Clio. Poiché se è vero, come è
vero, che la Storia è maestra della vita [esattamente “Historia est testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra
vitae, nuntia vetustatis”, come scrive Marco Tullio Cicerone (106 a. C.-43
a. C.) nel suo “de Oratore”], appare
evidente che la stessa, come tanti saggi maestri, è oggi tenuta in scarsa
considerazione e, comunque, ben poco, per non dire affatto, vengono apprezzati
e messi in pratica i suoi insegnamenti.
E questa mia esposizione è stata, senza
dubbio, anche un doveroso omaggio alla memoria delle nostre Tradizioni, che ci
ha dato illuminati esempi di vita, di civiltà, di libertà, di prosperità, una
Patria unita, un’Europa libera.
Ed in questo spirito risorgimentale
ritengo giusto ricordare a tutti Voi i versi con i quali il poeta “repubblicano”
Giosuè Carducci (1835-1907), conclude la sua “Alla Croce di Savoia” [“Juvenilia, lib. VI”(1850-1860)]:
“[...] E
tu, Croce di Savoia,
tu
fra l’armi e su le mura
spargerai
fuga e paura
in
tra i barbari signor.
Noi,
progenie non indegna
di
magnanimi Maggiori,
noi
con l’armi e con i cuori
ci
aduniamo intorno a te.
Dio
ti salvi, o cara insegna,
nostro
amore e nostra gioia!
Bianca
Croce di Savoia,
Dio ti salvi e salvi
il Re!”
Gianluigi CHIASEROTTI
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