NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 12 dicembre 2018

Io difendo la Monarchia - Cap VI - 3


Ma l'esarchia che ci governa non può tanto, per fortuna: essa deve procedere d’accordo nelle sue parti e non può uscire dalla legalità dello Stato che pure concordemente le sei parti finiscono col distruggere. Ed ecco i più spinti cercare di forzare la mano ai più cauti per raggiungere non la salvezza d'Italia, né assicurare
le sue frontiere, né garantire la vita e il lavoro del popolo italiano nei prossimi anni o mesi, né salvare un patrimonio coloniale acquistato prima del fascismo e costato molto lavoro e molto sangue, ma la vittoria della loro fazione. E per giungere a tanto essi pestano nel mortaio della loro morta dottrina, l’amaro seme della sconfitta e della vergogna. Procedono su questa strada, a sfruttare i loro vecchi rancori e a coltivare l'odio civile e l’odio di classe.

Si compie negli anni tra il 1926 e il 1932 (si potrebbe dire 1939 ove si consideri l’inaugurazione della Camera dei fasci e delle Corporazioni) quella che pomposamente i fascisti chiamavano la rivoluzione corporativa. Ora è divenuto chiaro per tutti che non si trattava di una rivoluzione, ma di un mezzo di propaganda e di un espediente temporaneo della dittatura per prolungare la sua durata. Non si può però dire che non fosse una esperienza a cui molti in Italia e fuori presero vivo interesse, e che parve sostituire con vantaggio il precedente sistema politico ed economico. Come rivoluzione essa fu presentata in Italia e fuori d’Italia, fu imitata in Austria, in Portogallo, in Spagna, in Jugoslavia, in Ungheria e in Germania. Ebbe larghi riconoscimenti ed elogi da parte dell'Ufficio Internazionale del Lavoro presso la Società delle Nazioni ove i suoi rappresentanti operai, i Rossoni e i Razza, andarono per più anni di seguito e furono bene accolti a rappresentare il lavoro italiano.
Rimaneva pur sempre il fatto che sindacati e corporazioni non traevano la loro vita che dalla forza politica dello stato fascista. Come osservava il Salvatorelli le corporazioni «funzionavano come oggetto, non come soggetto ». E questo toglieva vitalità a tutto il sistema e ne impediva un autonomo e vigoroso sviluppo. Insomma il corporativismo doveva servire la dittatura, non sostituirsi ad essa. Fu una dura battaglia, nell’intimo delle coscienze di molti giovani studiosi e di molti organizzatori i quali ritennero, con il corporativismo, di avere riacquistato l’indipendenza di pensiero e di parola se non di azione; sperarono di avere spezzato o di poter spezzare le maglie della dittatura e invece si accorsero, a un dato momento, che nelle intenzioni di Mussolini c’era ben altro. Egli aveva concesso quel pascolo attentamente controllato alle forze vive e alle intelligenze più acute della nazione perché vi si abbandonasse alquanto in vivaci polemiche e in innocui progetti, ma nulla doveva toccare la ferrea struttura politica del partito e  della polizia su cui il dittatore poggiava le basi della sua tirannide. Il romagnolo era un uomo del quattrocento e il corporativismo aveva preso il posto degli innocenti tornei poetici del tempo.
Sarebbe vano però negare la vastità e l'interesse degli studi corporativi e le illusioni che si produssero. Abbiamo dinanzi i tre grossi volumi degli Atti del secondo Convegno di studi sindacali e corporativi tenuto in Ferrara nella prima decade di maggio del 1932. Il numero degli studiosi che intervennero in quel convegno e imponente: le adesioni dall’estero notevoli. Notiamo il professore Andreades dell’Università di Atene; il prof. Maurice Ansiaux dell’Università di Bruxelles; il prof. Ohlin dell’Università di Stoccolma; E. Berthelemy della Sorbona, Cedi Pigou dell’Università di Cambridge, Virgilu Magdearu di Bucarest; Carlo Balas di Budapest; Beckamann Birger di Stoccolma; Beckerath von Erwin della Università di Colonia; Stefano Ereki della Università di Szeged (Ungheria), Jotopoulus Panajos dell'Università di Atene; W. Ouaìid dell'Università di Parigi; Francesco Ruska delFAccademia d'Ungheria; Werner Sombart dell’Università di Berlino (1).

Come si vede era grande l’interesse degli studiosi e degli uomini politici d’Europa verso il movimento corporativo. E a parte quella che era la prassi politica del fascismo, il Congresso di Ferrara dimostra, per le molte e pregevoli sue relazioni e il fervore delle discussioni, quale sia stato lo sviluppo del pensiero sindacale e corporativo in quegli anni (2). L’esperienza corporativa attirava i giovani desiderosi di veder realizzato un ordine nuovo che giustificasse l’avvenuta frattura tra il mondo politico di ieri e quello odierno. Se più tardi Mussolini tradì l'aspettativa, se il corporativismo non si rivelò null’altro che un aspetto della totale supremazia dello Stato
su tutte le energie vitali della nazione; null'altro che paternalismo e controllo poliziesco sui sindacati, i primi a soffrire furono i giovani che avevano creduto alle promesse della vigilia e ai risultati delle prime esperienze.

In quel torno di tempo il fascismo aveva assunto nella politica internazionale un atteggiamento tranquillo e pacifico, incline alla collaborazione. Si volevano bonificare le terre, compiere grandi opere pubbliche, edificare le città, mutare come si diceva, il volto della Patria, trasformare l'ordine sociale, essere un centro di universale attrazione. Le dittature trovano facile la via del successo e della fortuna nei primi anni perché cercano di rendersi popolari facendo tutto quanto non fu possibile per molti motivi fare precedentemente. Esse non hanno controlli, non soffrono di diversità di concezioni e di pareri, non tutelano le pubbliche finanze, non temono l’inflazione, non rendono conto alla pubblica opinione. Perciò agiscono e in ciò fare creano interessi nuovi che difenderanno strenuamente il nuovo ordine. Consumano le energie e le riserve esistenti, scelgono come vogliono tra l'antica classe dirigente; vivono insomma sul patrimonio morale, intellettuale, economico accumulato dalle generazioni. Poi, come esse sono sterili, e hanno sempre bisogno di maggiori opere, di più mirifiche imprese, necessariamente si guastano e corrompono e rapidamente decadono e fatalmente rompono in qualche assurda e disperata impresa che segna la loro fine. L’Italia tra il 1926 e il 1933 era nella fase favorevole delle dittature,
non in quella della decadenza e tanto meno della rovina. Pensare in quegli anni di rimuovere Mussolini dal potere sarebbe stato assurdo. Egli incontrava allora il favore internazionale. Conferma lo stesso Matthews a pag. 240 del suo volume I frutti del fascismo (Laterza, 1945) ; «Riguardando a quegli anni, i più tra noi debbono ammettere che parvero anni buoni . E a pag. 252, dopo avere riassunto i termini della «questione romana » portata a conclusione l’n febbraio 1929, con la firma dei Patti lateranensi : « Egli - Mussolini - volava in alto in quei giorni poiché il fascismo stava toccando il suo apice di adulazione e imitazione mondiale.
Il colmo della sua grandezza in Italia si ebbe nel 1932 con la celebrazione del decennale del regime fascista...
Fu difatti uno dei punti più alti della sua carriera. Egli stava per aprire a Roma la via dell’Impero così giustificando il suo orgoglioso vanto che « Roma apparirà una meraviglia ai popoli del mondo ». In un giro per le città d’Italia fu acclamato con schietto entusiasmo. Inaugurò l’acquedotto del Monferrato e la nuova autostrada Milano-Torino». E a pag. 254: «L’anno dopo, Hitler giunse al potere: in Ispagna si inizio il  biennio nero e in tutto "l’oscuro e tormentato mondo le anime malate e scoraggiate realmente pensa vano che la salvezza si trovasse nella strada che conduceva al fascismo » (1).
Matthews dice inoltre che il decennio successivo 1932- 1942 fu assai peggiore del primo (1922-1932). Nessuno ne è più convinto di noi che non abbiamo mai condiviso 1 entusiasmo dei paesi lontani per un Mussolini che essi non conoscevano, e di cui non potevano vedere l’istrionismo. È però bene, in un momento in cui si è perduta ogni serenità di giudizio e ogni memoria del passato, annotare ciò che questo americano antifascista, vissuto tra noi per molti anni prima della guerra e tornato nella Penisola nel 1943, con il corpo di occupazione degli alleati, scrive a conclusione del suo esame sul primo decennio fascista: «Il "duce” ebbe in quegli anni realmente un enorme consenso popolare; tributo che veniva pagato più a lui personalmente che non al regime, sebbene per quel che si ha modo di giudicare, la maggior parte della gente fosse anche indubbiamente favorevole al fascismo. Gli italiani sono un popolo pratico e realistico che doveva sostenere o avversare il fascismo in proporzione al suo successo o fallimento materiale... ». (2).
I due plebisciti del 1929 e del 1934 danno a Mussolini e al regime circa 10 milioni di voti contro poche decine di migliaia di schede negative. Il dittatore orgogliosamente osserva che «un plebiscito può confermare una rivoluzione al potere, non rovesciarla » ma intanto egli si serve di quei risultati favorevoli per rafforzare il suo
credito all'estero. Sono quelli gli anni del consenso popolare che accompagnava la forza e dell'ammirazione dei paesi esteri che rafforzava il prestigio formale del capo. Il settimanale Domenica pubblicò nell'autunno 1944 il riassunto di un libro britannico in cui si finge di fare il processo a Mussolini per portare alla sbarra il partito
conservatore per il lungo appoggio dato al fascismo. Si immagina lo svolgimento di un regolare processo a Mussolini in un giorno dell’anno 1944 1945 dinnanzi a un tribunale britannico. Dopo batto di accusa rivolto all’imputato vengono chiamati i testimoni a discarico. Il primo è l'ex ministro degli esteri d'Inghilterra sir Austin
Chamberlain. Questi venne a Roma a dare autorità al pericolante governo fascista proprio nel momento più acuto della crisi del fascismo, durante la citata discussione al Senato tra il sei e il dodici dicembre del 1924. In un’intervista sul giornale La Tribuna sir Austin Chamberlain disse : « Il sig. Mussolini è un uomo meraviglioso e un lavoratore formidabile. Non posso addentrarmi nella politica interna di paesi stranieri, ma devo dire che il sig. Mussolini lavora per la grandezza della sua Patria e regge sulle spalle un peso enorme ».
Quando sir Austin pronunciava queste parole, la crisi politica provocata dal delitto Matteotti non era ancora conclusa. L’assassinio del deputato socialista, che fu un orribile delitto di Stato, fu fatto apparire come un atto di violenza di una banda di delinquenti estremisti. Dopo sir Austin Chamberlain, neirimmaginario processo, compare al banco dei testimoni Lord Rothermere editore del  Daily Mail. Anch'egli visitò Mussolini dopo il delitto Matteotti e scrisse: « La calma forzata e la fiducia in sè di cui Mussolini dette prova allora, la sua incrollabile decisione di estirpare la mala pianta manifestatasi nell’organizzazione fascista che egli aveva creato, furono espressione inconfondibile della sua grande forza di carattere » (!?)• E non basta, non basta. Otto  mesi dopo il giudizio di Lord Rothermere è anche più apologetico. Leggete e stupite : « Egli, Mussolini, è la più grande figura della nostra epoca. Mussolini dominerà probabilmente la storia del secolo ventesimo come Napoleone dominò quella del primo Ottocento ». Nientemeno. Pare di sognare. Un simile abbaglio del Lord inglese, una simile apologia che dall’estero, da un grande paese come l’Inghilterra rimbalzava qui, dovevano avere ed ebbero fra noi una grande ripercussione: in alto non meno che in basso. E concorsero a creare il clima che spiega molti atteggiamenti: anche quello del Re.

(1)          Sombart prendeva la parola e diceva tra l'altro, a nome di tutti gli stranieri: «Quando ci domandiamo a qual punto siamo arrivati (mi permettano di spiegarmi come scienziato, non come politico ma come scienziato che ha il solo dovere di osservare i fatti e di constatare quello che c'è) possiamo dire che, se non sbaglio ci troviamo adesso In un'epoca di rivoluzione, in un'epoca che si chiama In tedesco Zeitwendeit, in un tempo ove tutte le grandi Idee sono in movimento, sono in cambiamento. E il senso di questo cambiamento, secondo me, è questo: slamo arrivati alla fine di un'epoca che si può chiamare l'epoca economica. Il secolo scorso è stato un secolo puramente economico... Io credo che slamo arrivati ad un punto in cui gli uomini non vogliono più sopportare la dominazione dell’economia... Questo è il movimento di tutti i paesi del mondo civilizzato. Anche in Russia, secondo me. si manifesta la stessa tendenza. Da noi, in Germania, abbiamo il nazionalsocialismo che ha la stessa tendenza, ma l’Italia è stato il primo paese che ha fatto il primo passo nella nuova strada: questo é il merito dell’Italia. Per questo l’Italia è adesso il paese dove gli sguardi di tutte le nazioni sono diretti. Una volta, sei o sette secoli fa, i popoli nordici venivano a Bologna per imparare il diritto romano: allora dicevasi: Bononia docet. Adesso gli stessi popoli vengono in Italia per imparare il diritto corporativo ».

(2)          Vedi anche Perticone: op. cit., pag. 301.

(3)       Non riportiamo per amore di brevità tutti gli altri riconoscimenti del Matthews. Uno solo vogliamo sottolinearne.  A pag. 255 egli scrive : « Le linee di navigazione italiane sono in realtà, le migliori del mondo ». Appunto per questo molto probabilmente non ci sarà più restituita la nostra marina mercantile.
(4)          Lo stesso Matthews ricorda i risultati delle elezioni o plebiscito del 25 marzo 1934: «10 milioni e 60 mila elettori votarono per il fascismo con una percentuale del 99,84 per cento sugli iscritti. Presso a poco gli stessi risultati si erano avuti nel 1929».

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