Di veti “ad personam” la democrazia in Italia
è già morta una volta, nel 1921-1922. Tanti “politici” non lo ricordano o non
l'hanno mai appreso. Perciò è bene ripassare quei fatti. Don Luigi Sturzo,
segretario del Partito popolare italiano (la Democrazia cristiana di allora,
adesso cara a Grillo Beppe), mise il “veto” a Giolitti quale presidente di un
governo formato da liberali, cattolici e socialisti. Anche per colpa sua, al
posto dell'ottantenne Statista liberale, l'unico in grado di fermare la deriva
verso l'abisso, al potere salì il trentanovenne Mussolini (ex
socialmassimalista e di molto altro), col benestare del democristiano Alcide De
Gasperi, che spianò la via al suo governo. Vi è motivo di ricordarlo nella
Domenica “in albis”, festa di transizione. Deposta la veste infangata, oggi si
indossa quella candida, battesimale. È giorno di lavacri e purificazione. Ne ha
bisogno l'Italia odierna, uscita da cinque anni melmosi. La XVII^ legislatura
ha lasciato un’eredità pesante. Chi si illude che le votazioni abbiano
spalancato chissà quale radioso futuro non ha coscienza della realtà
incombente, né, meno ancora, di capisaldi della Costituzione che non ammettono
né aggiramenti né scorciatoie.
Il Presidente Sergio Mattarella ha ammonito
di essere interprete dei cittadini. E' il nocchiero di un'Italia in gran
tempesta. Al netto di astenuti, schede bianche e nulle, i Cinque Stelle di Di
Maio (dal sorriso tra teso e sardonico, come accade a chi è agli sgoccioli)
hanno ottenuto il 32% dei voti validi. Meno di un terzo. Non bastano né mai
basteranno a sorreggere un governo. Quando nel 1992 calò su quella soglia, la
fatiscente Democrazia cristiana gettò la spugna. Le mancava il 68% degli
italiani. Esattamente quanti non ne hanno oggi i grillini per pretendere il
controllo delle Camere, delle Commissioni, il governo e… la Luna. Essi possono
strepitare quanto vogliono, ma da soli non hanno alcuna maggioranza. Perciò si
“offrono” a destra e anche a manca, all'insegna del “Franza o Spagna pur che se
magna”: afferrare il potere, spendere e spandere e fare i Frati Cipolla
sperando di non finire come Masaniello. Sanno che né per loro né per altri
“illusionisti” vi sarà un nuovo 4 marzo 2018. Quando si tornasse alle urne (tra
sei mesi, un anno o più) gli elettori staranno molto peggio di oggi e avranno
smesso di credere ai miracoli della Casaleggio Associati, alla Piattaforma
Rousseau e alle altre fanfaluche strombazzate durante la peggior campagna
elettorale dell'Italia repubblicana. Alla prova dei fatti si vedrà anche se e
quanto reggeranno certi gruppi comprendenti anticaglie di partiti dalla storia
un tempo gloriosa, ma ridotti a raccattare un seggio purchessia.
La pausa di riflessione dettata dal
Presidente Mattarella è propizia per ricordare alcuni capisaldi del regime
vigente (il migliore possibile, sic stantibus rebus, come convenimmo più
volte in dialogo con Marco Pannella). In primo luogo “il Presidente della
Repubblica nomina il presidente del Consiglio” (art. 92 comma 2 Cost.). La
Carta non dice come e perché giunga o debba giungere alla decisione. È suo
riservato dominio. La prassi è mutevole, la pienezza del potere è altra.
Ricalca esattamente lo Statuto Albertino, che riservava al Re la nomina dei
ministri, come fece Vittorio Emanuele III il 30 ottobre 1922 e il 25 luglio
1943, sentite le parti in gioco e assunte le sue responsabilità dinnanzi alla
storia, perché quello è il compito del Capo dello Stato: “Un brut fardèl”, come
disse il morente Vittorio Emanuele II al figlio Umberto (assassinato a Monza il
29 luglio 1900, a conferma di quanto sia sempre stato difficile governare
l'Italia).
Mentre infuria il fatuo strepito
sull'abolizione dei “vitalizi” spettanti ai parlamentari va ricordato ai
neofiti della politica che il riconoscimento economico della rappresentanza
politica fu introdotta nel 1912-1913 in coincidenza con il suffragio
universale, proprio per consentire ai non abbienti di svolgere decorosamente la
funzione politica, altrimenti riservata a una casta. Abusi, sperperi e ruberie
vanno certo aboliti, ma salvaguardando
le prerogative dei parlamentari, inclusa la remunerazione, uno dei perni della
loro indipendenza (è abnorme, semmai, che gli “eletti” debbano versare una
mensilità al “datore dell'elezione”, del quale si riconoscono succubi). Del
tutto improprio è misurare l'efficacia dell'esercizio della carica con la
presenza in aula, come qualcuno improvvidamente ha proposto. Anziché sedere
accalcati e sudaticci negli scomodissimi scranni di Palazzo Madama e di
Montecitorio, deputati e senatori hanno molti validi modi e tante altre sedi
per professare la missione loro assegnata con l'elezione: visitando il Paese,
ascoltandone i cittadini, studiando.... Basta si rileggano le opere di
misericordia spirituale e corporale, che precedono la Carta del 1948. Meno
sedute, ma più concludenti. Meno “riforme”, meno “leggi” (anzi, vanno sfoltite)
e più concentrazione sugli impegni vitali del Paese: Esteri (Alfano è ancora
sempre lì...), Difesa (evitando pessime figure e soprattutto il ridicolo
mandando missioni militari a caso in giro per il mondo), Istruzione (quando
avremo un ministro adeguato alla carica un tempo ricoperta da Benedetto Croce e
da Giovanni Gentile?).
L'ordinamento costituzionale oggi subisce una
grave aggressione, che va denunciata e respinta con chiarezza. L'art. 67 della
Carta recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione (maiuscolo) ed
esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Così era nato il Parlamento
del regno di Sardegna nel 1848 (unica Monarchia rappresentativa in Italia, con
buona pace di neoborbonici e altri nostalgici degli staterelli preunitari,
incluso quello del papa-re) e così esso visse sino al 1939, quando la Camera
elettiva fu sostituita con quella dei Fasci e delle Corporazioni, formata
esclusivamente di tesserati del PNF, a differenza di quelle elette nel 1929 e
1934, che salvavano l'apparenza con la rappresentanza di istituti e sodalizi
non formalmente “fascisti”, dalla Lega Navale al Touring Club Italiano...
La libertà dal “vincolo di mandato” è il sale
della vita politica. Esso non trovò spazio nei partiti totalitari, usi a
screditare i dissenzienti come traditori, radiati ed esposti al pubblico
ludibrio. Fu la sorte riservata dal Partito comunista d'Italia, succubo di
Stalin a Mosca, a chi non si allineava alle cangianti direttive del “Capo”(i
più sfortunati vennero ammazzati o destinati a morire di fatica e di stenti nei
gulag). Oggi la libertà dal vincolo di mandato è negata dal Movimento Cinque
Stelle, i cui vertici pretendono di assegnare patenti di moralità politica non
solo al proprio interno ma addirittura all'Italia intera. Questa arroganza va
respinta con fermezza. Fa tutt'uno con quella della dottoressa Rosy Bindi, che
vorrebbe subordinare la “presentabilità” alle urne a criteri privi di basi
giuridiche (per esempio l'appartenenza o meno ad associazioni non proibite,
quali le Comunità massoniche) e a suoi pregiudizi personali.
La bizzarra pretesa di vincolare al
“Capopartito” anziché alla Nazione l'esercizio della funzione parlamentare
paradossalmente viene avanzata anche nelle file di partitelli nati da
scissioni. Anche sotto questo profilo la XVII^ legislatura lascia un'eredità avvilente. Essa si chiuse
con la nascita di un cartello (i Liberi e Uguali) capitanato dai presidenti
delle due Camere: un precedente destinato a pesare sulle istituzioni. La loro
sortita è così screditante che si preferisce esorcizzarla, nel silenzio dei
costituzionalisti. Però c'è, rimarrà e peserà.
Come dunque si vestiranno certi partiti dopo
questa domenica in albis? L'ipotesi di un governo di legislatura è la meno
augurabile, perché comporterebbe altri cinque anni di litigiosissima campagna
elettorale e di esaurimento delle magre risorse del paese. Usciamo da un lustro
di lotte fratricide. Il Paese chiede aria di primavera. All'indomani del voto
Dario Franceschini auspicò che la XVIII legislatura assuma un ruolo
“costituente”. E' pensiero condivisibile. Il primo passo per risalire la china
è però il varo di una legge elettorale
che concili rappresentanza e stabilità: non lo era l'“Italicum” vagheggiato da
Matteo Renzi (arrogante come tutti i dilettanti, al pari della proterva Maria
Elena Boschi) né lo è il non rimpianto
“Rosatellum”. Da lì bisogna partire. Non perché ce lo chieda l'Europa. Lo
sollecita la memoria della storia d'Italia. Lo sfascio della democrazia
liberale non nacque col governo Mussolini, coalizione di tutti i partiti
statutari, ma, come detto sopra, per l'opposizione di Luigi Sturzo (“prete
intrigante”) a un governo liberal-socialista capitanato dall'ottantenne
Giolitti e col sostegno dei cattolici, chiamati al governo sin dal lontano
1917, quando Filippo Meda assunse le Finanze. La democrazia rappresentativa
andò a rotoli per via di quel “veto”. Oggi siamo daccapo lì. Tocca al
presidente Mattarella ricordare ai parlamentari i loro diritti e i loro doveri.
Doni loro una copia della Costituzione e accerti che l'abbiano appresa e che la
rispettino. Altro poi potrà venire, nei secoli; per ora è quanto di meglio si
possa avere. La patente di guida richiede esami più severi di quelli
dell'elezione a parlamentare. Oltre all'eccellente Consigliere per
l'Informazione, forse al Presidente occorre un Consigliere per la Formazione
dei neofiti della rappresentanza democratica: un “mestiere”, questo, molto più
impegnativo delle normali “professioni”, come agli Ateniesi ripeteva Socrate. I
quali, infastiditi dai suoi moniti, lo condannarono ad avvelenarsi bevendo la
cicuta. L'Italia odierna offre alternative migliori?
Aldo A. Mola
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