DINO
COFRANCESCO
Gli eventi epocali e i grandi
uomini che fondano una comunità politica - o la fanno assurgere al rango di
“grande potenza” sotto il profilo militare, economico, culturale - alimentano i
“miti collettivi”, matrici delle identità etico- politiche degli individui e
dei gruppi sociali. A differenza delle ideologie - elaborate da una ragione
tendenzialmente egualitaria e universalistica - i miti non sono una fedele
registrazione del passato ma un racconto edificante, destinato a unire gli
spiriti e a farli sentire parte di una grande famiglia - soprattutto quando
Annibale è alle porte e la difesa della “patria” può comportare perdite di beni
e di vite umane. Nel mito si rimuovono i lati oscuri della storia: il fatto, ad
esempio, che la bandiera a stelle e strisce sventolava sui reggimenti che
massacravano le tribù indiane - o le ricacciavano in riserve sempre più sterili
- o che il tricolore era inalberato nei luoghi in cui il Maresciallo Rodolfo
Graziani sterminava migliaia di etiopi, come rappresaglia al fallito attentato
di Addis Abeba. È inevitabile che sia così giacché i legami comunitari - dalla
famiglia alla nazione - riscaldano e danno vigore per ciò che hanno avuto di
positivo: quando pensiamo con tenerezza alla nostra famiglia, ai parenti che
non ci sono più, solo per un attimo ci vengono in mente i conflitti talora
esasperati, i drammi, le incomprensioni, le ribellioni che abbiamo vissuto
giacché tutto il dolore che la convivenza ha cagionato viene poi riscattato dai
momenti idilliaci, dalle festività che hanno ricongiunto nonni, genitori,
figli, zii, cugini, dalla solidarietà di cui talora abbiamo beneficiato nei
giorni bui. Certo il “racconto della comunità” non è la “storia della comunità”
ma la seconda non è neppure una sterile denuncia dei miti della prima. Come
scriveva Benedetto Croce, in una stupenda pagina di Storiografia e idealità morale, «la storia è storia di quel che l’uomo ha prodotto di positivo, e
non un catalogo di negatività e d’inconcludente pessimismo». I francesi il 14
luglio celebrano la Bastiglia con una grande festa che fa incontrare per le
strade cittadini di tutti i ceti ( e oggi di tutte le razze): sono gli storici,
da Alexis de Tocqueville a François Furet, a dirci che cosa fu veramente la
Rivoluzione francese e a illustrarne le tante luci e le non meno numerose ombre.
Nel nostro paese, forse anche per
essere stata l’Italia un vuoto di potere che, nei secoli, le grandi monarchie
europee hanno tentato di riempire manu militari - ingenerando nei popoli della
penisola l’attitudine dell’arrangiarsi e al “si salvi chi può”, Franza o Spagna
purché se magna.., e un tenace scetticismo nei confronti di uomini e di
istituzioni - il mito politico di fondazione, il Risorgimento, ha sempre
trovato, pronto a farlo a pezzi, lo spirito beffardo, che “non se la beve”: una
figura patetica che, sotto la maschera dell’uomo superiore - dell’Übermensch -
rivela solo la miseria spirituale di un popolo, almeno in una sua larga parte,
rimasto suddito e, quindi, privo di identità e di dignità.
A queste considerazioni mi ha
portato la lettura della prima pagina di Libero del 18 marzo che recava un titolo a caratteri
cubitali “Ma quale festa per i 157 anni dell’Italia. Lutto nazionale e un
sottotitolo “L’unità è un’invenzione politica e retorica…”. Nell’articolone di
Renato Farina, si leggono frasi come queste: «Non esiste niente di più lontano
dall’unità dell’Italia. Da quando in qua si brinda davanti a un fallimento?...
questa unità non c’è mai stata... per gravissime colpe storiche delle nostre
classi dirigenti, e starei per dire della tanto osannate crème piemontese e
garibaldina... In realtà, per paradosso, la proclamazione del 17 marzo 1861
sancì sì lo Stato unitario, ma soprattutto consacrò la rottura di una unità
spirituale della nazione» Stando all’apota Farina, «l’Italia intesa come
nazione, come popolo, esisteva da secoli a dispetto delle mire unitarie
dell’élite culturale illuminista e abbastanza imperialista». Ma in che senso ci
si chiede? E qui spunta fuori il cattolico tradizionalista, dimentico che senza
i cattolici liberali e i liberali cattolici il Risorgimento non si sarebbe mai
realizzato. Per lui l’Italia, prima dell’infausto 1861, esisteva come «popolo
cattolico unito non tanto dalla lingua italiana (parlata soltanto dalle classi
colte) ma dal latino, che forse era compreso a senso ma di certo parlato in
tutte le case» un’identità, peraltro, allargata a francesi, spagnoli austriaci,
ungheresi che qualche dimestichezza col latino avevano anche loro. Farina,
sicuramente uomo di destra, mostra, comunque, di non aver pregiudizi: toglie
dalla soffitta della storia, per riproporlo in salsa veteroleghista,
l’antirisorgimentismo della vecchia sinistra marxista quella della “conquista
regia” e della colonizzazione del Sud: «l’unità imposta con le armi, seguita
dalla brutale repressione del brigantaggio; l’imposizione di una burocrazia
straniera; la rapina da parte dei Savoia - silente
Garibaldi dell’oro conservato nei forzieri del Banco di Napoli... La leva
obbligatoria, mai conosciuta prima nelle Due Sicilie, con l’imposizione della
divisa e dell’obbedienza a ufficiali incomprensibili».
Forse è tempo perso ricordargli
1) che il Risorgimento, lungi dal costituire un repertorio retorico continuo e
martellante, nell’Italia del secondo dopoguerra era così rimosso - a parte
certe letture obbligate e certe cerimonie politiche - che a un liceale degli
anni Cinquanta (come me) appariva un trascurabile evento della storia europea (
più tardi mi resi conto della sua rilevanza leggendo i grandi storici dell’Ottocento
francesi, russi, inglesi e tedeschi); 2) che il Risorgimento, come la
Rivoluzione francese, fu alle origini di una grande stagione di ricerche
magistrali, promosse, soprattutto, da storici meridionali - il fior fiore della
storiografia del Novecento: da Gaetano Salvemini a Gioacchino Volpe, da
Benedetto Croce ad Adolfo Omodeo, da Rosario Romeo a Giuseppe Galasso; 3) che
la “questione meridionale” (brigantaggio, emigrazione etc.) non può essere
liquidata da qualche battuta di giornalisti tesi a épater les bourgeois, come Paolo Granzotto, Lorenzo del Boca, lo stesso Farina: ci sono
studi fondamentali al riguardo - l’ultimo dei quali è l’aureo saggio di Guido
Pescosolido, La
questione meridionale in breve (ed. Donzelli) ma si veda anche Borbonia felix di Renata De Lorenzo ( ed. Salerno) - che fanno giustizia di tanti
luoghi comuni.
Uno storico di fede repubblicana
scomparso di recente, Giuseppe Galasso, commentando sul Corriere della Sera del 22 agosto 2016, un vecchio saggio di Luigi Salvatorelli, Casa Savoia nella storia d’Italia, scriveva: «In linea generale,
appare difficile accogliere il giudizio di sostanziale estraneità dei Savoia
alle radici e alle logiche della storia d’Italia. Già almeno dal secolo XIII in
poi l’Italia appare il teatro principale della loro storia, ed è semmai il
trasferimento della loro capitale a Torino tre secoli dopo ad apparire un atto
tardivo rispetto a un orientamento emerso già da tempo, per quante incertezze o
ritorni si siano poi avuti nel seguirlo e realizzarlo. E, in sostanza, è facile
constatare che le mende rintracciate nei Savoia si ritrovano pure in qualsiasi
altra dinastia o Stato italiano prima dell’unificazione. Invece, la scelta
costituzionale del 1848, con l’accettazione di una prassi politica molto lontana
da quelle anteriori, fu solo dei Savoia, né la finale, tenace adesione e
complicità fascista può portare a una totale vanificazione del precedente ruolo
dei Savoia nella storia italiana, in particolare del Risorgimento». “Questa è
storia! ” e storia di un grande popolo. Articoli come quello di Renato Farina
dimostrano, invece, che stiamo diventando “un popolo senza storia” anzi una
plebe di dissacratori che riconosce il suo eroe solo in Tersite.
Nessun commento:
Posta un commento