Il Colonnello Alessandro Bettoni conte di Cazzago con il glorioso Stendardo, conservato a Cascais fino alla morte del Re |
Mi è capitato spesso di leggere o di ascoltare per televisione storie di cavallerie e cavalleggeri leggendari: i Rangers degli Stati Uniti d’America, tra cui Bufalo Bill, il generale Custer, la cavalleria di Gioacchino Murat, il reparto protagonista della «carica dei Seicento» a Balaklava, nella guerra di Crimea.
Su queste
storie sono stati scritti libri e persino poesie e poemi epici, girati film,
composte musiche, inventati miti e leggende, con una enfasi degna di miglior
causa.
In una
recente trasmissione televisiva ho sentito persino definire l’allevamento di
Lipiza, la più grande scuola di cavalleria del mondo; anche se si tratta di
poco più di un centro di addestramento di cavalli da circo equestre.
In
effetti, poi, Gioacchino Murat veniva definito da Napoleone «cuor di leone e
testa d’asino» e le cariche da lui comandate erano impetuose e talvolta
risolsero anche l’esito di battaglie, ma si concludevano quasi sempre in
autentici massacri; così come fu un massacro la «Carica dei Seicento».
Tanto la
«Carica dei Seicento», quanto molte delle cariche comandate da Gioacchino
Murat, dal punto di vista tattico, furono scriteriate, sino
all’irresponsabilità.
Nel novero
delle leggende riservate alle grandi imprese della cavalleria, quasi mai si
parla della cavalleria italiana, che viene generalmente considerata di livello
inferiore e che, invece, merita di essere annoverata tra le migliori al mondo.
La
leggenda viene riservata agli altri; eppure, quando, nel marzo 1890, venne in
Europa, a capo di un Circo spettacolare, Buffalo Bill, preceduto da una fama da
leggenda, venne sfidato e battuto clamorosamente in tre diverse circostanze dai
butteri della campagna romana dei principi Colonna; in particolare, il col.
Cody venne personalmente e sonoramente battuto da Augusto Imperiali, buttero
del principe Colonna, in un’arena realizzata nella piazza d’armi di Monte Mario
a Roma.
La nostra
scuola di cavalleria di Pinerolo, a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento,
addestrava i formatori della cavalleria Statunitense, che, era considerata di
qualità eccelsa, ma si era guadagnata fama combattendo pellerossa e messicani,
i quali erano in condizioni di grande inferiorità tecnologica e spesso anche
numerica.
In
condizioni di effettiva difficoltà e, semmai partendo da posizione di
inferiorità numerica e bellica, si svolsero diverse storiche cariche di
cavallerie italiane nel Rinascimento, come quelle di Giovanni dalle Bande Nere.
Ed ancora
più eroiche ed affrontate in condizioni di grandi difficoltà, eppure combattute
con eccezionale senso tattico, furono le cariche della nostra cavalleria nel
Risorgimento.
La carica
dei carabinieri a cavallo a Pastrengo e quella dello stesso «Savoia Cavalleria»
a Volta Mantovana, Pastrengo, Goito, Custoza, Villafranca, nella prima guerra
di indipendenza; la carica della cavalleria coloniale al comando del capitano
Carchidio contro i Dervisci, per la conquista di Cassala, nel luglio 1894; la
carica della cavalleria a Sidi Bilal, nella guerra italo-turca del 1911-12, per
il possesso della Libia; le operazioni di vari reparti di nostri cavalleggeri
nella prima guerra mondiale, i cavalleggeri del «Savoia» furono i primi ad
entrare in Udine restituita all’Italia e presero parte alla liberazione di
Gorizia; ed ancora, nella fase post-risorgimentale, la carica di Isbuscenskij,
nella seconda guerra mondiale, ad opera sempre del «Savoia Cavalleria».
Mentre,
sino alla prima guerra mondiale, tutte le cariche di cavalleria del nostro,
come di altri eserciti si svolsero in condizioni di potenziale equilibrio, per
il tipo di armamento che era sostanzialmente simile per tutti gli eserciti, la
carica di Isbuscenskij si svolse in condizioni che hanno assolutamente
dell’incredibile, con un reparto di cavalleria contro armi automatiche, nidi di
mitragliatrici e postazioni di carri armati.
E quegli
uomini del «Savoia cavalleria», da quella impresa non uscirono sconfitti, come
il gen. Custer a Little Big Horn o come i Seicento a Balacava. Gli uomini del
«Savoia cavalleria», dalla carica di Isbuscenskij uscirono vittoriosi ed, in
una guerra dalle forti connotazioni e contrapposizioni ideologiche violente,
meritarono il riconoscimento e l’ammirazione del nemico, che elogiò il
comportamento dei nostri cavalleggeri nel proprio bollettino di guerra.
Eppure,
gli italiani, così patiti di esterofilia, nella generalità, conoscono ed
ammirano un irresponsabile come il generale Custer, e non conoscono neppure
nome del comandante della vittoriosa carica di Isbuscenskij.
Eppure gli
italiani, così ammalati di autolesionismo, dimostrano emozione quando leggono
la denuncia di crudeltà, quasi sempre ingigantite e spesso assolutamente
inventate, di reparti o comandanti italiani, e si dimostrano disinteressati e
indifferenti alle manifestazioni di eroismo e di eroica umanità delle nostre
truppe, dei nostri connazionali.
C’è
un’espressione riferita al giornalismo, che è sintomatica al riguardo: «Cane
morde uomo non è una notizia; uomo morde cane; quella sì che è una notizia».
Perché è
stata coniata un’espressione simile?
Perché la
notizia è rappresentata dall’eccezionalità dell’evento; la regola è l’altra.
Nessuno
nega - ed io meno di altri - che in una guerra qualsiasi, che è fondata su
azioni forti, sulla violenza, anche tra i migliori, episodi di violenza possano
aver luogo: molte volte, per reazione ad altrui episodi di ferocia; altre
volte, per difendersi dalle privazioni; ed altre ancora perché la guerra -
specie se è lunga e viene combattuta in condizioni estreme - abbrutisce ed
altera la natura di molti uomini.
Quello che
non è ammissibile è che si definisca regola l’eccezione, sino a negare validità
all’espressione «Italiani, brava gente», che non ci siamo arrogati da soli, ma
che ci è stata attribuita dalle popolazioni dei Paesi con i quali eravamo in
conflitto armato: russi, greci, libici, somali, eritrei, gli stessi etiopi.
Questo,
però, potrebbe costituire argomento di una conversazione specifica.
Ho fatto
cenno di questo tema nella chiacchierata di quest’oggi, semplicemente perché
anche il «Savoia cavalleria» si rese protagonista di episodi di grande umanità,
oltre che di eccezionali azioni di eroismo.
Prima di
entrare nella descrizione della carica, oggetto di questa conversazione,
tracciamo brevissime note sulla storia di questo glorioso reparto.
Il «Savoia
cavalleria» venne fondato decreto 23 luglio 1692 da Vittorio Amedeo II, ultimo
Duca e primo Re di Casa Savoia, che ebbe quattro grandi fasi storiche: quella
dei Conti, quella dei Duchi di Savoia, quella dei Re prima di Sicilia e poi di
Sardegna; ed, infine, quella dei Re d’Italia.
Vittorio
Amedeo II aveva resistito nella Torino, capitale del suo regno, all’assedio dei
francesi; assedio del quale si era liberato con l’aiuto delle truppe imperiali,
comandate dal cugino Eugenio di Savoia.
Nel 1713,
con il trattato di Utrecht, Vittorio Amedeo II ottenne il titolo di Re e la
Sicilia, che nel 1718 scambiò con la più povera, ma più vicina Sardegna
(Filippo Juvara).
Il «Savoia
cavalleria» venne costituito con un preciso obiettivo; la cavalleria, sino ad
allora, era rappresentata da milizie feudali a cavallo, con armatura pesante;
pertanto, con scarsa manovrabilità; ed anche sempre più vulnerabili, mano a
mano che evolvevano le armi da fuoco.
La
creazione del «Savoia cavalleria» rappresentò una delle prime incisive riforme
militari di Vittorio Amedeo II che innovò molto anche sul piano civile.
Fu una
rivoluzione alla sua nascita e lo fu anche successivamente.
Nel 1692,
conferì ai reparti a cavallo modernità e maggiore efficienza; negli anni
immediatamente successivi al 1900, dalla cavalleria provennero i primi
combattenti dell’aria ed i ciclisti mitraglieri; ora, ma non da ora soltanto,
la cavalleria impiega i carri armati.
Nella sua
storia, il «Savoia cavalleria» prese parte alla guerra della lega di Augusta,
combatté nelle guerra di Successione di Spagna, di Polonia e d’Austria; a
seguito della rivoluzione del 1789 fu impegnato contro la Francia repubblicana.
Con
l’affermarsi di Napoleone ed il ritiro di Carlo Emanuele IV in Sardegna, il
«Savoia cavalleria» venne sciolto nel 1799.
Chiusa la
parentesi napoleonica, Vittorio Emanuele I, a favore del quale Carlo Emanuele
IV in Sardegna aveva abdicato, fece rientro nei suoi Stati di Terra ferma ed il
1° dicembre 1814 ricostituì il «Savoia cavalleria», che, successivamente, prese
parte a tutte le campagne risorgimentali; epica fu la carica di Volta Mantovana
il 27 luglio 1848, nella prima Guerra di indipendenza; partecipò alla Seconda e
Terza Guerra d’Indipendenza, alla presa di Roma, alla lotta al brigantaggio nel
Sud Italia e alle Campagne di Eritrea.
Durante la
Guerra del 1915-1918, il «Savoia cavalleria» venne impegnato tanto appiedato -
quando si combatté la guerra di posizione - quanto a cavallo; ed ancora come
reparto operante con mitragliatrici montate su biciclette; ed, infine, anche
con autoblindo Lancia IZ; quindi, assolvendo alle funzioni di grande duttilità,
mobilità e modernità per le quali era stato istituito.
Concluso
il conflitto, al «Savoia cavalleria» venne posto in atto un processo di
ammodernamento, senza mai venir meno ai valori, al rigore dello stesso
addestramento a cavallo.
Già nei
primi anni Trenta, venne dotato prima di carri leggeri; poi di semoventi;
quindi, anche di carri pesanti.
Nel marzo
1935 il reggimento venne impegnato nelle grandi manovre nel Trentino Alto
Adige, nella zona tra Madonna di Campiglio, Malé, la Mendola, Bolzano; manovre
a fuoco cui parteciparono anche bersaglieri, artiglieria celere e carri veloci.
Ed
arriviamo alla seconda guerra mondiale.
Alla data
dello scoppio del conflitto, il 10 giugno 1940, il «Savoia cavalleria» era
comandato sin da 1937 dal col. Raffaele Cadorna ed aveva un organico di 37
ufficiali, 40 sottufficiali, 802 uomini di truppa, 830 cavalli, 18 automezzi, 6
motocicli, 39 biciclette.
Un
armamento «leggero» ed una dotazione logistica modesta; e si apprestava a
fronteggiare eserciti superarmati.
Il
reggimento era acquartierato a Sud Est di Udine; ma il 4° squadrone era a
Bolzano.
Il 10
aprile 1941, il «Savoia Cavalleria» partì per la Jugoslavia; raggiunse la
Bosnia occidentale, dove era stato destinato, percorrendo 600 chilometri in 9
giorni; ne avrebbe percorsi altrettanti nei giorni successivi per presidiare la
zona assegnata.
Le
ostilità erano già terminate, per la resa del Regno di Jugoslavia, che venne
smembrato con l’attribuzione della provincia di Lubiana e di alcune zone
costiere all’Italia e la creazione del Regno di Croazia, nostro sgradito
alleato, la cui corona venne assegnata ad Aimone di Savoia; ma il potere
effettivo era nelle mani dal capo degli Ustascia Ante Pavelic, protetto da
Hitler.
Aimone di
Savoia non si recò neppure in Croazia; mandò un suo ufficiale d’ordinanza a
sondare la situazione; un tenente dei Carabinieri di Curzola; si chiamava Renzi
Depolo, che, successivamente, è stato colonnello a Bolzano.
Anche se
non impegnato in operazioni belliche, il «Savoia Cavalleria» dovette
fronteggiare gli Ustascia, autori di incredibili atti di ferocia; a Bihac, il
comandante Raffaele Cadorna dovette faticare parecchio per frenare i propri
uomini in fermento contro il gran Zupano della zona.
I nostri
cavalleggeri in pochi giorni salvarono centinaia di persone dalle persecuzioni
degli Ustascia, che commettevano i loro crimini in veste ufficiale in un Regno
la cui titolarità nominale era di un Sovrano italiano, ma il cui potere
effettivo era esercitato da Pavelic; e questo spiega perché molti degli eccessi
compiuti in quel periodo sono stati addossati agli italiani.
La verità
è che tra truppe italiane e autorità croate nacque un vero e proprio conflitto,
nel quale, in appoggio ai croati, intervennero i tedeschi.
Forse
giocò anche questo elemento nel trasferimento del «Savoia Cavalleria» dallo
scacchiere jugoslavo al fronte russo.
L’ordine
di mobilitazione avvenne già il 21 giugno; ma gli altri reparti del Regio
Esercito rimasti in Jugoslavia proseguirono nell’opera di umanità.
Il loro
era compito fu persino proibitivo, perché la Resistenza che si sviluppò dopo la
resa delle truppe regolari fu articolata con fazioni contrapposte persino
all’interno della stessa popolazione di quel Paese; fu cruenta, feroce; ed
impose anche reazioni indispensabili, delle quali si parla senza tener mai
conto dei fatti che le avevano provocate.
Del resto,
per avere un metro di valutazione, basta considerare ciò che si sono fatti tra
di loro qualche anno fa, quando non avevano alcuna possibilità di attribuire la
responsabilità di eccidi ad altri.
In ogni
caso, il Regio Esercito proseguì nella propria opera di garanzia dell’ordine e
di difesa dei deboli.
Le
testimonianze al riguardo sono innumerevoli; su tutte, spicca una relazione di
Manachem Shelah, uno degli scampati all’eccidio degli ebrei in Dalmazia e
docente di storia contemporanea all’Università di Haifa, in Israele; relazione,
tradotta e pubblicata nel 1991, a cura dello Stato Maggiore dell’Esercito, con
il titolo «Un debito di gratitudine», che ha documentato il salvataggio in
Dalmazia, da parte del Regio Esercito, di 100.000 ebrei.
Ma, torniamo
al «Savoia Cavalleria».
La
partenza di questo reggimento per la Russia, inquadrato nella 3a Divisione
Celere «Principe Amedeo Duca d’Aosta», nell’ambito del C.S.I.R. prima e
dell’A.R.M.I.R. poi, avvenne il 26 luglio. Il viaggio si svolse in treno fino all’Ungheria;
e poi, attraverso i Carpazi, Bessarabia, Romania, a cavallo o a piedi.
L’11
agosto, il «Savoia Cavalleria» giunse in Ucraina e nei giorni successivi venne
schierato lungo l’argine del Dnjepr.
L’entrata
in azione dei nostri cavalleggeri - Savoia e Lancieri di Novara - avvenne con
l’autunno inverno 1941, in condizioni tragiche; ossia, con la gran parte dei
mezzi motorizzati del nostro esercito fermi per mancanza di carburante e,
pertanto, non in grado di assicurare i rifornimenti.
Il «Savoia
Cavalleria», tra gelo, neve, fango, era una delle pochissime unità mobili; e si
doveva portare tutto dietro autonomamente; spesso camminando, per non sfiancare
i cavalli, già gravati dal peso dell’armamento e che affondavano nel fango e
nella neve sino al ginocchio; diversi cavalli morirono per sfinimento.
Circa
1.500 km, tra Borsa e Stalino, molto spesso a piedi, di cui un terzo
combattendo, mangiando poco, il più delle volte rifornendosi con materiale e
viveri sottratti al nemico.
Diviso in
reparti, a volte a cavallo, a volte a piedi, il «Savoia cavalleria» prese parte
ad un incredibile numero di fatti d’arme, combattendo sempre eroicamente e
sempre uscendone vittorioso, ma sempre con gestione oculata delle risorse
materiali ed umane, che rappresentava anche una necessità strategica, dal
momento che le esigue forze, a tanta distanza dall’Italia, erano difficilmente
rimpiazzabili e non vi sarebbe stato il tempo per l’addestramento degli
eventuali rimpiazzi.
La
gloriosa carica di Isbuschenskij fu preceduta dalla conquista della zona
industriale di Rykovo; dalla rottura dell’accerchiamento, all’interno di
Nikitowka, dell’80simo Fanteria; dall’inseguimento per 250 km di imponenti
retroguardie sovietiche; dalla partecipazione alla conquista di importanti
centri, tra cui Stalino.
E siamo a
Insbuschenskij.
Non voglio
aggiungere nulla più dello stretto necessario alla descrizione di quella
carica, che ha più che del leggendario; mi limito, perciò, a leggere una
anonima ricostruzione del 1992:
«Al
galoppo con la sciabola sguainata. "Caricat!" ordina l’ufficiale.
«Savoia» rispondono urlando gli uomini dello squadrone. E si lanciano sulle
postazioni russe. Era la mattina del 24 agosto 1942 e tra i girasoli di
Isbuschenskij si chiudeva la storia della cavalleria. Con una carica ormai
leggendaria.
Sulle rive
del Don a decidere le battaglie dovevano essere i carri armati. Invece gli
italiani riuscirono a conquistare una delle rare vittorie della nostra
spedizione in Urss proprio con un’arma di altri tempi. La romantica, la più
affascinante, la più lontana dalla guerra moderna. II «Savoia cavalleria» si
era trovato accerchiato dall’avanzata delle truppe siberiane. Nella notte tre
battaglioni di fanteria lo avevano aggirato. I sovietici si erano nascosti tra
i girasoli. Ma all’alba una pattuglia nota qualcosa di sospetto. Un cavaliere
spara tra le piante. E, improvvisamente, i campi vengono animati dal fuoco di
2000 soldati russi.
Il
comandante, colonnello Alessandro Bettoni conte di Cazzago, non si perde
d’animo. Ordina al secondo squadrone di prepararsi alla carica, il sogno di
ogni cavaliere. Come nelle distese di Balaclava, come a Waterloo. Ma con più
attenzione ai pericoli delle mitragliatrici. Prima i 650 uomini del «Savoia»
bersagliano il centro dello schieramento sovietico. Poi lo caricano sul fianco.
Tra le truppe siberiane, sorprese da tanta audacia, è il panico. Vedono davanti
una scena incredibile. Una enorme nuvola di polvere che avanza. E in pochi
minuti si trovano sulle teste le sciabole degli italiani. Dopo il primo passaggio,
tra le linee nemiche, il reparto si riorganizza. E ripete l’assalto in senso
inverso, questa volta usando più le bombe a mano che le lame.
Il nostro
comandante intuisce il successo. La carica ha avuto il risultato psicologico
sperato. E lo sfrutta. Ordina ai due squadroni appiedati e al gruppo di
cannoncini di tenere sotto tiro i russi. E mentre gli avversari incominciano a
sbandare lancia alla carica il 3. squadrone. Di nuovo nella pianura si levano
le sciabole e risuona l’urlo di «Savoia». I battaglioni sovietici scappano.
Tra i
girasoli restano i corpi senza vita di circa 250 soldati russi. Altri 600 si
arrendono: la metà di loro è stata ferita dalla sciabole. In tutto il «Savoia»
conta 39 caduti, 53 feriti, e più di cento cavalli falciati dalle raffiche. Ma
è vittoria. Insperata, incredibile. E che ha effetti importanti per arginare lo
sfondamento dell’armata Rossa, salvando dall’accerchiamento intere divisioni
italiane e tedesche.
A
Isbuschenskij viene realizzato quello che non era riuscito nel 1939 ai lanceri
polacchi e, più tardi, sfortunati «Cavalleggeri di Alessandria». Caricare e
vincere.
Così si
chiude l’epopea della cavalleria. Una leggenda iniziata 5000 anni prima nelle
distese dell’Asia Minore e conclusa cinquant’anni fa (ora 64 anni fa) sul Don
proprio dalle sciabole del «Savoia cavalleria».
Non solo.
Ma quella carica consentì al «Savoia cavalleria» di catturare al nemico 3
cannoni anticarro, più uno distrutto; 4 mortai; 20 fucili anticarro; 4
mitragliatrici; 15 parabellum; 8 fucili mitragliatori; 170 fucili.
Ricordo
che qualche anno fa pubblicai il virgolettato su «L’Incontro», venne da me un
collega di lingua tedesca e mi disse di aver prestato il servizio di leva
proprio nel «Savoia cavalleria» e tenne a dirmelo, aggiungendo: «Sono di lingua
tedesca, ma confesso che quando ho letto l’articolo, mi è venuta la pelle
d’oca» e si sollevò la manica di giacca e camicia.
Per la
carica di Insbuscenskij, vennero conferite due sole medaglie d’oro, entrambe
alla memoria: al maggiore Alberto Litta Modigliani e al capitano Silvano Abba,
ferito due volte nella stessa carica, prima di cadere colpito a morte.
Furono
conferite una cinquantina di medaglie d’argento, tra cui quelle attribuite al
comandante Alessandro Bettoni di Cazzago; una ventina di medaglie di bronzo; un
certo numero di croci di guerra; e ci furono anche tre promozioni per merito di
guerra.
La
campagna di Russia e la carica di Isbuschenskij suscitarono entusiasmo tra gli
italiani, ammirazione nel mondo intero e meritò persino una rispettosa
citazione nel bollettino ufficiale dell’«Armata rossa» ed ispirò cartellonisti
come Beltrame e Pisani e pittori come Pagliani e Apolloni.
A quella
carica presero parte, tra gli altri, Massimo Gotta, figlio dello scrittore
Salvator Gotta, autore de «Il piccolo alpino», e Angelo Muller, di origine
altoatesina e decorato di medaglia di bronzo; vi perì il capitano Silvano Abba,
discendente dello scrittore Giulio Cesare Abba. Nella furiosa carica di
Isbuschenskij il comandante Bettoni vide uccidere sotto di sé due cavalli, ma
riprese la battaglia, saltando in groppa ad altri due destrieri rimasti senza
cavaliere.
Lo
stendardo del «Savoia cavalleria» fece rientro a Milano il 30 aprile 1943.
A seguito
degli eventi determinati dall’Armistizio, l’8 settembre 1943, il reggimento è
disciolto in Emilia ove è in corso di riordinamento.
Non
finirono l’eroismo ed il sacrificio degli uomini del «Savoia cavalleria»; un
reparto proseguì il proprio impegno sul crinale appenninico, nella speranza di
contrastare l’azione dei tedeschi in attesa dello sbarco degli alleati.
Diversi
cavalleggeri continuarono a combattere nella Resistenza; il tenente Franco
Vannetti Donnini (promosso capitano per meriti di guerra ad Insbuscenskij),
cadde falciato dai mitra nazisti nella difesa di Porta San Paolo a Roma,
all’indomani dell’8 settembre 1943.
Altri
ufficiali vennero internati in campi di concentramento nazisti.
Il gen.
Guglielmo Barbò di Casalmorano, comandante della celebre Scuola di cavalleria
di Pinerolo, morì nel campo di Flossenburg il 14 dicembre 1944.
Altri, per
non consegnarsi ai tedeschi, sconfinarono in Svizzera.
Il gen.
Alfonso Cigala Fulgosi, che dal 1942 era stato nominato comandante della piazza
di Spalato, dopo l’8 settembre rifiutò di cedere le armi ai tedeschi, dai quali
venne fucilato il 1° ottobre 1943; morì, rifiutando la benda per coprigli gli
occhi e gridando «Viva il Re, viva l’Italia».
Alla fine
della guerra il conte Alessandro Bettoni di Cazzago lasciò il servizio e volle
portare a Umberto II, erede del fondatore del Corpo, lo stendardo del «Savoia
cavalleria»; per questo suo gesto, venne privato della pensione e dell’indennità
della medaglia d’argento conquistata in quella stupenda carica. Non se ne
rammaricò e non rilasciò mai dichiarazioni al riguardo. Riprese la sua attività
di cavallerizzo e partecipò anche alle Olimpiadi di Londra, dove, quando venne
disarcionato nel superare un ostacolo, fece alzare in piedi tutto il pubblico -
inglesi in prima fila - e raccolse prima il deluso silenzio e poi
l’entusiastico applauso generale; come se il vincitore fosse stato lui, la
«leggenda di Isbuschenskij».
Si spense
a Roma, la sera del 28 aprile 1951, accasciandosi per un attacco cardiaco
durante il concorso ippico di piazza di Siena, al quale stava prendendo parte.
Intanto,
la storia del «Savoia cavalleria» riprese, molto contrastata, dopo la
conclusione del 2° conflitto mondiale.
Il 15
ottobre 1946 viene costituito il Gruppo Esplorante 3° Cavalieri al quale sono
assegnati colori, fregio e numero del disciolto Reggimento.
Il «Savoia
cavalleria» venne trasferito a Merano; ma quel nome dava fastidio ai «politici»
di allora e la denominazione del glorioso corpo il 18 febbraio 1950 venne
mutato in «Gorizia cavalleria»; perché l’ignominia fosse rimediata con il
ripristino dell’originaria denominazione, bisognò attendere il 4 novembre 1958.
A Merano
si spense, il 21 ottobre 1960, l’ultimo superstite dell’ultima carica della
storia; il cavallo Albino, amata «mascotte» di veterani e reclute, ora
imbalsamato; era suo compagno inseparabile il minuscolo somarello Mariolino; e
chissà con quanta amarezza avranno insieme sorriso della piccineria di chi
aveva cercato, con quel cambio di denominazione del corpo, di far dimenticare
al popolo italiano una delle sue più fulgide pagine di storia...
A seguito
della ristrutturazione dell’Esercito, l’11 ottobre 1975, che vide la
soppressione del livello reggimentale, l’unità si riordinò in 3° Gruppo
Squadroni Corazzato «Savoia Cavalleria» formato in Merano con personale del
disciolto reggimento.
Il 23
maggio 1992 il «Savoia cavalleria» venne ricostituito in Reggimento e dal 1995
trasferito a Grosseto.
Ancora
qualche annotazione.
Questo
Corpo ebbe Comandanti ed ufficiali illustri; tra l’altro, anche due cugini di
Vittorio Emanuele III: il conte di Torino, che sfidò e batté in duello il duca
d’Orleans, francese; e il duca di Bergamo; ed ebbe, come comandante anche Luigi
Napoleone, figlio di Gerolamo Bonaparte e della principessa Cristina di Savoia.
Tra i suoi
comandanti, ebbe anche il maggiore Giovanni Arrighi, che il 15 ottobre 1946
ebbe il compito di comandare il Gruppo Esplorante 3° Cavalieri, ricostituzione
del «Savoia cavalleria».
Era nato a
Sassari il 14 luglio 1913; a 36 anni, nel 1950, fece professione di fede
nell’Ordine domenicano; divenne sacerdote nel 1953.
Lettore in
teologia, insegnò per qualche tempo a Bologna; nel 1956 fu inviato con il grado
di Superiore a Bolzano. Qui, essendosi reso conto che molti, nel periodo estivo
preferivano le gite alla chiesa, cominciò a frequentare coloro che chiamava i
«lontani», per parlare di fede e di Dio. Nacque così, da lui creata, la
«pastorale del turismo».
Su questo
tema, padre Arrighi scrisse un libro «Cristo tra i lontani».
Il
Concilio «Vaticano II» fece suo questo nuovo campo d’azione; padre Arrighi
venne chiamato a Roma e nominato funzionario della Segreteria di Stato e
rappesentante della Santa Sede per la Pastorale delle Migrazioni e del Turismo.
Padre
Arrighi insegnò nelle Università del Laterano e di San Tommaso.
Si spense
a Milano il 5 settembre 1986, all’età di 73 anni, dopo 33 anni di sacerdozio;
poco prima della dipartita, era stato nominato tenente colonnello di Cavalleria;
e ne fu commosso.
Ma perché,
sentendo il richiamo della fede, scelse proprio l’ordine Domenicano?
Non so se
l’abbia mai spiegato. C’è, però, una coincidenza. Umberto II era Terziario
Domenicano ed ebbe un ruolo importante nella realizzazione della Chiesa di
Cristo Re a Bolzano.
Dopo un
po’ che la costruzione era iniziata, finirono i soldi ed il Governo si rifiutò
di integrare la spesa inizialmente stanziata. I frati si rivolsero allora al
Principe ereditario, che inviò la somma necessaria, staccandola dal proprio
patrimonio personale.
I frati
vollero ringraziare il principe facendo affrescare la parete a sinistra
dell’Altare per chi guarda, con una pala con la raffigurazione dei Beati di
Casa Savoia. L’incarico venne affidato a Franz Lenhart, il quale, in un eccesso
di zelo, inserì nell’affresco anche lo stesso Umberto di Savoia, il quale,
quando lo seppe, telefonò direttamente al pittore e gli disse: «Guarda che io
non sono ancora morto; tirami via di lì»; e, poiché Lenhart gli obiettò che
sarebbe rimasto uno spazio vuoto, Umberto di Savoia replicò: «Se proprio vuoi,
ti dò due zie di Naoli, appena create venerabili». E così avvenne.
Waldimaro Fiorentino
Waldimaro Fiorentino
Nessun commento:
Posta un commento