Già a Milano nei giorni procellosi della crisi, un gruppo di parlamentari
lombardi (vedi Corriere della Sera del 31 ottobre ’22) aveva espresso l’avviso
che non conveniva insistere sulla combinazione Salandra «superata dallo
sviluppo degli avvenimenti» (1). E abbiamo accennato al pensiero spavaldo di
Mussolini: non valere la pena di fare una rivoluzione per alcuni portafogli: «Non
accetto», disse a Salandra come aveva detto a Giolitti. È il giuoco sottile,
doppio, triplice del romagnolo. Egli lo ripeterà in tutte le occasioni; nel
1924; nel 1940; nel 1943. Anche in punto di morte cercherà di ingannare i
partigiani dicendo di odiare i tedeschi e il giorno prima ne aveva vestito la
divisa per fuggire. Tra il 1922 e il 1923 affermava: «Non voglio abolire il
Parlamento; voglio anzi migliorarlo». Ma agli ufficiali della Milizia a
proposito delle elezioni: «Non vi scaldate troppo per questi ludi, tutto ciò è
vecchio in Italia, è ancora ancien regime» (2). La Monarchia, si dice, avrebbe
dovuto usare la forza: senza dubbio, ma bisognava avere un Parlamento
efficiente, un Governo capace. «Non importa», si ripete, «l'Esercito avrebbe
obbedito ».
Crediamo anche noi che in definitiva l’Esercito avrebbe obbedito, ma si
poteva pensare anche il contrario, si poteva fondatamente temere che vi
sarebbero stati incidenti incresciosi, qua e là episodi di fraternizzazione con
i ribelli, comunque molto spargimento di sangue. Il Re voleva evitare la guerra
civile; ma i partiti di sinistra speravano nell'urto tra l’esercito e lo
squadrismo fascista. Quei partiti che non vogliono neppure vedere l’immagine
del Re, reclamavano per l'occasione un Re forte, un Re capace di salire a
cavallo e di porsi alla testa di quell’Esercito che essi avevano denigrato per
trent’anni. Certo, sarebbe stato utile, alla Monarchia oltre che alla Patria,
ma era facile, era possibile agire contro dei giovani entusiasti che gridavano
viva l’Italia, viva l’Esercito e che volevano solo — a loro dire la grandezza della Patria? Era facile era
possibile andare contro l’opinione pubblica quasi unanime? Oggi si vuole accreditare
la leggenda di un grave dissidio tra il Re e il Duca d Aosta. Questi - si afferma - (3) aveva posto il suo quartiere
generale a Perugia nello stesso albergo dove agiva il Quadrumvirato. I due parlamentari De Vecchi e Federzoni avrebbero
prospettato al Sovrano le intenzioni dei fascisti arrabbiati di levare sugli scudi l’antico condottiero
della III Armata proclamandolo Re.
Questa considerazione avrebbe indotto il Sovrano a revocare lo stato d’assedio.
Anche Emilio Lussu nella sua Marcia su Roma e dintorni dà questa versione degli avvenimenti.
I primi atti di Mussolini ministro, la
partecipazione al Governo di Diaz e Thaon di Revel, lo scioglimento delle squadre, il monito agli ufficiali di non partecipare a dimostrazioni (4)
e di astenersi dalla lotta dei partiti; il senso (illusorio) di fiducia e di vigore impresso a tutta l’attività
nazionale e alla stessa burocrazia centrale, tutto dette al paese l'impressione che il Re avesse opportunamente seguito ora come
nel 1915, il movimento generale della opinione pubblica. Dall’Italia e
dall'estero per molti anni salì verso il Sovrano per quell’atto tempestivo e coraggioso
un vasto coro di elogi. Non vi è bisogno di dire che la storiella che dava il
duca d’Aosta insediato nello stesso albergo della insurrezione perugina è una
grossolana invenzione. È possibile che queste cose siano state dette
nell’esilio e nei campi di confino e passando di bocca in bocca per tanti anni,
abbiano acquistato aspetto di veridicità, ma è inaudito che siano oggi
divulgate e stampate quando sono ancor vivi i giovani di allora che acclamarono
al Re, a Mussolini e alla Patria (nel loro ingenuo sentimento essi costituivano
una idea sola) in quei giorni turbinosi nei quali non si sperava che di fare più
grande l’Italia. Ognuno può ricercare le voci e il sentimento dell’ora nei giornali
del tempo, quasi tutti favorevoli al fascismo e tutti plaudenti al Re per aver
evitato il conflitto fra l’esercito e le squadre fasciste (5).
Cosa poteva fare il Re per adeguare lo spirito pubblico alla situazione
parlamentare?
Il ricorso alle urne era stato tentato da
Giolitti nell’aprile del 1921 dopo solo 18 mesi dalle elezioni della alunno del
1919 e il risultato era stato nullo ai fini di una maggiore stabilità del
Governo. Non rimaneva che tentare l’ultima esperienza : dare ragione allo
spirito pubblico e affidare al fascismo, che già aveva costituito uno Stato
nello Stato, i mezzi legali del Governo.
Ecco infatti i gruppi parlamentari
sostenere il nuovo Ministero: che sembrava un comune Ministero di coalizione
con l’adesione dei democratici sociali, dei popolari, dei giolittiani, dei
nittiani, questi ultimi in maniera più riservata. I socialisti unitari si
mostrarono titubanti e smarriti. Ma i massimalisti li investirono: tradirebbero
il proletariato se. chiamati, rifiutassero di collaborare. Si parlò molto di
una esortazione a Baldesi per partecipare al Governo in rappresentanza della Confederazione
del lavoro. Baldesi dichiarò subito che invitato, avrebbe accettato, ma
l'invito non venne (6). De Nicola rimase il presidente della Camera. L’on.
Barzilai presidente dell’Associazione della Stampa telegrafava, sia pure per
domandare il rispetto della libertà di stampa (alcuni giornali come II Corriere
della Sera avevano subito delle violenze): Voi che raggiungeste la vittoria con
audacia di pensiero sorretta dalla pubblica opinione...» E Mussolini si affrettava
a garantire la libertà di stampa... come poi si è veduto. Nelle quarantotto ore
tutto rientrava nell'ordine: ognuno rimaneva al suo posto, il paese si illudeva
di respirare: il lungo conflitto aveva termine: i due Stati, quello legale e
quello fascista, divenivano un solo Stato.
Il Re si era bene apposto perché tutto ciò era stato raggiunto senza
spargimento di sangue. Le Camere si sarebbero riunite subito. Il 4 novembre
tutto il Governo andava a inginocchiarsi dinanzi all'Altare della Patria: dove era più la rivoluzione che da quattro anni minacciava l'Italia? Il
socialcomunismo doveva meditare per lungo tempo sulla tremenda lezione dei fatti. Il fascismo aveva assunto la
difesa dell'ordine. Tutto sarebbe andato bene, tutto parve anzi che andasse
ottimamente. Il discorso di Mussolini all'apertura del Parlamento fu troppo duro? Ma i deputati e poi i senatori votarono in grande maggioranza per
lui e gli dettero un anno di pieni poteri. Il vanaglorioso accenno ai «bivacchi»
spiacque certo a tutte le persone serie e ragionevoli, ma molti l'attribuirono alla cattiva letteratura dannunziana che dai giorni di Fiume in
poi avvelenava il paese. E il guaio si fosse fermato alla letteratura!
La filosofia e ogni altro moto del
pensiero e della vita apparivano guastati dai miti nietzschiani e sorelliani
della forza e della violenza. Era una corrente insana che devastava tutta
l'Europa: la guerra, la rivoluzione
ne avevano diffuso i germi e attuata l'esperienza. Ai decenni dell'umanitarismo e pacifismo dell'età positiva succedevano i decenni della mitologia eroica. Non erano solo d'Annunzio e Marinetti; non era solo il sindacalismo rivoluzionario: era il trionfo dell'irrazionale che trascinava il mondo moderno ai suoi moti convulsi, ai suoi miti tragici, alle sue guerre folli e suicide, alla sua rivoluzione continua. Nessuno meglio di Croce descrive questo trapasso nel primo ventennio del secolo, dall'una all'altra età. Con l'interventismo, con il fiumanesimo, con lo squadrismo e, infine, con l’avvento del fascismo al potere, l'Italia accetta e subisce il dominio del nuovo credo.
ne avevano diffuso i germi e attuata l'esperienza. Ai decenni dell'umanitarismo e pacifismo dell'età positiva succedevano i decenni della mitologia eroica. Non erano solo d'Annunzio e Marinetti; non era solo il sindacalismo rivoluzionario: era il trionfo dell'irrazionale che trascinava il mondo moderno ai suoi moti convulsi, ai suoi miti tragici, alle sue guerre folli e suicide, alla sua rivoluzione continua. Nessuno meglio di Croce descrive questo trapasso nel primo ventennio del secolo, dall'una all'altra età. Con l'interventismo, con il fiumanesimo, con lo squadrismo e, infine, con l’avvento del fascismo al potere, l'Italia accetta e subisce il dominio del nuovo credo.
Tutto ciò si tradurrà storicamente a
distanza di un quarto di secolo in una totale rovina, ma non si deformi per questo la verità di ieri, non si parli oggi di una minoranza di banditi e
di criminali che presero il potere.
Lo stesso grande italiano Benedetto Croce, che dieci anni più tardi darà nelle sue: Storia d’Italia (1870-1914) e Storia d'Europa nel secolo XIX un giudizio definitivo e negativo sul pensiero dannunziano, nazionalista e fascista, e sui consimili movimenti europei, sarà tratto in inganno nell’autunno del 1922 e voterà come senatore a favore di Mussolini sino all’agosto del 1925, due mesi dopo l'assassinio di Matteotti.
Lo stesso grande italiano Benedetto Croce, che dieci anni più tardi darà nelle sue: Storia d’Italia (1870-1914) e Storia d'Europa nel secolo XIX un giudizio definitivo e negativo sul pensiero dannunziano, nazionalista e fascista, e sui consimili movimenti europei, sarà tratto in inganno nell’autunno del 1922 e voterà come senatore a favore di Mussolini sino all’agosto del 1925, due mesi dopo l'assassinio di Matteotti.
L’esaltazione torbida del nazionalismo non
era solo della letteratura e della politica. Si guardi come scriveva uno studioso, senza dubbio degno di considerazione come G. Rensi, nella Sera di
Milano del giugno 1921: «O si accettano i principi del liberalismo e si va per opera
dell’elezionismo e del Parlamento alla padronanza dello Stato delle classi, delle categorie, dei circoli di interessi e, quindi,
alla sostanziale impossibilità di un Governo e - cosa curiosa - alla
soppressione della libertà che il liberalismo propugna. O non si vogliono tali
conseguenze e bisogna respingere i principi del liberalismo (elezionismo,
volontà popolare, libertà di stampa, ecc.) e tornare all’autorità di fonte
ereditaria, alle aristocrazie e, cosa curiosa, così si mantiene il massimo di
libertà possibile, che invece, con altro sistema, scorre nel nulla ». E nello
stesso giornale, un anno dopo, il 6 giugno 1922, lo stesso autore incalzava: «Lo
stesso comunismo antiparlamentare e autoritario è, a suo modo, una constatazione
che è ora di finirla con la cosiddetta libertà». Con questo pensiero Rensi è
ancora oggi attuale con il trionfo russo su tutta l’Europa Centro Orientale e sud
Orientale e con la diffusione di quella propaganda nei paesi occidentali e
attraverso i partiti comunisti e i
gruppi affini (i). «Ponete mente - avvertiva allora il Rensi - alla parola: il
"duce”, il "comandante" per indicare Mussolini e d'Annunzio, che
si sentono sempre più di frequente e con crescente devozione ripetere. Esse
sono l'indice del bisogno in cui siamo, della sete che ci divora, dell’uomo che
ci comandi e ci guidi e cui seguire ciecamente... ».
E a voler considerare come una stessa
logica guidi tutti i movimenti totalitari, oggi che i comunisti si offendono
nel sentirsi chiamare fascisti rossi, ecco quel che lo stesso Rensi, scriveva
nello stesso tempo di Lenin (e con ciò egli dava valore alla sincerità del suo
pensiero perché non poteva certo compiacere al fascismo poc’anzi elogiato): «Veramente
grande è Lenin. A questo nostro mondo politico infrollito egli, offre un
meraviglioso spettacolo. Quello di ciò che possa la volontà di un uomo o di
pochi uomini al Governo, maneggianti risolutamente la forza, far quel che vuole
di un popolo e della sua sedicente, anche contraria volontà ».
(1)
Lo stesso senatore Luigi
Albertini, tenace avversario del fascismo, il 27 ottobre telegrafava al
generale Cittadini, Aiutante di Campo del Re, che era ormai inutile pensare a
una combinazione Salandra ed era ineluttabile l’esperimento di Mussolini. Vedi
anche nel recentissimo libro di Efrem Ferraris,
già Capo di Gabinetto di Facta: La marcia su Roma vista dal Viminale a
pag. 122, il colloquio telefonico da Milano di Albertini con il comm. D’Atri ex
Capo di Gabinetto di Salandra. Albertini scongiurava di affrettarsi a dare
l’incarico a Mussolini « oppure lasciare andare tutto alla malora ».
(2)
Mussolini: Scritti e
discorsi. Vol IV pag 52
(3)
Sinibaldo Tino: Storia di un trentennio (pag.72).
(4)
La risposta di Mussolini
agli ufficiali - molto e giustamente lodata - fu direttamente ispirata dal Re.
(5)
Si legga nella citata
opera di Ferraris a pag. 110 il telegramma di quel Prefetto che comunicava di
aver passato in rivista le squadre armate in qualità di rappresentante del
duce.
(6)
Questi elementi di
cronaca sono tratti da un giornale Il Corriere della Sera, ostile al movimento
fascista (vedi numero del 31 ottobre, prima pagina).
(7) Si veda su Mercurio, 1945, n. 11, un
articolo di Fedele d’Amico: «Libertà e dittatura».
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