NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 14 aprile 2018

Il Savoia Cavalleria

Il Colonnello Alessandro Bettoni conte di Cazzago con il glorioso Stendardo, conservato a Cascais fino alla morte del Re


Mi è capitato spesso di leggere o di ascoltare per televisione storie di cavallerie e cavalleggeri leggendari: i Rangers degli Stati Uniti d’America, tra cui Bufalo Bill, il generale Custer, la cavalleria di Gioacchino Murat, il reparto protagonista della «carica dei Seicento» a Balaklava, nella guerra di Crimea.
Su queste storie sono stati scritti libri e persino poesie e poemi epici, girati film, composte musiche, inventati miti e leggende, con una enfasi degna di miglior causa.
In una recente trasmissione televisiva ho sentito persino definire l’allevamento di Lipiza, la più grande scuola di cavalleria del mondo; anche se si tratta di poco più di un centro di addestramento di cavalli da circo equestre.
In effetti, poi, Gioacchino Murat veniva definito da Napoleone «cuor di leone e testa d’asino» e le cariche da lui comandate erano impetuose e talvolta risolsero anche l’esito di battaglie, ma si concludevano quasi sempre in autentici massacri; così come fu un massacro la «Carica dei Seicento».
Tanto la «Carica dei Seicento», quanto molte delle cariche comandate da Gioacchino Murat, dal punto di vista tattico, furono scriteriate, sino all’irresponsabilità.
Nel novero delle leggende riservate alle grandi imprese della cavalleria, quasi mai si parla della cavalleria italiana, che viene generalmente considerata di livello inferiore e che, invece, merita di essere annoverata tra le migliori al mondo.
La leggenda viene riservata agli altri; eppure, quando, nel marzo 1890, venne in Europa, a capo di un Circo spettacolare, Buffalo Bill, preceduto da una fama da leggenda, venne sfidato e battuto clamorosamente in tre diverse circostanze dai butteri della campagna romana dei principi Colonna; in particolare, il col. Cody venne personalmente e sonoramente battuto da Augusto Imperiali, buttero del principe Colonna, in un’arena realizzata nella piazza d’armi di Monte Mario a Roma.
La nostra scuola di cavalleria di Pinerolo, a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento, addestrava i formatori della cavalleria Statunitense, che, era considerata di qualità eccelsa, ma si era guadagnata fama combattendo pellerossa e messicani, i quali erano in condizioni di grande inferiorità tecnologica e spesso anche numerica.
In condizioni di effettiva difficoltà e, semmai partendo da posizione di inferiorità numerica e bellica, si svolsero diverse storiche cariche di cavallerie italiane nel Rinascimento, come quelle di Giovanni dalle Bande Nere.
Ed ancora più eroiche ed affrontate in condizioni di grandi difficoltà, eppure combattute con eccezionale senso tattico, furono le cariche della nostra cavalleria nel Risorgimento.
La carica dei carabinieri a cavallo a Pastrengo e quella dello stesso «Savoia Cavalleria» a Volta Mantovana, Pastrengo, Goito, Custoza, Villafranca, nella prima guerra di indipendenza; la carica della cavalleria coloniale al comando del capitano Carchidio contro i Dervisci, per la conquista di Cassala, nel luglio 1894; la carica della cavalleria a Sidi Bilal, nella guerra italo-turca del 1911-12, per il possesso della Libia; le operazioni di vari reparti di nostri cavalleggeri nella prima guerra mondiale, i cavalleggeri del «Savoia» furono i primi ad entrare in Udine restituita all’Italia e presero parte alla liberazione di Gorizia; ed ancora, nella fase post-risorgimentale, la carica di Isbuscenskij, nella seconda guerra mondiale, ad opera sempre del «Savoia Cavalleria».
Mentre, sino alla prima guerra mondiale, tutte le cariche di cavalleria del nostro, come di altri eserciti si svolsero in condizioni di potenziale equilibrio, per il tipo di armamento che era sostanzialmente simile per tutti gli eserciti, la carica di Isbuscenskij si svolse in condizioni che hanno assolutamente dell’incredibile, con un reparto di cavalleria contro armi automatiche, nidi di mitragliatrici e postazioni di carri armati.
E quegli uomini del «Savoia cavalleria», da quella impresa non uscirono sconfitti, come il gen. Custer a Little Big Horn o come i Seicento a Balacava. Gli uomini del «Savoia cavalleria», dalla carica di Isbuscenskij uscirono vittoriosi ed, in una guerra dalle forti connotazioni e contrapposizioni ideologiche violente, meritarono il riconoscimento e l’ammirazione del nemico, che elogiò il comportamento dei nostri cavalleggeri nel proprio bollettino di guerra.
Eppure, gli italiani, così patiti di esterofilia, nella generalità, conoscono ed ammirano un irresponsabile come il generale Custer, e non conoscono neppure nome del comandante della vittoriosa carica di Isbuscenskij.
Eppure gli italiani, così ammalati di autolesionismo, dimostrano emozione quando leggono la denuncia di crudeltà, quasi sempre ingigantite e spesso assolutamente inventate, di reparti o comandanti italiani, e si dimostrano disinteressati e indifferenti alle manifestazioni di eroismo e di eroica umanità delle nostre truppe, dei nostri connazionali.
C’è un’espressione riferita al giornalismo, che è sintomatica al riguardo: «Cane morde uomo non è una notizia; uomo morde cane; quella sì che è una notizia».
Perché è stata coniata un’espressione simile?
Perché la notizia è rappresentata dall’eccezionalità dell’evento; la regola è l’altra.
Nessuno nega - ed io meno di altri - che in una guerra qualsiasi, che è fondata su azioni forti, sulla violenza, anche tra i migliori, episodi di violenza possano aver luogo: molte volte, per reazione ad altrui episodi di ferocia; altre volte, per difendersi dalle privazioni; ed altre ancora perché la guerra - specie se è lunga e viene combattuta in condizioni estreme - abbrutisce ed altera la natura di molti uomini.
Quello che non è ammissibile è che si definisca regola l’eccezione, sino a negare validità all’espressione «Italiani, brava gente», che non ci siamo arrogati da soli, ma che ci è stata attribuita dalle popolazioni dei Paesi con i quali eravamo in conflitto armato: russi, greci, libici, somali, eritrei, gli stessi etiopi.
Questo, però, potrebbe costituire argomento di una conversazione specifica.
Ho fatto cenno di questo tema nella chiacchierata di quest’oggi, semplicemente perché anche il «Savoia cavalleria» si rese protagonista di episodi di grande umanità, oltre che di eccezionali azioni di eroismo.
Prima di entrare nella descrizione della carica, oggetto di questa conversazione, tracciamo brevissime note sulla storia di questo glorioso reparto.
Il «Savoia cavalleria» venne fondato decreto 23 luglio 1692 da Vittorio Amedeo II, ultimo Duca e primo Re di Casa Savoia, che ebbe quattro grandi fasi storiche: quella dei Conti, quella dei Duchi di Savoia, quella dei Re prima di Sicilia e poi di Sardegna; ed, infine, quella dei Re d’Italia.
Vittorio Amedeo II aveva resistito nella Torino, capitale del suo regno, all’assedio dei francesi; assedio del quale si era liberato con l’aiuto delle truppe imperiali, comandate dal cugino Eugenio di Savoia.
Nel 1713, con il trattato di Utrecht, Vittorio Amedeo II ottenne il titolo di Re e la Sicilia, che nel 1718 scambiò con la più povera, ma più vicina Sardegna (Filippo Juvara).
Il «Savoia cavalleria» venne costituito con un preciso obiettivo; la cavalleria, sino ad allora, era rappresentata da milizie feudali a cavallo, con armatura pesante; pertanto, con scarsa manovrabilità; ed anche sempre più vulnerabili, mano a mano che evolvevano le armi da fuoco.
La creazione del «Savoia cavalleria» rappresentò una delle prime incisive riforme militari di Vittorio Amedeo II che innovò molto anche sul piano civile.
Fu una rivoluzione alla sua nascita e lo fu anche successivamente.
Nel 1692, conferì ai reparti a cavallo modernità e maggiore efficienza; negli anni immediatamente successivi al 1900, dalla cavalleria provennero i primi combattenti dell’aria ed i ciclisti mitraglieri; ora, ma non da ora soltanto, la cavalleria impiega i carri armati.
Nella sua storia, il «Savoia cavalleria» prese parte alla guerra della lega di Augusta, combatté nelle guerra di Successione di Spagna, di Polonia e d’Austria; a seguito della rivoluzione del 1789 fu impegnato contro la Francia repubblicana.
Con l’affermarsi di Napoleone ed il ritiro di Carlo Emanuele IV in Sardegna, il «Savoia cavalleria» venne sciolto nel 1799.
Chiusa la parentesi napoleonica, Vittorio Emanuele I, a favore del quale Carlo Emanuele IV in Sardegna aveva abdicato, fece rientro nei suoi Stati di Terra ferma ed il 1° dicembre 1814 ricostituì il «Savoia cavalleria», che, successivamente, prese parte a tutte le campagne risorgimentali; epica fu la carica di Volta Mantovana il 27 luglio 1848, nella prima Guerra di indipendenza; partecipò alla Seconda e Terza Guerra d’Indipendenza, alla presa di Roma, alla lotta al brigantaggio nel Sud Italia e alle Campagne di Eritrea.
Durante la Guerra del 1915-1918, il «Savoia cavalleria» venne impegnato tanto appiedato - quando si combatté la guerra di posizione - quanto a cavallo; ed ancora come reparto operante con mitragliatrici montate su biciclette; ed, infine, anche con autoblindo Lancia IZ; quindi, assolvendo alle funzioni di grande duttilità, mobilità e modernità per le quali era stato istituito.
Concluso il conflitto, al «Savoia cavalleria» venne posto in atto un processo di ammodernamento, senza mai venir meno ai valori, al rigore dello stesso addestramento a cavallo.
Già nei primi anni Trenta, venne dotato prima di carri leggeri; poi di semoventi; quindi, anche di carri pesanti.
Nel marzo 1935 il reggimento venne impegnato nelle grandi manovre nel Trentino Alto Adige, nella zona tra Madonna di Campiglio, Malé, la Mendola, Bolzano; manovre a fuoco cui parteciparono anche bersaglieri, artiglieria celere e carri veloci.
Ed arriviamo alla seconda guerra mondiale.
Alla data dello scoppio del conflitto, il 10 giugno 1940, il «Savoia cavalleria» era comandato sin da 1937 dal col. Raffaele Cadorna ed aveva un organico di 37 ufficiali, 40 sottufficiali, 802 uomini di truppa, 830 cavalli, 18 automezzi, 6 motocicli, 39 biciclette.
Un armamento «leggero» ed una dotazione logistica modesta; e si apprestava a fronteggiare eserciti superarmati.
Il reggimento era acquartierato a Sud Est di Udine; ma il 4° squadrone era a Bolzano.
Il 10 aprile 1941, il «Savoia Cavalleria» partì per la Jugoslavia; raggiunse la Bosnia occidentale, dove era stato destinato, percorrendo 600 chilometri in 9 giorni; ne avrebbe percorsi altrettanti nei giorni successivi per presidiare la zona assegnata.
Le ostilità erano già terminate, per la resa del Regno di Jugoslavia, che venne smembrato con l’attribuzione della provincia di Lubiana e di alcune zone costiere all’Italia e la creazione del Regno di Croazia, nostro sgradito alleato, la cui corona venne assegnata ad Aimone di Savoia; ma il potere effettivo era nelle mani dal capo degli Ustascia Ante Pavelic, protetto da Hitler.
Aimone di Savoia non si recò neppure in Croazia; mandò un suo ufficiale d’ordinanza a sondare la situazione; un tenente dei Carabinieri di Curzola; si chiamava Renzi Depolo, che, successivamente, è stato colonnello a Bolzano.
Anche se non impegnato in operazioni belliche, il «Savoia Cavalleria» dovette fronteggiare gli Ustascia, autori di incredibili atti di ferocia; a Bihac, il comandante Raffaele Cadorna dovette faticare parecchio per frenare i propri uomini in fermento contro il gran Zupano della zona.
I nostri cavalleggeri in pochi giorni salvarono centinaia di persone dalle persecuzioni degli Ustascia, che commettevano i loro crimini in veste ufficiale in un Regno la cui titolarità nominale era di un Sovrano italiano, ma il cui potere effettivo era esercitato da Pavelic; e questo spiega perché molti degli eccessi compiuti in quel periodo sono stati addossati agli italiani.
La verità è che tra truppe italiane e autorità croate nacque un vero e proprio conflitto, nel quale, in appoggio ai croati, intervennero i tedeschi.
Forse giocò anche questo elemento nel trasferimento del «Savoia Cavalleria» dallo scacchiere jugoslavo al fronte russo.
L’ordine di mobilitazione avvenne già il 21 giugno; ma gli altri reparti del Regio Esercito rimasti in Jugoslavia proseguirono nell’opera di umanità.
Il loro era compito fu persino proibitivo, perché la Resistenza che si sviluppò dopo la resa delle truppe regolari fu articolata con fazioni contrapposte persino all’interno della stessa popolazione di quel Paese; fu cruenta, feroce; ed impose anche reazioni indispensabili, delle quali si parla senza tener mai conto dei fatti che le avevano provocate.
Del resto, per avere un metro di valutazione, basta considerare ciò che si sono fatti tra di loro qualche anno fa, quando non avevano alcuna possibilità di attribuire la responsabilità di eccidi ad altri.
In ogni caso, il Regio Esercito proseguì nella propria opera di garanzia dell’ordine e di difesa dei deboli.
Le testimonianze al riguardo sono innumerevoli; su tutte, spicca una relazione di Manachem Shelah, uno degli scampati all’eccidio degli  ebrei in Dalmazia e docente di storia contemporanea all’Università di Haifa, in Israele; relazione, tradotta e pubblicata nel 1991, a cura dello Stato Maggiore dell’Esercito, con il titolo «Un debito di gratitudine», che ha documentato il salvataggio in Dalmazia, da parte del Regio Esercito, di 100.000 ebrei.
Ma, torniamo al «Savoia Cavalleria».
La partenza di questo reggimento per la Russia, inquadrato nella 3a Divisione Celere «Principe Amedeo Duca d’Aosta», nell’ambito del C.S.I.R. prima e dell’A.R.M.I.R. poi, avvenne il 26 luglio. Il viaggio si svolse in treno fino all’Ungheria; e poi, attraverso i Carpazi, Bessarabia, Romania, a cavallo o a piedi.
L’11 agosto, il «Savoia Cavalleria» giunse in Ucraina e nei giorni successivi venne schierato lungo l’argine del Dnjepr.
L’entrata in azione dei nostri cavalleggeri - Savoia e Lancieri di Novara - avvenne con l’autunno inverno 1941, in condizioni tragiche; ossia, con la gran parte dei mezzi motorizzati del nostro esercito fermi per mancanza di carburante e, pertanto, non in grado di assicurare i rifornimenti.
Il «Savoia Cavalleria», tra gelo, neve, fango, era una delle pochissime unità mobili; e si doveva portare tutto dietro autonomamente; spesso camminando, per non sfiancare i cavalli, già gravati dal peso dell’armamento e che affondavano nel fango e nella neve sino al ginocchio; diversi cavalli morirono per sfinimento.
Circa 1.500 km, tra Borsa e Stalino, molto spesso a piedi, di cui un terzo combattendo, mangiando poco, il più delle volte rifornendosi con materiale e viveri sottratti al nemico.
Diviso in reparti, a volte a cavallo, a volte a piedi, il «Savoia cavalleria» prese parte ad un incredibile numero di fatti d’arme, combattendo sempre eroicamente e sempre uscendone vittorioso, ma sempre con gestione oculata delle risorse materiali ed umane, che rappresentava anche una necessità strategica, dal momento che le esigue forze, a tanta distanza dall’Italia, erano difficilmente rimpiazzabili e non vi sarebbe stato il tempo per l’addestramento degli eventuali rimpiazzi.
La gloriosa carica di Isbuschenskij fu preceduta dalla conquista della zona industriale di Rykovo; dalla rottura dell’accerchiamento, all’interno di Nikitowka, dell’80simo Fanteria; dall’inseguimento per 250 km di imponenti retroguardie sovietiche; dalla partecipazione alla conquista di importanti centri, tra cui Stalino.
E siamo a Insbuschenskij.
Non voglio aggiungere nulla più dello stretto necessario alla descrizione di quella carica, che ha più che del leggendario; mi limito, perciò, a leggere una anonima ricostruzione del 1992:

«Al galoppo con la sciabola sguainata. "Caricat!" ordina l’ufficiale. «Savoia» rispondono urlando gli uomini dello squadrone. E si lanciano sulle postazioni russe. Era la mattina del 24 agosto 1942 e tra i girasoli di Isbuschenskij si chiudeva la storia della cavalleria. Con una carica ormai leggendaria.
Sulle rive del Don a decidere le battaglie dovevano essere i carri armati. Invece gli italiani riuscirono a conquistare una delle rare vittorie della nostra spedizione in Urss proprio con un’arma di altri tempi. La romantica, la più affascinante, la più lontana dalla guerra moderna. II «Savoia cavalleria» si era trovato accerchiato dall’avanzata delle truppe siberiane. Nella notte tre battaglioni di fanteria lo avevano aggirato. I sovietici si erano nascosti tra i girasoli. Ma all’alba una pattuglia nota qualcosa di sospetto. Un cavaliere spara tra le piante. E, improvvisamente, i campi vengono animati dal fuoco di 2000 soldati russi.
Il comandante, colonnello Alessandro Bettoni conte di Cazzago, non si perde d’animo. Ordina al secondo squadrone di prepararsi alla carica, il sogno di ogni cavaliere. Come nelle distese di Balaclava, come a Waterloo. Ma con più attenzione ai pericoli delle mitragliatrici. Prima i 650 uomini del «Savoia» bersagliano il centro dello schieramento sovietico. Poi lo caricano sul fianco. Tra le truppe siberiane, sorprese da tanta audacia, è il panico. Vedono davanti una scena incredibile. Una enorme nuvola di polvere che avanza. E in pochi minuti si trovano sulle teste le sciabole degli italiani. Dopo il primo passaggio, tra le linee nemiche, il reparto si riorganizza. E ripete l’assalto in senso inverso, questa volta usando più le bombe a mano che le lame.
Il nostro comandante intuisce il successo. La carica ha avuto il risultato psicologico sperato. E lo sfrutta. Ordina ai due squadroni appiedati e al gruppo di cannoncini di tenere sotto tiro i russi. E mentre gli avversari incominciano a sbandare lancia alla carica il 3. squadrone. Di nuovo nella pianura si levano le sciabole e risuona l’urlo di «Savoia». I battaglioni sovietici scappano.
Tra i girasoli restano i corpi senza vita di circa 250 soldati russi. Altri 600 si arrendono: la metà di loro è stata ferita dalla sciabole. In tutto il «Savoia» conta 39 caduti, 53 feriti, e più di cento cavalli falciati dalle raffiche. Ma è vittoria. Insperata, incredibile. E che ha effetti importanti per arginare lo sfondamento dell’armata Rossa, salvando dall’accerchiamento intere divisioni italiane e tedesche.
A Isbuschenskij viene realizzato quello che non era riuscito nel 1939 ai lanceri polacchi e, più tardi, sfortunati «Cavalleggeri di Alessandria». Caricare e vincere.
Così si chiude l’epopea della cavalleria. Una leggenda iniziata 5000 anni prima nelle distese dell’Asia Minore e conclusa cinquant’anni fa (ora 64 anni fa) sul Don proprio dalle sciabole del «Savoia cavalleria».
Non solo. Ma quella carica consentì al «Savoia cavalleria» di catturare al nemico 3 cannoni anticarro, più uno distrutto; 4 mortai; 20 fucili anticarro; 4 mitragliatrici; 15 parabellum; 8 fucili mitragliatori; 170 fucili.
Ricordo che qualche anno fa pubblicai il virgolettato su «L’Incontro», venne da me un collega di lingua tedesca e mi disse di aver prestato il servizio di leva proprio nel «Savoia cavalleria» e tenne a dirmelo, aggiungendo: «Sono di lingua tedesca, ma confesso che quando ho letto l’articolo, mi è venuta la pelle d’oca» e si sollevò la manica di giacca e camicia.
Per la carica di Insbuscenskij, vennero conferite due sole medaglie d’oro, entrambe alla memoria: al maggiore Alberto Litta Modigliani e al capitano Silvano Abba, ferito due volte nella stessa carica, prima di cadere colpito a morte.
Furono conferite una cinquantina di medaglie d’argento, tra cui quelle attribuite al comandante Alessandro Bettoni di Cazzago; una ventina di medaglie di bronzo; un certo numero di croci di guerra; e ci furono anche tre promozioni per merito di guerra.
La campagna di Russia e la carica di Isbuschenskij suscitarono entusiasmo tra gli italiani, ammirazione nel mondo intero e meritò persino una rispettosa citazione nel bollettino ufficiale dell’«Armata rossa» ed ispirò cartellonisti come Beltrame e Pisani e pittori come Pagliani e Apolloni.
A quella carica presero parte, tra gli altri, Massimo Gotta, figlio dello scrittore Salvator Gotta, autore de «Il piccolo alpino», e Angelo Muller, di origine altoatesina e decorato di medaglia di bronzo; vi perì il capitano Silvano Abba, discendente dello scrittore Giulio Cesare Abba. Nella furiosa carica di Isbuschenskij il comandante Bettoni vide uccidere sotto di sé due cavalli, ma riprese la battaglia, saltando in groppa ad altri due destrieri rimasti senza cavaliere.
Lo stendardo del «Savoia cavalleria» fece rientro a Milano il 30 aprile 1943.
A seguito degli eventi determinati dall’Armistizio, l’8 settembre 1943, il reggimento è disciolto in Emilia ove è in corso di riordinamento.
Non finirono l’eroismo ed il sacrificio degli uomini del «Savoia cavalleria»; un reparto proseguì il proprio impegno sul crinale appenninico, nella speranza di contrastare l’azione dei tedeschi in attesa dello sbarco degli alleati.
Diversi cavalleggeri continuarono a combattere nella Resistenza; il tenente Franco Vannetti Donnini (promosso capitano per meriti di guerra ad Insbuscenskij), cadde falciato dai mitra nazisti nella difesa di Porta San Paolo a Roma, all’indomani dell’8 settembre 1943.
Altri ufficiali vennero internati in campi di concentramento nazisti.
Il gen. Guglielmo Barbò di Casalmorano, comandante della celebre Scuola di cavalleria di Pinerolo, morì nel campo di Flossenburg il 14 dicembre 1944.
Altri, per non consegnarsi ai tedeschi, sconfinarono in Svizzera.
Il gen. Alfonso Cigala Fulgosi, che dal 1942 era stato nominato comandante della piazza di Spalato, dopo l’8 settembre rifiutò di cedere le armi ai tedeschi, dai quali venne fucilato il 1° ottobre 1943; morì, rifiutando la benda per coprigli gli occhi e gridando «Viva il Re, viva l’Italia».
Alla fine della guerra il conte Alessandro Bettoni di Cazzago lasciò il servizio e volle portare a Umberto II, erede del fondatore del Corpo, lo stendardo del «Savoia cavalleria»; per questo suo gesto, venne privato della pensione e dell’indennità della medaglia d’argento conquistata in quella stupenda carica. Non se ne rammaricò e non rilasciò mai dichiarazioni al riguardo. Riprese la sua attività di cavallerizzo e partecipò anche alle Olimpiadi di Londra, dove, quando venne disarcionato nel superare un ostacolo, fece alzare in piedi tutto il pubblico - inglesi in prima fila - e raccolse prima il deluso silenzio e poi l’entusiastico applauso generale; come se il vincitore fosse stato lui, la «leggenda di Isbuschenskij».
Si spense a Roma, la sera del 28 aprile 1951, accasciandosi per un attacco cardiaco durante il concorso ippico di piazza di Siena, al quale stava prendendo parte.
Intanto, la storia del «Savoia cavalleria» riprese, molto contrastata, dopo la conclusione del 2° conflitto mondiale.
Il 15 ottobre 1946 viene costituito il Gruppo Esplorante 3° Cavalieri al quale sono assegnati colori, fregio e numero del disciolto Reggimento.
Il «Savoia cavalleria» venne trasferito a Merano; ma quel nome dava fastidio ai «politici» di allora e la denominazione del glorioso corpo il 18 febbraio 1950 venne mutato in «Gorizia cavalleria»; perché l’ignominia fosse rimediata con il ripristino dell’originaria denominazione, bisognò attendere il 4 novembre 1958.
A Merano si spense, il 21 ottobre 1960, l’ultimo superstite dell’ultima carica della storia; il cavallo Albino, amata «mascotte» di veterani e reclute, ora imbalsamato; era suo compagno inseparabile il minuscolo somarello Mariolino; e chissà con quanta amarezza avranno insieme sorriso della piccineria di chi aveva cercato, con quel cambio di denominazione del corpo, di far dimenticare al popolo italiano una delle sue più fulgide pagine di storia...

A seguito della ristrutturazione dell’Esercito, l’11 ottobre 1975, che vide la soppressione del livello reggimentale, l’unità si riordinò in 3° Gruppo Squadroni Corazzato «Savoia Cavalleria» formato in Merano con personale del disciolto reggimento.
Il 23 maggio 1992 il «Savoia cavalleria» venne ricostituito in Reggimento e dal 1995 trasferito a Grosseto.
Ancora qualche annotazione.
Questo Corpo ebbe Comandanti ed ufficiali illustri; tra l’altro, anche due cugini di Vittorio Emanuele III: il conte di Torino, che sfidò e batté in duello il duca d’Orleans, francese; e il duca di Bergamo; ed ebbe, come comandante anche Luigi Napoleone, figlio di Gerolamo Bonaparte e della principessa Cristina di Savoia.
Tra i suoi comandanti, ebbe anche il maggiore Giovanni Arrighi, che il 15 ottobre 1946 ebbe il compito di comandare il Gruppo Esplorante 3° Cavalieri, ricostituzione del «Savoia cavalleria».
Era nato a Sassari il 14 luglio 1913; a 36 anni, nel 1950, fece professione di fede nell’Ordine domenicano; divenne sacerdote nel 1953.
Lettore in teologia, insegnò per qualche tempo a Bologna; nel 1956 fu inviato con il grado di Superiore a Bolzano. Qui, essendosi reso conto che molti, nel periodo estivo preferivano le gite alla chiesa, cominciò a frequentare coloro che chiamava i «lontani», per parlare di fede e di Dio. Nacque così, da lui creata, la «pastorale del turismo».
Su questo tema, padre Arrighi scrisse un libro «Cristo tra i lontani».
Il Concilio «Vaticano II» fece suo questo nuovo campo d’azione; padre Arrighi venne chiamato a Roma e nominato funzionario della Segreteria di Stato e rappesentante della Santa Sede per la Pastorale delle Migrazioni e del Turismo.
Padre Arrighi insegnò nelle Università del Laterano e di San Tommaso.
Si spense a Milano il 5 settembre 1986, all’età di 73 anni, dopo 33 anni di sacerdozio; poco prima della dipartita, era stato nominato tenente colonnello di Cavalleria; e ne fu commosso.
Ma perché, sentendo il richiamo della fede, scelse proprio l’ordine Domenicano?
Non so se l’abbia mai spiegato. C’è, però, una coincidenza. Umberto II era Terziario Domenicano ed ebbe un ruolo importante nella realizzazione della Chiesa di Cristo Re a Bolzano.
Dopo un po’ che la costruzione era iniziata, finirono i soldi ed il Governo si rifiutò di integrare la spesa inizialmente stanziata. I frati si rivolsero allora al Principe ereditario, che inviò la somma necessaria, staccandola dal proprio patrimonio personale.
I frati vollero ringraziare il principe facendo affrescare la parete a sinistra dell’Altare per chi guarda, con una pala con la raffigurazione dei Beati di Casa Savoia. L’incarico venne affidato a Franz Lenhart, il quale, in un eccesso di zelo, inserì nell’affresco anche lo stesso Umberto di Savoia, il quale, quando lo seppe, telefonò direttamente al pittore e gli disse: «Guarda che io non sono ancora morto; tirami via di lì»; e, poiché Lenhart gli obiettò che sarebbe rimasto uno spazio vuoto, Umberto di Savoia replicò: «Se proprio vuoi, ti dò due zie di Naoli, appena create venerabili». E così avvenne.
Waldimaro Fiorentino 

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