
NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.
venerdì 31 agosto 2018
mercoledì 29 agosto 2018
L'antico tricolore del Regno ritorna a Susegana: fu salvato durante la ritirata di Caporetto
Torna a
casa a quasi centouno anni di distanza l’antico tricolore (nella foto)
che sventolava sulla cima del pennone del Comune di Susegana.
La
bandiera venne salvata nel 1917 durante la ritirata di Caporetto, per volontà
del capitano di un’autocolonna in transito per il paese. Per una delle tante
coincidenze della storia, ad eseguire l’ordine fu il geniereUmberto Savoia,
originario della Valpolicella, che ammainò il drappo con lo stemma della casa
reale dei Savoia per salvarlo dall’invasore, conservandolo con cura e
portandolo a casa al termine del conflitto.
A più di
un secolo di distanza, il figlio Giulio, classe 1929, ha espresso il desiderio
che la bandiera faccia ritorno a Susegana, proprio nell'anno del centenario
della fine della Grande Guerra.
“Quando
il signor Savoia ci ha contattato ci siamo commossi - racconta il sindaco
Vincenza Scarpa - E’ stata una sorpresa e un regalo enorme per la nostra
comunità. Insieme agli assessori Matteo Bardin e Enrico Maretto ci siamo recato
a Sant’Ambrogio di Valpolicella e abbiamo potuto vedere la bandiera, che si
trova in uno stato di conservazione perfetta”.
Non è
ancora stato deciso, invece, dove verrà esposto l'importante cimelio: “Ora
siamo in contatto con la Soprintendenza, per avere tutte le indicazioni
necessarie su come conservare questo reperto in maniera adatta", spiega la
prima cittadina.
La
cerimonia ufficiale si terrà sabato 15 settembre alle ore 10.45 in piazza
Martiri della Libertà, quando Giulio Savoia consegnerà nella mani del sindaco
Scarpa la bandiera tricolore, alla presenza dei cittadini e di numerose
autorità civili e militari.
martedì 28 agosto 2018
CULTURA LUNEDÌ 27 AGOSTO 2018, 17:48 A Palazzo Madama arriva la mostra "La Sindone e la sua immagine"
In occasione
della riapertura della restaurata Cappella della Sindone, opera di Guarino
Guarini, Palazzo Madama propone dal 28 settembre 2018 al 21 gennaio 2019 la
mostra La Sindone e la sua immagine, curata da Clelia Arnaldi di Balme con la
consulenza scientifica di Gian Maria Zaccone,direttore del Centro
Internazionale di Sindonologia di Torino.

Organizzata in collaborazione col Polo Museale del Piemonte, diretto da
Ilaria Ivaldi, la rassegna presenta al pubblico un’ottantina di pezzi
provenienti in particolare dal Castello di Racconigie dalla Fondazione Umberto
II e Maria José di Savoia, che ha sede a Ginevra, e inoltre dal Museo della
Sindone di Torino e dalle stesse collezioni di Palazzo Madama. Le opere avute
in prestito da Racconigi e da Ginevra fanno parte della celebre collezione
raccolta dal Re Umberto II. Molti di questi quadri erano già stati esposti nel
1931 a Palazzo Madama in occasione del matrimonio di Umberto di Savoia con la
principessa Maria del Belgio.
Sono raffigurazioni della Sindone realizzate dal momento del suo arrivo in
Piemonte nel XVI secolo fino al principio del 1900 con svariate finalità:
immagini celebrative dinastiche in ricordo di Ostensioni avvenute in
particolari festività ed eventi politici, oppure legate a avvenimenti storici;
lavori di alto livello esecutivo accanto ad altri più popolari dagli evidenti
scopi devozionali. Opere prodotte con tecniche diverse - incisioni, disegni e
dipinti su carta, su seta o su pergamena, ricami e insegne processionali – dove
la Sindone è presentata secondo rigidi modelli iconografici che lasciano, però,
spazio alla fantasia dell’artista per l’ambientazione e la decorazione.
All’interno delle scene dipinte si alternano svariati personaggi storici,
sia ecclesiastici sia della famiglia reale, le forme dei baldacchini, le immagini
di carattere devozionale in cui il lenzuolo è sorretto dalla Madonna e dai
Santi, le architetture effimere predisposte per la sua presentazione ai
pellegrini in Piazza Castello, i simboli della Passione, le ghirlande fiorite e
gli oggetti destinati alla devozione privata e al mercato dei souvenir. In
apertura troviamo il grande dipinto a olio su tela di Pieter Bolckmann del
1686, raffigurante Piazza Castello affollata in occasione dell’Ostensione del
1684 per il matrimonio di Vittorio Amedeo II con Anna d’Orléans.
Dal Museo della Sindone provengono oggetti significativi come la cassetta
che servì a trasportare la reliquia a Torino nel 1578 e la macchina fotografica
da campo utilizzata da Secondo Pia, il primo a documentare fotograficamente la
Sindone nel 1898.
domenica 26 agosto 2018
La morte di Mafalda di Savoia Assia, una tragedia italiana

di
Aldo A. Mola
Il
28 agosto 1944 la principessa Mafalda di Savoia (“Muti”, in famiglia), consorte
di Filippo Landgravio d'Assia, morì dopo una tardiva amputazione del braccio
sinistro, ustionato sino all'osso, per
fermare la cancrena generata dagli spezzoni di bombe anglo-americane che
l'avevano ferita. L'intervento ebbe luogo nell'ambulatorio improvvisato nel
postribolo del campo di concentramento di Buchenwald. Il 24 precedente migliaia
di fortezze volanti partite da basi remote bombardarono a tappeto le Officine
Gustloff e i dintorni. Churchill, in visita a Napoli, voleva dare una lezione
alla Germania, già piegata dalla sconfitta inflittale dai sovietici a Kursk.
Nessuno immaginava che al bordo del campo vivesse la figlia di Vittorio
Emanuele III, catturata a Roma il 22 settembre 1943 per ordine di Hitler e lì
detenuta dal 8 ottobre. “Povera foglia frale...” la Principessa lasciò la vita terrena.
Riscoprire
la tragedia di Mafalda di
Savoia-Assia significa compiere un passo
avanti nella conciliazione della memoria storica, con quanto può derivarne
nella vita quotidiana. Più serenità, più responsabilità. Ne scrisse l'imperiese
Renato Barneschi in “Frau von Weber” nel
1982 (poi, Bompiani, 2006), seguito dal bel saggio sulla “Regina della Carità”,
come Elena venne definita. Il 18 marzo 1983 morì a Ginevra Umberto II,
iniquamente condannato all’esilio perpetuo dalla Repubblica italiana: una
condotta abbietta nei confronti del Re Gentiluomo, che volle con sé nel feretro
il regio sigillo. Deposto nell’Abbazia di Altacomba, antico sepolcreto della
Casa, a quel modo il Re mandò il suo
ultimo messaggio agli italiani: dovevano e debbono farsi carico della propria
storia, tutta.
Il
mònito non fu raccolto. Eppure basta
rievocare di Mafalda di Savoia-Assia per chiudere finalmente la sterile
polemica retrospettiva contro la Casa, che sin da Carlo Alberto di
Savoia-Carignano, sul trono dal 1831, legò le sue sorti alla lotta per
indipendenza, unità e libertà degli italiani. Pagando molto. Nella carne. Ne fu esempio lo stesso Carlo
Alberto, che il 23 marzo 1849, la sera della battaglia di Novara abdicò e partì
per il Portogallo, ove si spense, consunto, il 28 luglio, appena
cinquantunenne. Al protomedico Alessandro Riberi, mandatogli dal figlio,
Vittorio Emanuele II, bisbigliò quasi scusandosi: “Le voglio bene, ma muoio”.
Suo nipote, Umberto I, fu assassinato a
Monza il 29 luglio 1900, poco dopo aver insediato il governo
liberal-progressista guidato dall'ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del
Senato. E quindi fu la volta di Vittorio Emanuele III, che abdicò e partì per
l'Egitto il 9 maggio 1946, e, di lì a poco, di suo figlio, Umberto II, appunto,
che lasciò la Patria per il Portogallo il 13 giugno 1946. Senza ritorno.
Vicende
dimenticate, deformate da letture faziose, con cesure, censure
e ampie zone d’ombra.
Fra
le molte rimane ingiustificabile il lungo oblio riservato a Mafalda. La sua
vicenda basta da sola a dire quanto una livorosa polemistica
non vuol sentire né ammettere: nel dramma della seconda guerra mondiale
Casa Savoia fu tutt’uno con le famiglie italiane anche nella sofferenza e nel lutto.
Un
anno prima della tragica morte, il 28 agosto 1943, Mafalda era partita da Roma per raggiungere la
sorella, Giovanna, consorte dello zar dei bulgari, Boris III, che rientrato da
un tempestoso incontro con Hitler, ammalò d’improvviso (probabilmente
avvelenato perché non approvava le misure contro gli ebrei e intendeva
sganciare il proprio paese dall'alleanza con i tedeschi) ed era ormai
agonizzante. Suo marito, sposato nel Castello di Racconigi il 23 settembre
1925, dopo l’attentato del 20 luglio 1944 al Fuehrer era in
stato d’arresto. Il viaggio di rientro in Italia per la principessa Mafalda fu
un'odissea. Alla stazione di Sinaia, in Romania, venne informata della svolta
in atto in Italia (proclamazione dell'armistizio, trasferimento della Casa
Reale e del governo in Puglia) e invitata a rimanere. Proseguì per raggiungere
i figli, a Roma, forte del suo rango. L'aereo predisposto per il suo
trasferimento da Budapest a Bari atterrò a Pescara. Da lì raggiunse
fortunosamente Roma. Mafalda si riteneva al sicuro proprio per il rango di Prinzissin,
che agli occhi dei nazisti, ferocemente antimonarchici, era invece
un'aggravante, come ricorda Frédéric Le Moal nella biografia di Vittorio
Emanuele III (Gorizia, LEG). Mentre il figlio maggiore, Maurizio, già in
Germania, era a portata di mano di
Hitler, la regina Elena lasciando Roma
ne aveva affidato molto fiduciosamente i figli minori, Enrico, Otto ed
Elisabetta, al sostituto segretario di Stato della Santa Sede, Giambattista
Montini, che però presto li allontanò perché, accampò, sopraggiungevano nipoti
suoi.
Pertanto
anche i principini d’Assia finirono a loro volta in Germania. Nella Città
Eterna caduta sotto il controllo di Kappler,
Mafalda finì in un tunnel senza
uscite. Si fidò dei germanici sino a recarsi alla loro ambasciata ove (le era
stato assicurato) sarebbe stata chiamata al telefono dal consorte Filippo. Lì, invece, venne
arrestata (22 settembre 1943). Nel campo
di Buchenwald, che aveva per insegna “A
ciascuno il suo”, Fu assegnata alla stanza 9 della baracca 15.
Come
centinaia di migliaia di connazionali ignari della sorte dei loro cari
(dispersi, prigionieri,...), i sovrani, il principe ereditario Umberto e tutti
i suoi famigliari e amici rimasero in angosciosa attesa di notizie della
principessa, prigioniera in mani studiatamente crudeli. Della sua atroce fine
dettero notizia i giornali, con commenti ingenerosi e inopportuni, il 14 aprile 1945. Scrissero crudamente che Mafalda di Savoia-Assia era morta per le
ferite riportate nel bombardamento del lager in cui era rinchiusa. L’aiutante
di campo di Umberto di Piemonte, Luogotenente del Regno, ne informò subito il
generale Paolo Puntoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III,
affinché i sovrani “non leggessero la
tremenda notizia sui giornali”. Puntoni ne riferì subito al Re. Nel Diario
annotò che il sovrano “come sempre (...) non lasci(ò) trapelare alcun
turbamento” e continuò la conversazione in corso con Brunoro De Buzzaccarini.
Solo un quarto d’ora dopo, Vittorio Emanuele III s’appartò per riferirne alla Regina. Ma
quell’informazione era davvero esatta? Seguirono settimane di angoscia, sino a
quando il 2 maggio, proprio quando in Italia
cessò la guerra, tramite i canali
informativi della Santa Sede, venne la
conferma. Quando ne ebbe certezza, il Re assunse “quell’atteggiamento che, per chi non
lo conosce a fondo, può sembrare cinico; e io so - scrisse Puntoni - che egli soffre terribilmente...”. Liberati,
come il padre, al crollo del nazismo, Maurizio ed Enrico d’Assia furono poi
ripetutamente a Villa Jela, ad Alessandria d’Egitto, ove Vittorio Emanuele III
prese dimora dopo la partenza dall’Italia per l’esilio (9 maggio 1946). Lo
ricordò Tito Torella di Romagnano in
“Villa Jela” (Garzanti).
Della
morte della principessa (vittima della deportazione, del bombardamento
anglo-americano, del forse voluto ritardo nella cura delle gravissime ferite)
non si doveva parlare tra fine della guerra e referendum istituzionale. La
morte di Mafalda in campo di concentramento provava che Casa Savoia aveva
combattuto e pagato la sua opposizione al dominio nazista. Dal settembre 1943
la Corona aveva trasformato il conflitto in lotta di liberazione, ancora una
volta ponendo a servizio della Patria le
persone dei sovrani, i loro figli e i loro beni. Doveva
rimanere misconosciuta la figura
di Mafalda, delicata e forte a un tempo, atrofica come il padre ai muscoli
degli arti inferiori e tuttavia
attivissima, dedita alla beneficenza generosa e discreta, come sua
madre, Elena. Per quotidiani ed emittenti radiofoniche incitanti all’odio e al disprezzo nei
confronti di Casa Savoia, la morte di Mafalda in un campo di concentramento
nazista sparigliava le carte. Lo stesso valeva per la sorte della figlia minore
dei sovrani, Maria, di cui ha scritto la principessa Maria Gabriella di
Savoia in La vita a Corte in Casa
Savoia. Né se ne poté scrivere dopo il referendum fu frutto di migliaia di
brogli largamente documentati in
documenti mai confutati.
Il
silenzio su Mafalda coprì due altri aspetti della verità. Anzitutto la pietas di padre Herman Joseph Tyl.
Quando riconobbe la salma della Prinzessin, con sollecitudine egli la
sottrasse al forno crematorio, cui era destinata, e la fece avviare a Weimar
ove venne sepolta, sia pure come “donna sconosciuta”. Nel lager del
resto la Principessa era stata registrata sotto il nome di “frau von Weber”. Sette marinai di Gaeta internati a Weimar però ne
riconobbero la sepoltura e la segnarono. Fu la conferma della fraternità nel
dolore, propria dell’identità italiana. Ma anche questo doveva passare sotto
silenzio, come ha ricordato anche Mariù
Safier nella oggi introvabile biografia di Mafalda, scritta con penna lieve e
ricchezza documentaria in Mafalda di Savoia Assia dal bosco dell'ombra poi
arricchita in Mafalda di Savoia Assia. Un ostaggio nelle mani di Hitler (Bastogi).
Settantadue
anni dopo il cambio istituzionale del giugno 1946 e mentre l'assetto
istituzionale scricchiola per tracotanza di due vicepresidenti e l'evanescenza
del presidente del Consiglio, la straziante sorte di Mafalda di Savoia-Assia
s'impone quale parte integrante della storia dell’Italia del Novecento. I
sovrani, il principe ereditario, tutta
Casa Savoia portarono il lutto al braccio, come milioni di connazionali. Erano gli stessi che
all’inizio del secolo avevano scommesso su un progresso ininterrotto, senza
traumi bellici, ma poi fecero i conti
con la grande guerra e nel ventennio seguente fronteggiarono la grande depressione economica con l’IRI, le bonifiche, il rilancio
industriale e manifatturiero, sempre
nella certezza che il lavoro premia più delle avventure. La concordia deve
prevalere sull'odio, sull'invidia di classe, sulle falsità spacciate per
storiografia.
Quell’Italia
commise vari errori, e anche gravi. Ma in una monarchia statutaria responsabile
degli errori non è il Re solo (né, meno ancora, un sovrano isolato quale fu
Vittorio Emanuele III, tuttora in attesa di una biografia scientifica) sibbene
l’intera dirigenza, che ne fu quanto meno corresponsabile.
Osò dirlo Aimone di Savoia-Aosta con la franchezza tipica della sua Casa: e fu
a sua volta costretto all’esilio. Lo ricorda anche Amedeo di Savoia in Cifra
Reale. Il ricordo della figlia del
Re morta nel campo di sterminio ove
s’ergeva la Goethe Eiche,
la Quercia di Goethe, costituisce dunque un invito a riflettere sulla storia
italiana del Novecento con passione, perché si tratta di pagine
dolenti, ma finalmente senza pregiudizi né paraocchi.
Casa Savoia, ne emerge con chiarezza, fu tutt’uno con ogni altra famiglia dell’
“itala gente da le molte vite”. Il martirio di Mafalda ne è appunto il
suggello.
Vanno
aggiunte poche altre osservazioni. Con la Grande Guerra crollarono gli imperi
di Russia, Turchia, Austria-Ungheria e Germania. Il Regno d'Italia rimase l'unica
monarchia costituzionale rilevante nell'Europa di terraferma. Vittorio Emanuele
continuò la “grande politica” degli avi, con il conferimento del Collare
dell'Ordine della Santissima Annunziata e alleanze dinastiche. A parte le nozze
della primogenita Jolanda (“Anda”) con il conte Carlo Calvi di Bergolo (non
gradito dalla Regina Madre, Margherita di Savoia), nel 1925 “Muti” andò in
sposa al Langravio d'Assia, Filippo, che operava per traghettare la Germania
dal caos postbellico: un luterano. Giovanna, terzogenita, sposò l'ortodosso Boris III, zar dei Bulgari. La
Santa Sede non gradì né l'uno né l'altro matrimonio e interpose clausole
medievali. Ma il Re, che nel 1896 aveva sposato l'ortodossa Elena di Montenegro,
pensava anzitutto all'Italia nel difficile quadro europeo (l'URSS non era un
amico...) e e alla libertà di coscienza di tutti i regnicoli. Nella sua difficile opera non venne affatto
aiutato. Un Re in solitudine (come Vittorio Emanuele III drammaticamente fu dal
1938 in poi) è un paradigma per i presidenti sotto assedio dei tempi nostri. Fu il caso di Giovanni
Leone e di Francesco Cossiga.
Quale
sorte attende Sergio Mattarella? Tocca agli italiani dotati di senso della
storia, alimento del senso dello Stato, rimboccarsi le maniche e coniugare
l'oggi con il lungo corso dell'Italia unita.
E'
significativo che nell'anniversario della sua tragica morte Mafalda di Savoia
venga ricordata a Pamparato, due passi da Vicoforte ove dal dicembre 2017
riposano le salme dei suoi genitori: luoghi di pace e di meditazione.
Aldo A. Mola
sabato 25 agosto 2018
Pamparato (Cuneo) ricorda Mafalda di Savoia, "da Principessa a deportata"
Il
Comune, tramite la Biblioteca Comunale, e la onlus "col. Giuseppe Cordero
Lanza di Montezemolo", hanno organizzato, per mercoledì 28 agosto 2018,
anniversario della morte nel campo di concentramento di Buchenwald, una tavola
rotonda dal tema "Mafalda di Savoia da Principessa a Deportata".
I lavori
si svolgono nel Municipio, già Castello di Caccia della famiglia nobiliare
Cordero di Pamparato, alle ore 17,30.
Coordina
il giornalista Claudio Bo.
Relatori:
l'on. prof. Sergio Soave, Presidente dell'Istituto Storico della Resistenza
della Provincia di Cuneo, il prof. Mola, storico, la prof.sa: Aimar, fondatrice
del Centro Studi Principe Oddone, il Marchese Cordero di Pamparato, autore
studi storici.
venerdì 24 agosto 2018
Continuano i processi farlocchi a Re Vittorio Emanuele III
Dal quotidiano di Napoli "Il Mattino" apprendiamo che l'ineffabile
magistrato della repubblica Woodcock troverà il tempo per partecipare,
ovviamente in qualità di pubblico ministero, quindi la pubblica accusa, ad uno
dei tanti processi che si tengono ogni tanto a carico di Re Vittorio Emanuele
III.

Ci chiediamo se i magistrati dello stato non abbiano cose più impellenti da fare per garantire che gli italiani abbiano la giustizia cui hanno diritto. Ma tant'è...
Bontà loro apprendiamo che questa volta si prevede addirittura una difesa del
Sovrano che completò l’Unità Nazionale.
Non possiamo che sorridere pensando che dati gli ottimi risultati delle
precedenti inchieste del magistrato, anche ai danni di Casa Savoia, conclusesi
con il risarcimento per ingiusta detenzione, Vittorio Emanuele III uscirà dal
dibattimento con un “non luogo a procedere”.
Di seguito la notizia de “Il Mattino”.
Lo staff
Le colpe di uno Stato incapace di controllare
di Salvatore Sfrecola
La tragedia di Genova insegna che le responsabilità del concessionario non assolvono chi ha operato per far perdere efficienza e prestigio alla pubblica amministrazione: pesa anche la cattiva politica che non dà direttive e non sa scegliere i collaboratori
Ci voleva la tragedia di Genova, ultima in ordine di tempo tra i crolli di ponti e viadotti, le frane e le esondazioni che periodicamente costituiscono l’emergenza di questo Paese, che spende per tali eventi più, molto più di quanto avrebbe dovuto impegnare per la prevenzione ed i controlli, perché qualcuno si soffermi sulla realtà dell’amministrazione pubblica ormai inadeguata, da rifondare . Non che manchino eccellenze e strutture adeguate in ogni settore, ma è evidente che l’Amministrazione nei suo complesso è molto lontana da quella che l’Italia aveva conosciuto in passato. Basta riandare un po’ alla storia per rilevare come siano venuti meno professionalità e presidi che un tempo erano il fiore all’occhiello dello Stato e degli enti, territoriali e istituzionali.
Per non sembrare un laudator temporis acti riprendo quanto ha scritto pochi giorni fa, il 18 agosto, su Facebook, il professor Guido Melis, noto storico delle istituzioni il quale ha ricordato che «c’era una volta il Genio civile. Dopo l’unità, nell’Ottocento, fece letteralmente l’Italia, costruendo strade, ponti, edifici pubblici. Li progettava, li realizzava, li manuteneva. Aveva il corpo di ingegneri civili più prestigioso d’Italia. Poi lo Stato si espanse.
Le opere si fecero più numerose e costose. Allora si fece ricorso alle imprese private. Si stipularono contratti d’appalto. Il Genio civile, amministrazione dello Stato, adesso per lo più vigilava. Il verbo vigilare è un verbo ambìguo. Allora significava conoscere i progetti delle imprese, seguirne l’esecuzione, controllarne nel tempo la manutenzione. L’occhio dello Stato funzionava. Corpi scelti di ispettori, dotati di elevate capacità tecniche, vedevano e provvedevano. Era cosi con Giolitti e fu così col fascismo.Un ingegnere del Genio in provincia era un’autorità. E cosi il capo dell'ufficio tecnico erariale, l’intendente di finanza, il prefetto. Ogni autorità nel suo settore agiva con ampi poteri di vigilanza. Nel secondo dopoguerra questo sistema saltò».
Le opere si fecero più numerose e costose. Allora si fece ricorso alle imprese private. Si stipularono contratti d’appalto. Il Genio civile, amministrazione dello Stato, adesso per lo più vigilava. Il verbo vigilare è un verbo ambìguo. Allora significava conoscere i progetti delle imprese, seguirne l’esecuzione, controllarne nel tempo la manutenzione. L’occhio dello Stato funzionava. Corpi scelti di ispettori, dotati di elevate capacità tecniche, vedevano e provvedevano. Era cosi con Giolitti e fu così col fascismo.Un ingegnere del Genio in provincia era un’autorità. E cosi il capo dell'ufficio tecnico erariale, l’intendente di finanza, il prefetto. Ogni autorità nel suo settore agiva con ampi poteri di vigilanza. Nel secondo dopoguerra questo sistema saltò».
La citazione è lunga ma essenziale e dice con l’autorevolezza del cattedratico cose che ho sempre detto e scritto io sulla base dell’esperienza maturata nella magistratura contabile, nel controllo e nella giurisdizione di responsabilità, un osservatorio prezioso delle amministrazioni statali, regionali e degli enti locali.
Aggiungo quanto ho appreso leggendo ed osservando nell’esercizio di collaborazioni con alcuni ministri, in specie ai Lavori pubblici, ai Trasporti e alla Marina mercantile, funzioni oggi confluite in un unico ministero «delle infrastrutture», Ho trovato ovunque funzionari di elevata professionalità e di alto senso dello Stato ma anche molte scartine, persone incapaci di aggiornarsi, di studiare e di assumersi delle responsabilità.
Nei primi anni Novanta, in chiusura di un convegno a Perugia, promosso dalla Regione dell'Umbria sul tema della gestione del patrimonio, l’allora ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, facendo riferimento ad un mio intervento sul tema della responsabilità dei pubblici funzionari per danno all’Erario, disse che molti suoi funzionari si sarebbero fatti tagliare le mani piuttosto che firmare e assumersi una responsabilità. Replicai che avevo visto sotto processo soltanto incapaci o disonesti. Ma quella del ministro era comunque un a parte della realtà, una convinzione ampiamente condivisa tra i burocrati, certamente tra i meno preparati.
L’altra parte va individuata nella cattiva politica, quella che non è capace di dare direttive alla struttura e di scegliere i collaboratori. La politica che ha riempito i ministeri di incaricati di funzioni dirigenziali provenienti dall’area politica del ministro, persone spesso senza arte né parte, arroganti quanto incapaci, soprattutto di dirigere e coordinare i propri collaboratori.
L’altra parte va individuata
La norma dice di incarichi da conferire «a persone di particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria , da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi...». Letta così sembra una cosa importante. Ma il linguaggio ampolloso nasconde una realtà diversa, quella che ha consentito di riempire gli uffici di affiliati ai partiti, tratti da centri studi e da sezioni dove sono parcheggiati i portaborse. E, ancor più grave è stato l’incarico di funzioni dirigenziali a dipendenti pubblici che non sono riusciti a vincere un concorso da dirigente.
Nel 2001 a Palazzo Chigi c'era Giuliano Amato ed alla Funzione pubblica Franco Bassanini che quell’incarico aveva ricoperto anche nel precedente governo di Massimo D’Alema. Naturalmente ne hanno approfittato tutti i governi, a cominciare da Silvio Berlusconi e Matteo Renzi.
In queste condizioni la pubblica amministrazione italiana ha perduto le capacità operative e progettuali e anche quelle di vigilanza e controllo che sarebbe stato necessario potenziare progressivamente a mano a mano che si procedeva nelle privatizzazioni, perché il passaggio di attività imprenditoriali a privati, come la gestione della rete autostradale, avrebbe dovuto essere accompagnata da uno sviluppo delle capacità di monitoraggio delle gestioni, sia dal punto di vista giuridico ed economico che da quello tecnico. È evidente che, perse le capacità tecniche che in passato avevano distinto il ministero dei Lavori pubblici, la cultura del vigilare si è sviluppata secondo modelli di verifica formale successiva, sulle carte anziché sul posto, sur place, come fa la Corte dei conti europea, attuando una sorta di controllo fideistico avente ad oggetto le attestazioni del concessionario. Insomma, facciamo a fidarci.
Una annotazione finale. Perduta la cultura scientifica che aveva caratterizzato il vecchio Genio civile, anche gli ingegneri sono diventati dei burocrati dediti solamente al controllo delle carte, in una condizione, quindi, che non consente loro di interloquire da pari a pari con i concessionari i quali affidano le loro relazioni ad illustri cattedratici.
«Lei pensa che io potrei contestare quanto scrive il mio professore, quello che mi ha insegnato all’università?», mi sono sentito dire più volte ad ogni contestazione quando la vigilanza ed i controlli non apparivano sufficientemente approfonditi. Come a Genova, dove sarà presto chiaro che le evidenti responsabilità del concessionario non potranno assolvere lo Stato che, si scoprirà, avrebbe dovuto controllare e non accettare ciecamente le relazioni tecniche dell’appaltatore, anche quando sottoscritte dal maestro dell’ingegnere di turno.
«Lei pensa che io potrei contestare quanto scrive il mio professore, quello che mi ha insegnato all’università?», mi sono sentito dire più volte ad ogni contestazione quando la vigilanza ed i controlli non apparivano sufficientemente approfonditi. Come a Genova, dove sarà presto chiaro che le evidenti responsabilità del concessionario non potranno assolvere lo Stato che, si scoprirà, avrebbe dovuto controllare e non accettare ciecamente le relazioni tecniche dell’appaltatore, anche quando sottoscritte dal maestro dell’ingegnere di turno.
Con un’amministrazione priva di corpi tecnici adeguati alle esigenze è facile per politici sensibili alle sirene dell’imprenditoria nazionale e locale aderire alle richieste dei concessionari desiderosi di avere mano libera nella prospettiva di maggiori guadagni. Di queste scelte si accusa oggi il governo Berlusconi. Siamo nel 2008, ma è anche vero che ripetutamente il senatore Lucio Malan, di Forza Italia, ha interrogato invano i ministri delle Infrastrutture responsabili della proroga delle concessioni, segnalando l’evidente contrasto di quelle decisioni con le regole europee della concorrenza.
giovedì 23 agosto 2018
E se l'Italia si riaffidasse ai Savoia?

La monarchia, nel 2018, è davvero così «fuori moda»? È la domanda che
pervade le pagine del bel libro «Conversazione sulla monarchia» di Histórica Edizioni, praticamente il resoconto di una
lunga chiacchierata tra il giornalista Rai Adriano Monti Buzzetti Colella e
l'avvocato cassazionista Alessandro Sacchi, presi dente deirUnionc Monarchica
Italiana.
La risposta di Sacchi, ovviamente, non può
che sottolineare l'attualità del sistema monarchico, non fosse altro per la sua
presenza in alcune delle democrazie più apprezzate dell'Occidente, dal Regno Unito alla Spagna, dall'Olanda al
Belgio.
Paesi nei quali - spiega il presidente
dell'Umi - la presenza della figura del Re, super partes c davvero unificante, ha
contribuito al superamento di drammi e voragini istituzionali che avrebbero potuto
mettere a dura prova le rispettive popolazioni. Basti pensare proprio al
Belgio, dove la storica inimicizia tra fiamminghi e valloni trova «unificazione»
proprio sotto la figura della Casa Reale, una presenza così «rassicurante» da
far tollerare anche una lunga parentesi senza un governo capace di prendere il
comando del Paese. Potrebbe la monarchia tornare anche in Italia? Stando alla
Costituzione, no. Ma, nella conversazione tra Sacchi e Monti Buzzetti, emerge proprio
la denuncia di quello che rappresenta l'articolo 139 della Carta repubblicana,
l’obbligo della forma repubblicana che, di fatto, rappresenta una vera e
proprialimitazione della volontà popolare.
[...]
"Il Tempo", 13 agosto 2018.
[...]
"Il Tempo", 13 agosto 2018.
mercoledì 22 agosto 2018
Il libro azzurro sul referendum - XII cap - 2

Nel tardo pomeriggio il ministro Lucifero
apprende casualmente la cosa. Telefona immediatamente a De Gasperi, ma gli si risponde che «il Presidente è a Castel Gandolfo, per una giornata di riposo». Rintraccia allora Arpesani segretario del Consiglio dei Ministri, cui denuncia, in termini di furore, la manovra (naturalmente il Sovrano non ha affidato alcun incarico per Pagano; non c’è una parola di vero nella «comunicazione» di Vitali al magistrato) raccomandandogli di smentirla sia con Pagano, sia con Pilotti, Procuratore Generale della Suprema Corte, senza perdere tempo.
Arpesani telefona a Pagano: «Smentisco
formalmente che il Re abbia deciso di partire domani alle 15. Smentisco che Sua Maestà le abbia inviato alcuno con la richiesta di chiudere la partita entro le dodici di domani».
Pagano conferma quanto Arpesani sa, e
commenta: «Sono molto sorpreso di tutto questo. Non ci si raccapezza più. La ringrazio molto! ». Poi Arpesani telefona a Pilotti; identica smentita. Pilotti risponde: «Si, io ho saputo della
pretesa decisione del Re e della necessità che sia riunita immediatamente la Corte, proprio poco fa, dal Presidente Pagano!»
Finalmente De Gasperi rientra a Roma e
telefona candido a Lucifero: De Gasperi: «Caro .Ministro, quella cosa
(formula prudenziale telefonica per indicare la riunione della Cassazione) si fa
domani alle 12 ».
Lucifero con uno scatto: «Non si fa nulla!
Lei oggi alle 13, dico non più tardi di oggi alle 13, mi ha dichiarato che il Governo è completamente all’oscuro di quanto decide la Corte, che agisce, secondo lei, in
piena libertà! Mi ha parlato di turris eburnea... Ebbene, io sono venuto a
sapere che il Consigliere Vitali è stato inviato a S. E. Pagano per comunicargli... » e gli rifà la storia della macchinazione.
Il crescendo di Lucifero impressiona il
Presidente e, mentre quello ripete « F'accio uno scandalo » De Gasperi: «Per amor del cielo si calmi.
Veda un po’ cosa succede se mi allontano un momento. Come è stato possibile questo increscioso equivoco? Sono costernato. Intervengo immediatamente!». Poco più
tardi richiamerà per dire: «Chiarito l’equivoco. Tutto fermato. Ne riparliamo
domani. Buona notte ».
Fino a questo punto però la manovra è
stata ricostruita solo parzialmente cioè nei tre tempi Cosentino-Vitali-Pagano.
Sia Lucifero che Arpesani ignorano ancora la fonte, di cui sono naturalmente assai curiosi. E’ Arpesani che riesce a individuarla, in una nuova telefonata a
Cosentino; impaurito delle possibili conseguenze della parte che ha giocato, e
delle minacce di scandalo ventilate da Lucifero, questi finisce col tradire il mandante. Cosicché Arpesani può far sapere a
Lucifero: «L’azione è partita da Romita. E’ stato lui a incaricare Cosentino,
che sostiene di aver agito in assoluta buona fede. Egli mi ha fatto questa confidenza a patto che la cosa resti fra noi. Perciò ti prego di non dare alla cosa pubblicità di sorta ».
Lucifero: «Nient’affatto, mio caro, la faccenda
è troppo grave e troppo evidentemente di pubblico interesse, perché io possa impegnarmi in tal
senso, lo ne farò invece l’uso che crederò necessario! ».
Inutile dire che, se il gioco fosse
riuscito, la vittoria repubblicana sarebbe stata legalizzata a spron battuto, e
la Corona si sarebbe trovala, in un tardivo conato di reazione, automaticamente fuori legge. Romita inventò di sana pianta la partenza del Re ».
La riunione della Corte fu rinviata alle
ore 18 del giorno 10; L’On. De Gasperi ignorava la decisione della Corte.
(1) Da Storia segreta ... pag. 145 e seg.
lunedì 20 agosto 2018
Religiosità di Umberto di Savoia
E’ nota la religiosità del Principe
Umberto, ma non è mai male aggiungere nuovi elementi e testimonianze della stessa. In questo caso riprendiamo da “Il
Bollettino Salesiano” di luglio-agosto di questo anno un ricordo di don Orione,
pronunciato in una Messa del 31 gennaio 1940, dove raccontò ai fedeli l’avvenimento
della traslazione della salma di don Bosco, dalla prima sepoltura a Valsalice a
quella di Santa Maria Ausiliatrice a Torino,
avvenuta nel 1929 : “….si passò anche davanti
Palazzo Reale. Ricordo che al balcone c’era il Principe di Piemonte, circondato
da generali. Il carro (funebre) si fermò un momento ed Egli fece cenno di compiacenza;
i superiori Salesiani chinarono il capo, come a ringraziarlo di quell’atto di
omaggio a don Bosco. Poi il carro raggiunse Maria Ausiliatrice. E di lì a qualche
minuto venne anche il Principe, circondato da personaggi della Casa Reale, a rendere
atto di devozione al nuovo Beato.”
Domenico Giglio.
«Io, ticinese, guardia delle tombe dei reali italiani»
A Elio Moro, docente di Locarno, è stato affidato l’incarico di recuperare una lunga tradizione culturale al Pantheon di Roma
LOCARNO – Toccherà a un locarnese cercare di recuperare una lunga tradizione culturale al Pantheon di Roma. Lui è Elio Moro, un uomo dai mille interessi. Di professione docente, spazia dalla cultura alla gastronomia. Sua l’idea di recuperare antiche ricette di digestivi. Sue diverse iniziative benefiche lanciate nella Svizzera italiana. Stavolta, l'incarico arriva da Roma. «Sono stato nominato responsabile delle guardie elvetiche delle tombe reali, spiega. Da anni c’è una carenza di svizzeri che ricoprono questo ruolo».
Le guardie d’onore alle tombe reali del Pantheon sono state istituite nel 1878. Con lo scopo di prestare servizio di guardia alle tombe dei re d’Italia. «Allo stesso tempo – spiega Moro – si mantiene viva la tradizione legata alla casa dei Savoia e al Risorgimento. Nel Pantheon c’è anche la tomba di Raffaello Sanzio». Ma cosa deve fare sostanzialmente una guardia? «Si indossa la divisa, così come all’epoca. E si sorvegliano le tombe. È più che altro anche una questione culturale e istituzionale, che attrae parecchio i turisti».
sabato 18 agosto 2018
MESSAGGIO DI S.A.R. LA PRINCIPESSA MARIA ISABELLA DI SAVOIA - GENOVA ALLA CITTA’ DI GENOVA
Genovesi!
dal
lontano Brasile desidero far pervenire alla Vostra Città, cui la mia Casa è
legata da una storia quasi bicentenaria, il mio cordoglio per le famiglie di
chi ha perso la vita nel crollo del ponte, per i feriti cui auguro una pronta
guarigione, per gli sfollati che hanno dovuto abbandonare le loro case.
Questa
terribile disgrazia segna profondamente la coscienza di ogni Italiano onesto ed
è monito per le Istituzioni, perché abbiano nel futuro la consapevolezza che
loro compete a tutela della sicurezza dei cittadini, in qualsiasi parte
d’Italia operino.
Genova,
città operosa, che svolge un importante posizione di polo commerciale a livello
internazionale, sono certa, ritornerà ad operare serenamente alla luce della
sua “Lanterna”.
Questo
il mio saluto ed il mio beneaugurante auspicio per il domani. Con affetto
da
San Paolo del Brasile, 17 agosto 2018
Maria Isabella di
Savoia - Genova
venerdì 17 agosto 2018
Utilità sociale, crescita professionale La leva obbligatoria è idea realistica

La Trenta
ha torto: il servizio militare non riguarda i soli combattenti. Con la proposta
di Salvini un apparato di ingegneri, medici, veterinari, periti e e
genieri potrebbe essere d’efficiente supporto alle esigenze statali
Per il
ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, quella di Matteo Salvini, che
propone di reintrodurre la leva obbligatoria, è «un’idea romantica», non
più attuale. Invece, ad essere limitativa è l’idea delle Forze armate che
ha la
signora di via XX Settembre, peraltro in aperta adesione alla concezione diffusa nei vertici militari, da sempre: quella che i militari siano esclusivamente combattenti. Non è stato così, ad esempio, nell’esperienza del più potente esercito di tutti i tempi, quello della Roma repubblicana e imperiale, che disponeva di un imponente apparato servente della truppa combattente, genieri, medici, veterinari, addetti alla cura delle armi e delle uniformi. Sì perché l’esercito romano, diversamente dai combattenti
di tutti gli eserciti del tempo aveva una grande organizzazione che e l’esempio, come scrive Massimo Severo Giannini, uno dei nostri più grandi amministrativisti, di una efficiente struttura burocratica, capace di sovvenire in
ogni tempo ed in ogni luogo alle esigenze dei combattenti.
signora di via XX Settembre, peraltro in aperta adesione alla concezione diffusa nei vertici militari, da sempre: quella che i militari siano esclusivamente combattenti. Non è stato così, ad esempio, nell’esperienza del più potente esercito di tutti i tempi, quello della Roma repubblicana e imperiale, che disponeva di un imponente apparato servente della truppa combattente, genieri, medici, veterinari, addetti alla cura delle armi e delle uniformi. Sì perché l’esercito romano, diversamente dai combattenti
di tutti gli eserciti del tempo aveva una grande organizzazione che e l’esempio, come scrive Massimo Severo Giannini, uno dei nostri più grandi amministrativisti, di una efficiente struttura burocratica, capace di sovvenire in
ogni tempo ed in ogni luogo alle esigenze dei combattenti.
Basti
pensare al sistema della leva che ha assicurato all’Urbe, sotto il martellare
delle milizie del generale cartaginese Annibaie Barca, di ricostituire in poche
settimane legioni efficienti e bene organizzate a ogni sconfitta pur in
una condizione di estrema difficoltà. Era quella una grande organizzazione che consentiva ai consoli delle legioni ai margini dell’impero in funzione di controllo del territorio di utilizzare il tempo costruendo acquedotti, fognature, terme, che troviamo ovunque erano giunti i combattenti di Roma.
una condizione di estrema difficoltà. Era quella una grande organizzazione che consentiva ai consoli delle legioni ai margini dell’impero in funzione di controllo del territorio di utilizzare il tempo costruendo acquedotti, fognature, terme, che troviamo ovunque erano giunti i combattenti di Roma.
Ma
venendo ai tempi nostri è certamente più attuale la proposta di Salvini, mentre
appare vecchia l’idea che delle Forze armate ha il ministro Trenta, quella che ho sempre ritenuto fosse un’«occasione mancata» per il nostro apparato difensivo. Il ministro della Difesa giustamente
richiama l’esigenza che i combattenti siano professionisti, come in tutti gli
eserciti moderni. Ma l’esercito non è fatto solo di combattenti, come si è detto di Roma, ma ha altre importanti specialità. Prima tra tutte il Genio che, infatti, interviene rapidamente in occasione di calamità naturali e di altre emergenze con
straordinaria efficienza, quella propria di un apparato militare organizzato
gerarchicamente. Quei reparti hanno a disposizione specialisti, ingegneri,
geometri, periti tecnici, e strumenti tecnici moderni, dalle scavatrici alle gru, e possono sovvenire rapidamente alle esigenze dei militari e della
popolazione civile aprendo una strada costruita da una frana, costruendo un
ponte che consenta di ripristinare la viabilità resa impraticabile da qualche evento naturale. È stato sempre così. Tuttavia l’utilizzazione
sistematica del Genio militare è stata
sempre vista con diffidenza dai vertici militari che ritengono non solo
prioritaria ma esclusiva la funzione combattente, così consentendo il business
delle imprese che operano costosi interventi per la Protezione civile.
Quest’anno
le piogge hanno, speriamo, limitato gli incendi. ma è certo che la cura dei
boschi per evitare l’accumularsi di rami e fogliame secco, quello che costituisce
un innesco naturale degli incendi, è assolutamente
trascurata, anzi inesistente.
Quanto
costa a carico del bilancio pubblico spegnere gli incendi che sarebbe stato
possibile prevenire attraverso la bonifica del sottobosco?
C’è, poi,
il capitolo della vigilanza nei musei e nelle zone archeologiche. Non è una attività
equiparabile a quella dei combattenti ma è la custodia del patrimonio più prezioso
che abbiamo, quello che insieme al paesaggio fa dell’Italia il Bel Paese, la
ragione prima del nostro turismo, come ha ricordato più volte, ancora di
recente, il senatore Gian Marco Centinaio, ministro delle politiche agricole, forestali
e del turismo, appunto. Il Genio militare è stato nella storia d'Italia una risorsa
preziosa, come ho ricordato più volte a proposito della costruzione delle infrastrutture
ferroviarie che secondo Camillo Cavour avrebbero unificato l'Italia richiamando
il ruolo di Luigi Federico Menabrea. ingegnere, capo del Genio militare,
ministro dei Lavori pubblici e presidente del Consiglio.
I nostri
militari di leva potrebbero essere impiegati, altresì, nel sistema informatico degli
apparati militari, in modo da essere anche pronti ad intervenire in funzione
ausiliaria o di controllo di quella diffusa rete di apparati che ormai gestisce
tutte le attività complesse, dagli acquedotti alla distribuzione dell'energia
elettrica. Né può essere esclusa l'utilità di giovani negli uffici delle
amministrazioni e degli enti, magari «prestati» in alcuni periodi per far
fronte alle emergenze feriali. Nel settore sanitario, ad esempio, che denuncia gravi
carenze in alcuni momenti nei quali la gente prega di non ammalarsi, nel fine settimana
e destate. Sarebbe anche un modo per impiegare medici e paramedici, incrementare
la loro esperienza e specializzazione.
E siccome
parliamo di sanità forse a qualcuno sfugge il ruolo fondamentale che svolgeva
la leva obbligatoria attraverso lo screening della popolazione maschile (oggi
anche di quella femminile) ai fini alla prevenzione delle malattie.
Ci sono,
poi, i «vivai», se così possiamo chiamarli, delle Forze armate nelle attività sportive,
che si arricchirebbero di un più ampio concorso di giovani.
Insomma
la leva obbligatoria, in una versione moderna
e intelligente assicurerebbe servizi importanti al Paese e alle
comunità e costituirebbe una scuola di vita e professionale come un tempo era quando
il giovane imparava un mestiere o si perfezionava in una professione. Un’idea buona,
a me pare, che sposa quel tanto di romantico che, ci dicevano i nostri nonni, aveva
fatto l’Italia unendo in un unico impegno sul fronte siciliani e piemontesi,
veneti e pugliesi, con le esigenze moderne di sostegno alle tante attività che
lo Stato e gli enti locali altrimenti non riescono a soddisfare.
giovedì 16 agosto 2018
1793: Savoiardi contro Francesi

Era
il periodo in cui a Parigi la Convenzione cercava di difendere la
Repubblica dai nemici esterni (Austro-Russo-Prussiani), ma anche di esportare
la rivoluzione con tutto il bagaglio ideologico, anticlericale
e amministrativo al seguito nei paesi confinanti.
Il
Regno di Sardegna (Re Vittorio Emanuele I) fu uno dei primi confinanti a
farne le spese.
L’Alta Savoja, quella attorno al Lago di Annecy, con la
Tarantasia ad est ed in particolare la zona a nord est di Annecy,
cioè le valli attorno a Thones, piccola cittadina capo
Mandamento, si sollevò nel maggio 1793 contro i “francesi”
giacobini e rivoluzionari occupatori, con la forza di quelle contrade facenti
parte a tutti gli effetti del Regno di Sardegna.
Sabato
4 maggio 1793 era giorno di mercato a Thones e proprio qui tra le
bancarelle iniziarono le prime avvisaglie della protesta popolare.
Il
giorno dopo domenica 5 maggio sulla piazza del paese le autorità
giacobine filo-francesi, vollero iniziare con prepotenza ed
ostentazione le operazioni burocratiche inerenti la leva militare,
la famosa “leva di massa” tanto odiata dai
contadini.
Sia
i coscritti, che parecchi presenti si opposero. Venne distribuita la
coccarda azzurra colore dei Savoja.
I
capi più in vista del movimento di rivolta furono un contadino ventenne di
nome Louis Rovet, spinto
probabilmente dalla motivazione del rifiuto della leva militare ed una
giovane ricamatriceMarguerite
Frichelet - Avet, nata a Thones nel 1756, di sentimenti religiosi e
quindi più sensibile e contraria all’acceso anticlericalismo
repubblicano, arrivato con i commissari dell’esercito
francese.
Ad
Annecy le autorità presero subito provvedimenti organizzando una colonna
mobile di 200 cavalieri e 700 fanti da inviare a Thones a
sedare la rivolta.
Nello
stesso tempo i contadini della vallata, mossi dallo spirito delle vecchie
“jacquerie” si armarono con armi da fuoco, in specie quelle requisite con
un colpo di mano a Menthon sul lago di Annecy ed occuparono Thones, ad
iniziare dalla Mairie e dalle case dei borghesi.
La
sera del 7 maggio avvenne il primo scontro tra i soldati
francesi e gli inesperti ed anche poco disciplinati montanari.
I
primi ebbero la meglio, mettendo in fuga i secondi, che si ritirarono
sull’impervio altopiano della Mosette. Il giorno dopo fu invece la cavalleria
francese ad essere scompaginata con varie perdite tra morti e feriti.
Ma
il giorno successivo 9 maggio i francesi, ricevuti notevoli
rinforzi tanto da portare la truppa a 2500 unità, assalirono con vigore
le postazioni degli insorti che si dispersero ritirandosi nelle alte valli.
Uno
“spia” tra le file dei montanari, figura che non manca mai in queste
circostanze, fu anche la causa del successo dell’aggiramento di un lato delle
postazione degli insorti, attraverso un impervio sentiero montano.
[...]
Gervasio
Cambiano
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