di
Waldimaro Fiorentino
I vertici
internazionale della FAO che periodicamente si tengono in tutto il mondo e
l’attenzione che suscita il tema della fame che affligge gran parte
dell’umanità e, pertanto, anche l’esigenza di un mondo più solidale e più
giusto sono sempre d’attualità.
Quello che
pochi sanno è che l’attenzione su questi temi, in maniera meno cruenta e
spettacolare, ma assai più concreta venne richiamata proprio dall’Italia, che
fu, dunque, il primo Paese al inondo a lanciare la crociata contro la fame già
oltre un secolo fa, quando il mondo si cullava ancora nella beata incoscienza
degli ultimi scampoli della «belle époque».
L’idea
della costituzione di un simile organismo era venuta per primo a David Lubin,
un americano nato in Polonia da famiglia israelita, che dalla sua esperienza di
uomo d’affari aveva tratto la convinzione della necessità di mantenere
nell’ambito della moderna economica capitalistica un certo equilibrio tra
settore industriale e agricoltura. Dopo aver inutilmente cercato di convincere
il governo americano a farsi promotore di una iniziativa di questo tipo, venne
in Italia e si rivolse a Vittorio Emanuele III, che ricevette lo studioso a San
Rossore, dove il Sovrano si era recato per passare qualche giorno con la Regina
Elena, reduce dalla maternità per la nascita del futuro Umberto II.
Un primo
esempio di collaborazione e di simpatia tra Vittorio Emanuele III e gli ebrei.
Il signor Davide Lubin espone a S. M. il Re d'Italia, nella villa di San Rossore, il progetto per
l’Istituto Agrario internazionale.(Disegno di G. Amato).
Illustrazione Italiana 19 Febbraio 1905
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Lubin ebbe
fortuna, perché il Re comprese subito l’importanza del progetto e dette
incarico allora presidente del Consiglio Giolitti di preparare una conferenza
internazionale. Nel messaggio indirizzato al suo primo ministro per incaricarlo
della istituzione di quell’organismo, Vittorio Emanuele III si espresse
così: «Le classi agricole, benché siano le più numerose, vivendo
disgregate e disperse, non possono da sole provvedere abbastanza né a
migliorare, né a distribuire secondo le ragioni del consumo le varie colture,
né a tutelare i propri interessi sul mercato, che, per i maggiori prodotti del
suolo, facendosi mondiale. Di notevole giovamento potrebbe quindi riuscire un
istituto internazionale ... cosicché ne fosse agevolata la produzione, reso
meno costoso e più spedito il commercio e si conseguisse una più conveniente
determinazione dei prezzi. Questo Istituto, procedendo d’intesa con i vari
uffici nazionali, fornirebbe anche notizie precise sulle condizioni della mano
d’opera agricola nei vari luoghi, in modo che gli emigranti ne avessero una
guida utile e sicura; promuoverebbe accordi contro quelle malattie delle piante
e del bestiame, per le quali riesce difficile la difesa parziale; eserciterebbe
finalmente un’azione opportuna sullo svolgimento della cooperazione rurale,
delle assicurazioni e del credito agrario… un Istituto siffatto, organo di
solidarietà fra tutti gli agricoltori e perciò elemento poderoso di pace…».
L’iniziativa
riscosse subito consensi generali. Uno dei più autorevoli quotidiani
dell’epoca, «La Tribuna», nel numero di sabato 11 febbraio 1905
dedicò all’annuncio dell’evento un intero paginone e nell’articolo di prima
pagina sottolineava lo spirito della istituzione: «Che il pane
quotidiano a tutti i cittadini del mondo al minor prezzo ed in misura
sufficiente, e che agli agricoltori di tutto il mondo sia retribuita la miglior
mercede e sia aperto il mercato più vasto possibile è concetto tanto più
geniale quanto più semplice». E «La Tribuna illustrata» dedicò
la copertina del numero del 26 febbraio dello stesso anno all’incontro tra
Vittorio Emanuele III e David Lubin ritratti nell’atto di stringersi la mano.
Consensi
vennero pure dall’estero; il britannico «Daily Telegraph» scrisse: «…
la proposta del Re d’Italia è degna di essere appoggiata, perché quantunque ci
possano essere dubbi sulla quantità del bene che può fare, è fuori dubbio che
non può fare che del bene».
Anche «L’Alto
Adige», che allora si stampava a Trento, dedicò più titoli in prima pagina
alla «Iniziativa pacifica del Re», che, considerata la fede degli
estensori, evidentemente, non aveva bisogno di specificazioni; il foglio
trentino, riprendendo una notizia pubblicata dal britannico «Evening
Standard», fece sapere che era stato Guglielmo Marconi a consigliare Davide
Lubin di rivolgersi a «Vittorio Emanuele, sovrano moderno ed
illuminato»; e, nel numero di lunedì 13 e martedì 14 febbraio 1905, riportò
il seguente telegramma inviato da Francesco Giuseppe a Vittorio Emanuele
III: «Non voglio tardare a felicitare Vostra Maestà dell’iniziativa
presa per la creazione di una istituzione internazionale d’agricoltura che io
non dubito troverà in tutti i paesi una eco di simpatia»; telegramma cui il
sovrano italiano rispondeva con un altro di analogo tenore; e sempre «L’Alto
Adige», nei giorni successivi, riportava un’altra serie di telegrammi di
felicitazione e di consenso inviati al Quirinale da capi di Stato di tutto il
mondo.
Addirittura
traboccante d’orgoglio finanche superiore a quello espresso dalla stampa
italiana il commento de «Il Piccolo» di Trieste, città che
all’epoca faceva parte dell’impero austro-ungarico: «Il pensiero nato a
Roma ha l’impronta della città universale… Nel giovane Principe promettevano i
conoscitori un uomo di vasto intelletto e di libero giudizio, capace di dar
fiamma alla scintilla di una verità che gli venisse rivelata; i primordi del Re
d’Italia non li smentirono: oggi con la sua proposta mondiale a favore
dell’agricoltura è venuta la fiamma…La splendida pagina dell’intelligenza
moderna che il Re d’Italia ha avuto l’onore di segnare con il suo nome… è
affermatrice e tutrice di pace e di fratellanza, enunciando la necessità di
sommare e non di dividere gli interessi delle nazioni, perché da questi
traggano il massimo vantaggio comune; è parola di redenzione e mano tesa
generosamente alla povertà di mezzi e allo spirito delle classi agricole,
perché si sollevi dal suo umile stato ed in pari tempo intervento dell’alto
potere per reprimere quell’affarismo senza scrupoli che determina lo spietato
rincaro dei generi di consumo onde soffre, non una nazione o l’altra, ma tutta
l’umanità».
Dunque,
uno spirito che dava risposta con un secolo di anticipo alle istanze del
cosiddetto «popolo di Seattle»; naturalmente a quello che cerca
risposte e non pretesti per scatenare guerriglie.
Ma perché
Davide Lubin scelse l’Italia per la realizzazione del suo progetto? Lo spiegò
egli stesso in una intervista pubblicata in quei giorni: «Innanzitutto
perché il Re d’Italia, malgrado l’età giovanile, ha una mente colta ed esperta
in tutte le questioni che interessano il bene dei popoli, onde era più agevole
ottenerne un illuminato consenso. Poi, perché l’Italia è una nazione di media
importanza nell’agricoltura internazionale, onde non potrà destare le gelosie
delle altre nazioni lanciando l’appello, ciò che invece avverrebbe se questo
facesse l’America, che monopolizza i raccolti del cotone, del mais, ecc., o la
Russia, che esercita un gran peso nel commercio dei grani, o l’Inghilterra e la
Francia che hanno molti e forti mercati di incetta delle derrate alimentari.
Infine, perché l’Italia con le bellezze del suo suolo e con le classiche glorie
della sua, storia, forma un’attrattiva per gli stranieri di qualsiasi
nazionalità, e provoca l’affetto e la simpatia, di tutte le nazioni».
Fatto sta
che il 7 giugno 1905, in una solenne adunanza, i rappresentanti di numerosi
Stati aderirono all’iniziativa italiana, sottoscrivendo l’atto costitutivo
dell’Istituto, che prese sede a Roma, nell’edificio fatto costruire
appositamente dal sovrano italiano a Villa Umberto e concesso in uso gratuito
all’organizzazione.
L’Ente
traeva i suoi finanziamenti in massima parte dai contributi degli Stati
aderenti, che andavano da un minimo di 12.500 lire ad un massimo di 200.000
lire (di allora) e dalla somma annua di 300.000 lire messa personalmente a
disposizione da Vittorio Emanuele III, il quale, dunque, oltre ad aver donato la
palazzina che doveva servire da sede all’Istituto, versava annualmente nelle
casse dello stesso una somma di gran lunga superiore al contributo di qualsiasi
Stato.
L’istituzione
voluta dal sovrano italiano conquistò anche il mondo cattolico di casa nostra,
che pure era in contrasto con il Regno d’Italia dopo la «breccia di Porta Pia»;
l’assemblea del Partito Popolare (come allora si chiamava il Partito
cattolico), a conclusione del Congresso nazionale tenutosi a Torino nell’aprile
1923, votò all’unanimità un lungo e denso ordine del giorno nel quale, tra
l’altro, si affermava testualmente: «…è opportuno mettere in risalto
l’attività dell’Istituto internazionale di Agricoltura, realizzato con intuito
previdente da S. M. il Re Vittorio Emanuele III, come aspirazione a quella
unità di produzione e di scambi che sia indispensabile ad assicurare
l’equilibrio pacifico nella soddisfazione dei bisogni dei vari popoli».
Poi, venne
la seconda guerra mondiale, che interruppe la cooperazione internazionale che
su questo tema era stata sino ad allora fervida e non aveva subito appannamenti
neppure durante le crisi internazionali più acute.
L’iniziativa
di resuscitare lo spirito dell’Istituto internazionale di agricoltura venne
ripresa dagli Stati Uniti che, nel maggio 1943, convocarono a Hot‑Springs,
in Virginia, una conferenza di Stati alleati e neutrali, per la costituzione di
un organismo permanente per l’alimentazione e l’agricoltura, che venne fondato
ufficialmente, appunto con l’attuale denominazione di Fao, il 16 ottobre 1945 a
Quebec, dove si tenne la prima delle sue conferenze biennali. In seguito
all’accordo intervenuto nel 1951 con il governo italiano, la Fao fissò
definitamente la sua sede centrale in Roma, succedendo, quindi, in tutto e per
tutto al precedente Istituto internazionale.
A oltre un
secolo della sua nascita, il mondo intero ha perso la memoria delle origini di
questa istituzione; e, purtroppo, anche noi abbiamo dimenticato che fu proprio
il nostro Paese, per primo, a prendere coscienza del problema della fame nel
mondo; e non sappiamo più neppure cosa sia stato quell’Istituto internazionale
d’Agricoltura, progenitore dell’attuale Fao e, che, nei 35 anni di vita sino
allo scoppio della seconda guerra mondiale, aveva svolto una mole imponente di
lavoro; ma, soprattutto, aveva gettato solide basi per la cooperazione
internazionale; un tema che, purtroppo, è tuttora di drammatica attualità. Di
questo nostro primato, ci siamo dimenticati persino noi italiani.
Fortunatamente, non se ne sono dimenticati all’estero e non è accaduto neppure
dopo la nostra sconfitta nel secondo conflitto mondiale; pur nella delicatezza
della posizione del nostro Paese, non si volle trascurare il fatto che proprio
l’Italia era stato il primo Paese al inondo a lanciare e ad organizzare la
crociata contro la fame già nel 1905.
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