di Aldo A. Mola
“Un
brut fardèl”, un brutto peso. Quasi intraducibile è un sospiro angoscioso,
sentimento che arriva dal profondo: il Potere Supremo gravante sulle spalle del
Capo dello Stato, in perpetua Via Crucis. Fu quanto disse della Corona il
morente Vittorio Emanuele II al principe ereditario, Umberto di Piemonte,
quando improvvisamente ammalò e spirò, appena cinquantottenne, il 9 gennaio
1878. In dieci anni il padre della Patria aveva unito l'Italia. Umberto I fu
assassinato a Monza 22 anni dopo, il 29 luglio di 1900. Aveva 56 anni. La
storia dei re d'Italia è sequenza di sangue e di esili.
Il
Potere Supremo è un peso sacrale. Investe la sorte di milioni di uomini. E'
facile esercitarlo da vassalli o “a noleggio”, vincolati da patti che impongono
di subire, volenti o nolenti, decisioni altrui. Molto più greve è quando si è
abbastanza indipendenti(come può essere l'Italia odierna) da sentire la
responsabilità delle scelte supreme: mettere in gioco vite e fortune di
generazioni di cittadini. Il “brut fardèl” oggi è sulle spalle del Capo dello
Stato, Sergio Mattarella. Chiunque abbia un grammo dell'antico “senso dello
Stato”, che ci arriva da Risorgimento e unità nazionale, guarda con profondo
rispetto alla sua saggezza, nella certezza che opererà per il bene dell'Italia.
E' Statista che conosce di persona le sofferenze del Paese.
Mentre
per appetiti altrui il Mediterraneo rischia di divenire teatro di una guerra
dagli esiti devastanti, bisogna riflettere sulla storia d'Italia, molto diversa
da quella narrata nei manuali e da tanti “media” e da social che si pascono di
cronache. L'Italia è uno Stato giovane. Mancano ancora due anni dal 150°
dell'annessione di Roma, unita al regno d'Italia il 20 settembre 1870. A quel
tempo Parigi era centro della Francia da molti secoli. A metà del Cinquecento
la Spagna “inventò” Madrid per mettere in
seconda fila le capitali degli stati precedenti la “riconquista” coronata da
Ferdinando il Cattolico e da Isabella di Castiglia. Londra era tutt'uno con
l'Inghilterra prima e dopo la guerra delle Due Rose e del sanguinoso conflitto tra Tudor e Stuart. L'Italia arrivò
tardi e in affanno all'unità. Le mancò un “partito dello Stato”. La massoneria
cercò di assumersene l'onere. Lo fece con
Giuseppe Garibaldi, che indossò la divisa di generale dell'Armata di
Vittorio Emanuele II, e con il gran maestro Adriano Lemmi. Altri confratelli
rimasero accampati sulla riva di rivoluzione, repubblica, socialismo,
anarchia... Altri italioti dall'altra sponda del Tevere pregavano che il
neonato Stato d'Italia crollasse in frantumi. Questo, in sintesi, il primo
mezzo secolo della Nuova Italia: un Paese troppo a lungo diviso ed
eterodiretto, assuefatto al fratricidio servile da secoli di dominazione
straniera.
Dopo
il 4 marzo 2018 ad alcuni “partiti” non è bastata una quarantena per proporre
al Capo dello Stato la soluzione parlamentare di una crisi che si trascina da
anni, da quando una infausta legge voluta da fazioni vendicative fece decadere
dal Parlamento Silvio Berlusconi: un colpo di Stato dopo quello dell'11
novembre 2011.
Comprendiamo
i travagli di Mattarella. Ci ricordano un passato che non passa. A fine ottobre
del 1922 Vittorio Emanuele III dovette dare un governo al paese dopo il
fallimento di sei ministeri in due anni e due elezioni politiche con la
“maledetta proporzionale”, che anche oggi mostra i suoi frutti velenosi. Da
Bruxelles, ove era in visita di stato, a metà mese chiese al presidente del
Consiglio, Facta, di convocare il Parlamento per arginare il peggio. Con la
miopia di modesto politicante, Facta trattava con tutti per succedere a se
stesso. Tra il 28 e il 30 ottobre, dopo consultazioni frenetiche condotte in
prima persona, sentite tutte le forze disponibili, il Re incaricò Benito
Mussolini che formò una coalizione di unità costituzionale, baluardo contro gli
“anti-sistema”. Certo, il presidente del consiglio era un ex
socialmassimalista, fondatore dei fasci interventisti, dei fasci combattenti,
ecc., però era ormai sotto controllo dei nazionalisti, teste pensanti del
Ventennio mussoliniano, con molti democratici e socialriformisti, quali Giuseppe
Belluzzo e Alberto Beneduce. Ad approvare il nuovo governo furono comunque i
due rami del Parlamento, a larghissima maggioranza.
Anche
il 25 luglio 1943 fu Vittorio Emanuele III a prendere in mano le redini dello
Stato, a imporre le dimissioni a Mussolini e a voltare pagina. Sconfitta in una
guerra che avrebbe potuto reggere solo per poche settimane o al massimo qualche
mese, dopo tre anni l'Italia doveva uscirne cadendo sul fianco meno doloroso:
con la resa agli anglo-americani e il riconoscimento della continuità dello
Stato, cioè degli interessi generali permanenti dei suoi abitanti. Fu quanto
ottenne il Re.
Il
“brut fardel” è meno pesante quando la cornice planetaria è chiara. Per
l'Italia lo fu dall'adesione alla Nato, voluta dal massone Randolfo Pacciardi,
ministro della Difesa, che forzò la mano nel consiglio dei ministri e si impose
al democristiano Alcide De Gasperi, condizionato dal titubante Pio XII,
sospettoso nei confronti degli USA del fratello Washington. Il “fardel” è
ancora più greve quando i confini sono labili. E' quanto accade oggi. Da che
parte deve schierarsi l'Italia? E' un Paese condannato dalla geografia a stare
nella storia: da dominatrice o da “dolore ostello,/non Donna di provincia ma
bordello”, come scrisse Dante Alighieri. Di sicuro non si scatena una terza
guerra mondiale per cinquanta vittime, qualunque sia la loro causa di morte, in
un conflitto che dura da sette anni e che è stato causato dalla avventatezza di
Francia, Gran Bretagna e degli USA di Obama. Le sorti attuali e venture
dell'umanità hanno diritto a rispetto superiore a quello mostrato nell'estate
1914, quando l'Europa venne trascinata
in una guerra catastrofica per l'Alsazia-Lorena. Per secoli la Francia
ha chiesto molto all'Europa, però l'Esagono rimane circoscritto tra Pirenei, Reno e Alpi.
I
fatti odierni inducono a riflettere su chi nel tempo ha portato sulle spalle il
“brut fardèl” del Potere Supremo. E' il caso di Vittorio Emanuele III, la cui
salma dal 17 dicembre 2017 riposa nel Santuario-Basilica di Vicoforte, ove il
suo feretro venne traslato da
Alessandria d'Egitto. Vi raggiunse le spoglie della Regina Elena, sino a due
giorni prima tumulate a Montpellier. La traslazione fu propiziata proprio dal
Presidente Mattarella, sensibile all'appello di ricomporre la storia d'Italia,
lunga e travagliata.
Quanto
abbiamo sotto gli occhi dice che non è più tempo di polemiche. Messe da parte
la Roma di Cola di Rienzo e la Napoli di Masaniello, l'Italia ha urgenza di
avere un governo, con un ministro degli Esteri all'altezza del compito. E'
tempo di passare dalla rissa alla Storia. Sulle tombe dei Re a Vicoforte brilla
la Stella d'Italia. E' quella di Carlo Alberto, è la stella delle Forze Armate.
Venne riproposta in un convegno a Firenze nel 1985 organizzato dal ministro
della Difesa Lelio Lagorio, socialista e figlio di carabiniere. Per insegna
ebbe una formula, antica come tutte le profezie: “Forza Italia”. Fu aperto dal
sindaco, Lando Conti, massone, poi assassinato da estremisti di sinistra e tra
i relatori ebbe Paolino Ungari.
Rendere
omaggio al Mausoleo dei Savoia a Vicoforte, come il 17 aprile farà la
Principessa Maria Gabriella di Savoia su invito dei Rotary del Cuneese,
significa evocare l'unità nazionale nel Centenario di Vittorio Veneto: una data
che dà senso all'articolo 52 della Costituzione: “La difesa della patria è
sacro dovere del cittadino”.
Aldo A. Mola
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