NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 3 agosto 2018

Io difendo la Monarchia - Cap V - 2


Mussolini continua nella sua Storia di anno: «Un altro grave scontro avvenne con la legge che legalizzava il Gran Consiglio e stabiliva la sua competenza perfino nella successione al trono. La crisi durò alcuni mesi. Nel 1929 la Conciliazione dissipò l'irritazione e le relazioni tornarono normali».

Vi furono, dunque, varie crisi, e alcune assai lunghe, nei rapporti tra il Capo dello Stato e il Capo del Governo tra il 1925 e il 1929. Ma il Re non potè far prevalere la sua volontà perché era avvenuta una radicale trasformazione nell'equilibrio costituzionale dello Stato con la istituzione di un solo partito, l'unico autorizzato a vivere e l'unico ad essere rappresentato in Parlamento.

La fine del Parlamento veniva a significare a fortiori la fine della Monarchia costituzionale o rappresentativa o parlamentare. Non si può fare il processo al Re per questa crisi storica perchè egli è la prima vittima di tale rivoluzione da lui nè voluta, nè incoraggiata. Con la legge del Primo Ministro e con la legge che dava la facoltà al Governo di emanare norme giuridiche, fu compiuta la creazione dello stato fascista totalitario. Non vi furono più crisi ministeriali e Mussolini fece i suoi « cambi della guardia » nel Ministero senza bisogno delle consultazioni del Re. Egli aveva facoltà di nominare e deporre i ministri. Egli aveva ai suoi servizi una Camera docilissima e unanime. Tutto questo era avvenuto con regolari approvazioni e votazioni dei due rami del Parlamento
E quel che più conta con il favore del popolo sempre disposto all applauso all’indirizzo del « duce » e sotto la velata minaccia di una milizia di parte pronta a sostenere le ragioni della « rivoluzione in cammino » Con
la scusa del calendario fascista, vennero infine aboliti gli auguri del Capo d'anno. Così il Re fu estraniato dalla condotta politica del paese e non ebbe più contatti con le assemblee legislative. La Corona non aveva più una Camera dei deputati a cui rivolgersi, nè il Senato seppe compiere un gesto di energia e di lealismo verso il vecchio Sovrano. Ora la crisi non è finita. L'antifascismo dei sei partiti non pensa di ripristinare l'antico equilibrio dei poteri. Esso tende a perpetuare il sistema fascista. La folla dei violenti, dei facinorosi e degli armati in nome di un nuovo mito (la democrazia progressiva del comunismo) vorrebbe investire di sovrana autorità una assemblea dominata da qualche nuovo demagogo. Ogni altra autorità non deve essere riconosciuta. Appena Bonomi, nell'ottobre 1944, fece ritorno, saviamente, alla prassi regolare, al metodo delle consultazioni del Luogotenente per risolvere quella crisi di Governo, Nenni insorse e pose poi il veto nel maggio 1945, forte della insurrezione partigiana, alla permanenza dell'assennato parlamentare al potere. Giustamente un corrispondente straniero ha scritto che l’Italia ha subito nel maggio 1945 una seconda marcia su Roma. L'equilibrio dei poteri viene avversato perchè si tende alla nuova dittatura del socialcomunismo. Quel che giuoca in queste crisi non è la superiorità della dottrina o il rigore del ragionamento: giuoca solo il temperamento degli uomini. E se Bonomi, con il suo temporeggiare, con la sua tenacia nei tentativi di conciliare i conflitti, ha il temperamento di Giolitti, Nenni tende ad una mediocre ripetizione del suo conterraneo e maestro di gioventù, Mussolini. Nel giudicare degli eventi italiani dell'ultimo quarto di secolo ci troviamo dinnanzi ad un problema di civiltà e di costume politico assai più che dinnanzi a un problema di responsabilità giuridica o politica di alcuni istituti.
Già nel 1920, Vincenzo Morello (Rastignac) aveva fatto una osservazione che sembrò improntata a straordinario pessimismo suscitato nell’animo dello scrittore dalla visione poco confortante dell’aspra lotta politica di quel tempo. Scriveva il Morello: «La guerra nazionale che, proprio perchè tale, avrebbe dovuto unire tutti in un unico fascio, divise il popolo italiano fino alle sue più profonde radici provinciali e comunali. La guerra in breve, ruppe la leggera crosta di uniformità che la cosiddetta unità aveva creato e rivelò l'Italia a se stessa in tutte le sue più insuperabili differenze... Oggi la vita italiana ha di nuovo ripreso il suo antico ritmo di vita comunale, con la stessa energia negli odi e la stessa violenza nell’azione del Medioevo».
Questa grave analisi di V. Morello all'indomani dell'altra guerra deve essere attentamente considerata. Più volte Croce ha messo in rilievo che la vecchia Italia avversa alla rivoluzione dell'8oo, quella delle antiche Corri, non era entrata nel nuovo corpo italiano, non aveva più partecipato alla vita pubblica del paese. E ha notato il Croce anche recentemente e il suo giudizio ha rafforzato con quello, ci sembra, di Giustino Fortunato, che
quell'appartarsi di tutto un ceto, quello straniarsi della vecchia classe dirigente dalla vita nazionale fu un danno per tutti. In una lettera di Stefano Jacini ai suoi elettori di Temi nel 1869, si affermava che la vita pubblica italiana poggiava sul falso: vi era un'Italia reale distinta dall'Italia legale e tendente a ribellarsi a quella. Su 25 milioni di abitanti solo mezzo milione godeva del diritto elettorale. Di questo più della metà si asteneva dalle urne; sicchè senza contare gli agenti del potere esecutivo che concorrevano a formare la massa elettorale, l’un per cento degli italiani prendeva parte alla vita politica della nazione (1). Il nipote Stefano Jacini, attualmente Ministro della guerra, nel commentare le idee dell’avo scrive  (pag 33 op cit.) che in Italia il sistema parlamentare non ha mai funzionato correttamente e che il paese non ha mai goduto di un vero regime costituzionale. Anche nell’ottimo volume di Bonomi (2) che ha visto la luce dopo la liberazione di Roma dai tedeschi, viene notato questo fenomeno della scarsa partecipazione del popolo, dopo il 1860, alla vita politica del Regno. « Con un elettorato — egli scrive — ristretto per il fatto dell'enorme analfabetismo italiano e la propaganda astensionista della Chiesa, le urne elettorali raccoglievano a mala pena in ciascun collegio (che era allora di circa 50 mila abitanti) qualche centinaio di suffragi. Proprio nelle elezioni legislative del 20-27 novembre 1870 alcuni candidati erano entrati in votazione al ballottaggio con non più di trenta, quaranta voti. Erano, sì, venuti in luce uomini eminenti durante le lotte del Risorgimento e avevano preso posto nei due partiti che secondo l'esperienza inglese tenevano il campo della politica italiana. Poi con il diminuire dell influenza britannica i partiti erano venuti crescendo di numero nel paese e ancor di più i gruppi parlamentari secondo il costume di Palazzo Borbone. Infatti la nuova democrazia italiana tendeva a modellarsi su quella della sorella latina. Si venne via via dalla vittoria delle sinistre del 1876 alla guerra di Libia, allargando il suffragio sino ad addivenire dopo quella campagna coloniale, per iniziativa di Giolitti, al suffragio universale. E non si può dire che il paese non sopportasse bene quell’aumento costante del suo corpo politico attivo. Ma come abbiamo abbondantemente descritto, la guerra del 1914-1918 e l’ingresso tumultuoso in Parlamento di grossi partiti di masse, aveva spostato l’asse politico della nazione da Montecitorio ai Comitati direttivi o direttori nazionali dei partiti. Il 3 gennaio 1925 d Parlamento ebbe il colpo di grazia. Esso aveva faticosamente vissuto, ma non senza lustro di uomini eminenti e comunque, quale unico centro politico del paese dal 1861 al 1918 e poi aveva sopravvissuto tra crisi  sempre più acute e frequenti, sino a quel momento. Ora sorgeva un dittatore che si dichiarava responsabile di tutto il fascismo, dei suoi meriti come dei suoi delitti e invitava la Camera a deferirlo, se qualcuno poteva osarlo, all’Alta Corte di giustizia. Nessuno osò un tale gesto nemmeno degli eroici combattenti come Lussu o come Viola. Perchè? Perchè essi sapevano che la partita era perduta e che Mussolini aveva con sè le masse popolari, aveva la Milizia, aveva la grande riserva dello squadrismo padano e toscano. Poteva il Re, da solo, contro tutti, provocare la crisi e affrontare la lotta? Con quali possibilità e quali mezzi? Di delitti politici era piena la storia dei colpi di stato, ma assai più piena la storia delle rivoluzioni. Gli odierni antifascisti credono certo alla santità della loro rivoluzione partigiana, ma si sono fermati a considerarne il numero dei delitti?

Dal marzo 1848 al gennaio 1925 poche volte i Re d’Italia avevano sciolto la Camera su parere dei Governo in carica; mai era stato deposto un Presidente del Consiglio contro la volontà della maggioranza delle due Camere. È pur vero che i demagoghi professionali ritengono che il genio della politica si riveli nel fare sempre qualcosa di diverso e nuovo dal passato, ma una Monarchia non può seguire i sistemi cari alla demagogia. Essa si regge solo in quanto è un potere rigorosamente tradizionale e costantemente ancorato a delle formule non soggette a mutazione per il variare di volubili correnti.

(1) Vedi Stefano Jacini : Un conservatore rurale della nuo a Italia. Laterza. Bari. vol. II, pag 22
(2) Ivanoe Bonomi: La politica italiana da Porta  Pia a Vittorio Veneto. Einaudi, 1944.                                              
                                                                                                                                                    

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