NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 12 marzo 2018

Le industrie femminili italiane

di Waldimaro Fiorentino




8 marzo, data che oggi indica comunemente la «Festa della donna». E si è festeggiata nei giorni scorsi; ma, ci sono anche altre date che, almeno per l’emancipazione delle donne italiane, rivestono importanza di rilievo; tra queste date, merita di essere rammentata quella del 23 aprile 1908, giorno in cui, a Roma, in Campidoglio, ebbe inizio il primo Congresso  delle donne italiane; venne inaugurato alla presenza della Regina madre Margherita di Savoia, della Regina Elena, della principessa Letizia di Savoia Bonaparte, del ministro della pubblica istruzione Luigi Rava e di un nutrito numero di signore dell’aristocrazia e della borghesia, accomunate dal comune impegno al di là delle distinzioni sociali.

L’evento suscitò interesse tale da meritare una tavola di Achille Beltrame nella prima copertina a colori de «La Domenica del Corriere», che, all’epoca, era il settimanale più popolare e diffuso d’Italia.
Non era il punto di partenza del programma di emancipazione della donna italiana; l’avvio era di molto precedente e risaliva alle origini del nostro Risorgimento nazionale; e, sin dai primi passi, il processo aveva ricercato il criterio della solidarietà tra le classi sociali che del Risorgimento fu il principio informatore.
Primo tassello di questo mosaico di raro valore civile fu la creazione della «Industrie femminili italiane», che fu stimolata da una iniziativa della Regina Margherita e della contessa veneziana Marcello, impegnate, sul finire dell’Ottocento, nel recupero della lavorazione del merletto di Burano, la cui produzione era ormai estinta da decenni e che da quella iniziativa venne restituita a nuovo prestigio.
L’esperienza felice contratta a Burano incoraggiò la nascita di iniziative analoghe e, nel volgere di pochissimi anni, nelle zone più povere del Paese, che recava ancora i segni dell’arretramento dovuto alla più che millenaria divisione ed alla dominazione straniera, sorsero una sessantina di scuole che divennero fulcro di produzione, di crescita sociale e di emancipazione della donna. A far comprendere l’importanza di quel processo, è sufficiente riportare alcuni passi di una cronaca pubblicata su un periodico del 1908: «Nell’Isola Maggiore nel Lago Trasimeno, 200 persone vivevano di fame e di miseria, in uno stato di primitività che raccontavano come un gran fatto di essere andati a riva e di aver venduto un cavallo! Gli uomini pescavano, ma le donne non facevano nulla perché l’isola è così piccola che non c’è modo di lavorare nei campi o di far la pastorizia, quando la marchesa Guglielmi introdusse nell’isoletta il lavoro ad uncinetto… la marchesa fornisce la materia prima, i modelli e paga immediatamente all’operaia il lavoro che essa le porta… e sono più di 80 le donne che ora lavorano e dal loro lavoro il paese è stato completamente trasformato: case riattate, un maestro chiamato a far scuola, in ogni casa un libretto della Cassa di risparmio e, particolarità non trascurabile, i pescatori, quando non vanno a pesca, compiono essi le faccende domestiche, perché le donne non si insudicino le mani ed abbiano più tempo per dedicarsi a questo lavoro miracolosamente redditivo».
Dunque, in una società ancora molto maschilista, un’automatica presa di coscienza, da parte degli uomini, della parità dei ruoli nella famiglia.
Iniziative di questo tipo vennero promosse in tutte le regioni italiane; a stimolarle ovunque dame dell’aristocrazia, che, all’epoca, si rendeva conto dell’importanza di farsi promotrice di solidarietà sociale, come strumento di compattezza nazionale, a correzione di divisioni storiche che avevano favorito l’altrui dominio in casa nostra. Si realizzava, insomma, una sorta di recupero dello spirito e dell’ammonimento dell’«apologo di Menenio Agrippa», attraverso il quale a scuola cercavano di spiegarci che una società è forte solo quando ciascuna persona e ciascuna classe si rende conto della funzione degli altri e sente il valore della complementarità.
Le attività produttive vennero canalizzate, appunto, nella «Industrie femminili italiane», che realizzarono in ogni regione italiana centri di raccolta dei prodotti e punti di vendita oltre che in tutta Italia, anche A Bruxelles, Parigi, Londra, Liegi, New York ed in diverse altre città estere. La «Industrie femminili italiane», concepita sin dal 1892, venne costituita il 22 maggio 1903, in forma di società per azioni, con azioni da 100 lire ciascuna; e Vittorio Emanuele III e la regina Elena sottoscrissero il massimo delle azioni
Non vennero avviate soltanto attività produttive, ma anche scuole per stimolare un vero e proprio processo di emancipazione.
Raccolgo frammenti di notizie da una serie di cronache dell’epoca, nella fiducia che siano sufficienti a far comprendere le proporzioni di quel movimento di grande valore morale, prima ancora che economico.
«A Pischiello in Umbria, nella scuola fondata dalla marchesa Ranieri di Sorbello, ogni donna guadagna dalle 200 alle 300 lire ogni anno (la retribuzione di 100 giornate di operaio); è una ricchezza inimmaginabile per queste povere campagnuole che vivevano in un paesino di montagna lontano cinque ore da un paese civile… Foppolo è un paese di 2000 abitanti  situato sopra una collina, distante quattro chilometri dalla strada carrozzabile e non accessibile che a cavallo per una mulattiera che attraversa campi e burroni… Nel 1903, la signora Emmellina De Renzis, creò una piccola scuola per dare occupazione e guadagno alle ragazze del luogo e trarle fuori da questo stato di ignavia e di incuria… ed ha potuto in breve tempo conseguire risultati meravigliosi… specialità della scuola sono i ricami in filo colorato su tela eseguiti in punto italiano antico, punto a croce, riquadrato senza rovescio, punto corsivo, punto greco, riprodotti per la maggior parte da antichi disegni italiani. Dapprincipio le ragazze erano sei, adesso si avvicinano all’ottantina e han dovuto essere trasportate in una casa all’uopo e la loro produzione è molto ricercata… Analoga è la storia della scuola di Casamassella nelle Puglie, fondata dalla contessa Carolina Starace de Viti de Marco…una scuola che non fa distinzione di classe né di provenienza e che ha raggiunto rapidamente le 500 alunne, che guadagnano in media fino a lire 1,50 il giorno (quasi la paga di un operaio qualificato) ed eseguiscono mirabili ricami in punto a reticello, punto in aria, punto avorio… Le donne di Casalguidi si vantano di guadagnare come i muratori, che sono gli artieri meglio pagati del paese…nella Valvogna perfino l’emigrazione è diminuita».
E gli esempi potrebbero proseguire a lungo; la conclusione? «Sono già 56 le scuole delle Industrie femminili sparse per tutta l’Italia e fiorentissime; il segreto del loro incremento sta nel fatto che le dame che hanno preso questa iniziativa si sono preoccupate non solo di mettere nelle mani di queste donne il lavoro, ma un lavoro tale che, per la sua originalità artistica e praticità e bellezza, potesse, al di fuori di ogni protezione e raccomandazione, avere un valore in sé ed essere una risorsa durevole, e non accidentale e momentanea per la popolazione che l’aveva adottata».
La «Industrie femminili italiane» non furono che un tassello in un mosaico molto articolato nel processo di emancipazione della donna italiana; crebbe anche l’impegno ad un ruolo adeguato della donna nella cultura; crebbe il numero delle donne nella letteratura, nella musica, nelle professioni intellettuali; per il momento, mi limito a rammentare l’«Esposizione internazionale femminile di belle arti» organizzate a Torino nel 1913 dalla rivista «La donna», sotto l’alto patronato della regina Elena e della principessa Laetizia di Savoia Napoleone.
Il momento conclusivo di quel processo che ebbe il carattere della evoluzione virtuosa fu l’organizzazione a Roma del «Congresso internazionale delle organizzazioni femminili», l’«Internationale Council Woman» (I.C.W.); il congresso  venne inaugurato il 16 maggio in Campidoglio, nella sala degli «Orazi e Curiazi», e durò sette giorni; vi presero parte le rappresentanti delle organizzazioni femminili di 24 Stati; tra le relatrici italiane, vi furono la contessa Camozzi, la marchesa Lucifero, la contessa Spalletti Rasponi, la signora Dora Melegari; tutte le congressiste vennero ricevute a «Villa Margherita», attuale sede dell’Ambasciata Usa, dalla regina madre ed ebbero incoraggiamento da Vittorio Emanuele III e dalla regina Elena.
Una cronaca dell’epoca, ci fa sapere che «ognuna delle relazioni mise in rilievo una data lacuna, una data inferiorità nelle condizioni attuali della donna; giacché nobile caratteristica di questo convegno promosso dalle signore italiane fu di occuparsi della sorte delle donne e del fanciullo nelle classi meno colte e meno protette… venne trattato il tema della tutela delle donne emigranti… altri capisaldi del Congresso furono il riconoscimento dell’importanza sociale del bambino, il lavoro a domicilio, la lotta contro l’alcoolismo, il pauperismo, la morale unica per i due sessi, l’igiene femminile, l’igiene delle abitazioni, il miglioramento della razza umana. Un po’ di effervescenza produsse la contessa di Robilant quando sostenne, appoggiando il suo dire sui risultati di una minuziosa inchiesta, che il guadagno economico della donna che lavora in casa sia spesso maggiore del guadagno-salario della donna che lavora fuori casa; e la marchesa Lucifero presentò in seduta plenaria la proposta di introdurre una leva femminile per i servizi d’assistenza sociale».
L’aspetto più polemico e meno rispondente ai principi di solidarietà che avrebbero dovuto informare i lavori del Congresso riguardò la scelta della lingua; le congressiste estere, nonostante l’assisa si tenesse a Roma, imposero che le lingue ufficiali fossero esclusivamente l’inglese, il francese ed il tedesco, escludendo l’italiano; un comportamento arrogante, cui le congressiste italiane replicarono con ironia; rispose per tutte la contessa Gabriella Spalletti Rasponi: «Le rappresentanti italiane sono tutte in grado di comprendere e di godere le relazioni nelle lingue da nostre graditi ospiti reclamate; pensavamo potesse loro far piacere intendere le nostre relazioni nella lingua del Paese che ospita il Congresso».
Nella fotografie, un gruppo di partecipanti al primo Congresso femminile internazionale tenutosi a Roma; un francobollo emesso per raccogliere finanziamenti per le industrie femminili: la sede della «Industrie femminili italiane».


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