NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 5 giugno 2016

Qualche puntino sulle “i” tra politica e storia, da Sabino Cassese a Corrado Augias

A margine delle celebrazioni del 2 giugno

a cura di Salvatore Sfrecola e Domenico Giglio

Capisco e comprendo l’esigenza delle autorità pubbliche di ricordare il 70° delreferendum istituzionale e l’enfasi che l’ha accompagnata, ma ritengo che buon gusto e rispetto della verità storica avrebbero imposto parole più sobrie, almeno nelle parole, soprattutto rivolte al futuro del nostro Paese. Invece molti, troppi, hanno scelto la strada della rievocazione delle vicende politiche precedenti il 1946 travisando o ignorando fatti, spesso in modo cialtronesco, denigrando in tono non di rado volgare personaggi della storia italiana probabilmente nell’intento di costruire una narrazione edulcorata che facesse risultare ineluttabile il risultato referendario e pertanto sorretto consapevolmente dalla maggioranza degli italiani. Nonostante i tanti “dubbi” e le molte certezze ed a tacere del clima di intimidazione e di violenza che in alcune aree del Paese impedirono l’espressione del voto a persone notoriamente di fede monarchica. Da pochi giorni è nelle librerie il contributo documentatissimo dello storico Aldo A. Mola (“Il referendum Monarchia-Repubblica del 2-3 giugno 1956 – Come andò davvero?”, BastogiLibri) che segnala brogli, sbagli, pasticci. Ricorda anche che tre milioni di italiani non hanno avuto la possibilità di  votare.
È accaduto altre volte nella storia che il “vincitore” abbia voluto incoronare il proprio successo enfatizzando talune circostanze, minimizzandone altre, spesso denigrando chi aveva perduto, trascurando si considerare che svilire l’“avversario” inevitabilmente riduce anche il senso della vittoria. Nel nostro caso, trattandosi di una consultazione dagli esiti contestati, e che comunque hanno spaccato l’Italia in due, sarebbe stato politicamente più civile guardare soprattutto al dopo con senso di responsabilità nei confronti della società uscita da una guerra devastante e coinvolgere tutti in una prospettiva di superamento della crisi economica e sociale che ne era seguita.
È così che abbiamo garbatamente fatto presente al Capo dello Stato su questo giornale che la sua intervista al Corriere della Sera del 2 recava talune imprecisioni storiche che sarebbe stato bene evitare.
Ugualmente il Professore Sabino Cassese, già giudice costituzionale, l’unico che, nella storia della Consulta, contravvenendo ad uno stile sempre serbato da chi aveva svolto quell’alta funzione, ha consegnato ad un testo (“Dentro la Corte – Diario di un Giudice costituzionale”, Il Mulino, 2015) critiche all’attività dell’alto consesso nel quale ha operato per nove anni, ripresa la libertà di scrivere ha voluto svolgere, ancora sul Corriere del 2 giugno (Le stelle sono ancora molto lontane?), considerazioni varie sulle prospettive che si erano prefissi, a suo dire, coloro che avevano propugnato la scelta repubblicana. Inizia chiedendosi se “sono state soddisfatte le attese e le promesse fatte settant’anni fa, quando gli italiani votarono e scelsero la Repubblica?”, quando, “disfatto lo Stato monarchico e fascista … il popolo fece sentire la propria voce scegliendo la Repubblica”. Aggiungendo che “per vent’anni non erano state consentite libertà di parola e di associazione … Per cent’anni, la scuola era rimasta classista, con corsi separati per i figli della borghesia, e per quelli degli operai e contadini, e all’assistenza sanitaria avevano avuto diritto gli iscritti alle «mutue». Nel 1962 fu introdotta una scuola media unica e nel 1978 fu istituito il Servizio sanitario nazionale, aperto egualmente a tutti”.
Mi limito ad alcune considerazioni generali, lasciando all’amico Ing. Domenico Giglio, che da alcuni anni arricchisce questo giornale con proprie considerazioni di carattere storico politico, alcune puntualizzazioni sulla scuola.
Il Professore Cassese, che è persona colta nel diritto pubblico e segnatamente nell’amministrativo, non può confondere lo stato monarchico con quello fascista né assegnare a gloria della Repubblica, come se l’Italia venisse dal nulla, talune riforme di carattere economico e sociale, come la riforma sanitaria, che tutti oggi sono convinti sia stato un errore attribuire alla competenza delle regioni con tutto il seguito di disfunzioni, sprechi e corruzione che giornalmente ci segnalano i mezzi d’informazione. Perché gli è ben noto che l’Italia, nel decennio giolittiano, aveva già sperimentato importanti riforme sociali che l’avevano collocata all’avanguardia tra i paesi continentali.
Ciò mentre i “forti divari” che “L’Italia unificata aveva accettato … al suo interno” vanno contestualizzati, come ogni storico degno di questo nome sa che va fatto per non apparire fazioso (uomo di fazione). Mentre al giurista, com’è il Professore Cassese, non può sfuggire re melius perpensa, come scrivono coloro che hanno letto le Pandette, che è certamente azzardato affermare che “Internet è divenuto un formidabile strumento per assicurare la trasparenza della gestione pubblica”. Magari usando un condizionale (potrebbe diventare) avrebbe preso meglio le misure in una materia nella quale l’Italia è fortemente deficitaria, tanto da collocarsi molto indietro nella graduatoria, redatta da Transparency International, dei paesi dove la corruzione percepita è più alta. E meno sentita l’etica pubblica.
Così denuncia disfunzioni politiche ed amministrative, la “lentissima attuazione” della Costituzione, quanto alla Corte costituzionale che cominciò la sua attività solo nel 1956, alla elezione dei consigli regionali avvenuta nel 1970. E, poi, “le degenerazioni del parlamentarismo”. Ma se abbiamo avuto 63 governi – l’argomento di Renzi a sostegno dell’Italicum e “il Parlamento fa troppe leggi e rinuncia ad esercitare la sua funzione di controllo del governo”, questo non è forse responsabilità dei partiti e dei loro gruppi parlamentari? E non si chiede, lui che apertamente propende per il SI, se, con una legge elettorale che assegna al partito di maggioranza, che è comunque una minoranza nel Paese, il dominio della Camera, quel controllo sul governo che evidentemente auspica sarà ancora possibile.

Lascio la parola a Domenico Giglio, in una lettera all’Ambasciatore Sergio Romano, che cura la rubrica le lettere sul Corriere, per poi riprenderla a proposito di quel che ha scritto Corrado Augias.
“Io ed il Prof. Cassese
Egregio dr. Romano, ho letto con interesse l’articolo di fondo, del 2 giugno del prof. Cassese e mi sembra di aver vissuto, qui a Roma, forse diversa dalla terra natale del professore, una vita dissimile da quella descritta nell’articolo, con la scuola divisa per ricchi e poveri, quando ricordo invece figli di portieri che studiavano insieme con i figli dei padroni di casa, e se poi la scuola media unica risale al 1962, cosa era quella scuola media che ho frequentato dal 1942 al 1945? E se i Sindaci erano soggetti al controllo statale e non liberi, vorrei mi fosse spiegato come mai Roma avesse avuto un Sindaco di nome Nathan, massone, e Milano, Caldara, socialista, che operarono liberamente ed ancora oggi sono ricordati e portati ad esempio per le realizzazioni compiute durante il loro mandato ?
In Italia libertà e democrazia non sono nate nel 1945, come affermò Parri al quale ben rispose Benedetto Croce, demolendo questa tesi, ma se furono obnubilate per diciotto anni, dal 1925 al 25 luglio 1943, ormai sappiamo bene di chi furono le vere responsabilità, dai popolari ai socialisti, i primi perché impedirono il ritorno al governo di Giolitti, per poi entrare nel governo Mussolini, e gli altri per il loro massimalismo, ed il rifiuto della strada riformista, auspicata dallo stesso Sovrano.
Distinti saluti
(un semplice e modesto) dr. ing. Domenico Giglio”

E veniamo a Corrado Augias
Su La Repubblica, 1 giugno 2016 (Ciò che vidi il 2 giugno, a pagina 28) risponde ad un anonimo lettore (“lettera firmata”, una formula che spesso nasconde lo stesso autore della risposta che confeziona a proprio uso un argomento che magari nessuno gli ha segnalato) che scrive: “Di una cosa non sono mai stato certo: quanto gli italiani, la maggioranza degli italiani, abbiano imparato ad apprezzare l’idea di essere cittadini di una repubblica che vuol dire la cosa pubblica cioè la cosa di tutti. Alle volte mi chiedo se qualcuno o molti non preferirebbero ancora oggi che in quel 2 giugno di settant’anni fa avesse vinto la monarchia”.
Augias esordisce rassicurando il lettore (o se stesso). Egli, infatti, ritiene che “siano trascurabile minoranza gli italiani che preferirebbero vivere oggi sotto una monarchia per almeno un paio di ragioni, una di buona lega, l’altra un po’ meno. La prima è che gli ultimi eredi Savoia hanno dato una così mediocre prova di sé da far ritenere di gran lunga preferibile il più modesto o molesto degli uomini politici; nessuno di loro è lì per ragioni ereditarie quindi prima o poi torna a casa mentre un cattivo re siede sul trono a vita”. Argomenti già in uso, stantii, che non mette conto commentare.
Ma dove il Nostro raggiunge l’apice della sua arroganza e ignoranza storica è quando così prosegue: “ci vollero la sconfitta e la fuga per far abdicare un re come Vittorio Emanuele III, pessimo fin dall’inizio, sgradevole d’aspetto e di cattivo carattere”. E qui mi fermo perché il resto è un tripudio, neppure troppo convinto, della scelta repubblicana, considerato, come scrive, che “non siamo stati capaci di mettere l’idea al centro della nostra identità nazionale”. Una frase buttata lì come fosse poca cosa non sentire collegata identità e forma di stato.
Ma veniamo alle banalità su Vittorio Emanuele III. Quelle parole confermano la supponenza del giornalista-scrittore che tutti hanno potuto verificare specialmente nelle più recenti apparizioni televisive. Di qualunque cosa discetta e insegna, anche di costituzione, che pure in un recente intervento a DiMartedì confessava di non aver ancora letto.
E veniamo all’accusa della “fuga”, un’ossessione che unisce dall’8 settembre 1943 sinistri e repubblichini, una colossale balla storica. Di recente in un convegno ho sentito dire che, durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre molti re e presidenti di repubbliche erano fuggiti in Inghilterra all’atto dell’occupazione tedesca dei propri stati, Vittorio Emanuele III era “fuggito in Italia”, cioè aveva portato la Corona nell’unica parte del territorio nazionale libera dai tedeschi e non ancora occupata dagli Alleati anglo americani. Un atto necessario, responsabile perché solo lui aveva la legittimazione a trattare con gli alleati ed a rappresentare lo Stato. Aveva lasciato Roma, indifendibile sul piano militare, anche per evitare che la più bella città del mondo, là dove il diritto e le istituzioni della politica hanno preso forma diventasse un cumulo di macerie. Montecassino insegna. Inoltre la stessa Santa Sede aveva fatto discretamente pressioni perché il sovrano lasciasse la capitale, ad evitare che divenisse un campo di battaglia per tedeschi e alleati. Scrive Antonio Spinosa (Vittorio Emanuele III – L’astuzia di un Re”, Arnoldo Mondadori, 1990) che “come Pompeo inseguito da Cesare, così lui, tallonato dagli eserciti di Hitler, aveva portato altrove le insegne dello Stato legittimo per sottrarle al nemico”.
E con questo ci auguriamo che coloro che sono in buona fede, anche se repubblicani arrabbiati, abbandonino questo argomento polemico ripetuto pedissequamente senza alcuna ulteriore, seria riflessione.
Re pessimo “fin dall’inizio” scrive Augias. Dovrebbe dirlo a Mario Missiroli (“Monarchia socialista”, un testo che come osserva Francesco Perfetti nell’introduzione alla più recente edizione (Le lettere) che “ha avuto una influenza non secondaria nella discussione sulle caratteristiche del Risorgimento, in particolare nella linea che da Gobetti giunge fino allo Spadolini di ‘Il papato socialista’”). E dovrebbe contestare quanti hanno nel tempo lodato un sovrano che, all’indomani dell’uccisione del padre, il re Umberto I, chiuse la bocca a coloro che auspicavano vendette e repressioni ed avviò la stagione delle riforme sociali con Giovanni Giolitti, riforme a tutti note, un esempio nell’Europa del tempo. Appena insediato disse a Saracco che desiderava esaminare le carte prima di firmarle (non si era mai fatto) aggiungendo che “d’ora in poi il re firmerà soltanto i propri errori, non quelli degli altri”. Il vecchio Presidente del Consiglio si sentì offeso e manifestò l’intento di dimettersi. Il Re lo convinse a rimanere con un discorso “di metodo”.
All’atto di assumere le funzioni di Re scrisse di suo pugno il suo discorso agli italiani. Sapeva maneggiare la penna. Disse, in una delle prime occasioni, che “monarchia e parlamento avrebbero proceduto solidali nella rigorosa applicazione delle leggi”. Consigliò al governo di aprire ai sindacati. E fu Giolitti, lo sviluppo economico e sociale, il pareggio del bilancio, l’introduzione del suffragio universale maschile e l’istituzione del monopolio statale delle assicurazioni sulla vita.
Durante la Prima Guerra Mondiale fu costantemente al fronte e, dopo Caporetto, a Peschiera, nel corso di un incontro con gli stati maggiori degli eserciti alleati, difese con successo l’onore del soldato italiano contrastando le tesi pessimistiche del primo ministro inglese Lloyd George e del Maresciallo francese Ferdinand Foch spiegando loro, in inglese e francese, quale fosse la strategia che avrebbe consentito all’Esercito di riprendere l’iniziativa contro gli austro-tedeschi. Ed è proprio Lloyd George a dirci che era stato colpito “dalla calma e dalla forza” del Re. Aggiungendo che “non tradì alcun segno di timore e di depressione. Pareva ansioso solamente di cancellare in noi l’impressione che il suo esercito fosse fuggito, e trovava mille scuse e giustificazioni per quella ritirata”. Fu il protagonista di quella giornata, come riferisce Vittorio Emanuele Orlando, Presidente del Consiglio, al quale aveva detto, entrando nella sala dove si svolse la conferenza, una squallida scuola elementare, sede d’un comando di battaglione: “sulla situazione militare desidero esporre e discutere io solo”  E fu sempre a Peschiera che, quando Orlando sottopose alla sua firma il testo di un messaggio da inviare alla Nazione in quel tragico frangente ne modificò l’incipit catastrofico (“Un’immensa sciagura ha straziato il mio cuore di Italiano e di Re”). Preferì scrivere “il nemico, favorito da uno straordinario concorso di circostanze… “ per concludere con un appello: “si risponda con una sola coscienza, con una voce sola: tutti siam pronti a dar tutto per la vittoria e per l’onore dell’Italia”.
Che fosse “sgradevole d’aspetto” non spetta a me giudicare, come del suo carattere. Ma era certamente un capo di stato geloso custode della legge, a volte formalista. Molti avrebbero voluto che mettese in atto un colpo di Stato e non dare l’incarico di formare un governo a Benito Mussolini. Sono gli stessi che respinsero l’ipotesi di un governo Giolitti, liberali, cattolici, socialisti, incapaci di assumersi delle responsabilità. Ma nel governo Mussolini entrarono. Mai diedero al Re quel “fatto costituzionale” che il Sovrano sollecitava. E quando il Re il 25 luglio congedò Mussolini tornarono a parlare di colpo di stato. L’incapacità dei politici che prima e dopo il fascismo hanno lasciato solo il Re costituzionale evoca presunti errori del Re per nascondere la propria irresponsabilità.
Fu un uomo affezionato alla famiglia, un esempio per gli italiani. Studioso di numismatica ha lasciato un’opera che tutti ammirano, il Corpus Nummorum Italicorum, di monete diligentemente descritte di suo pugno. Le ha donate allo Stato all’atto della propria abdicazione con una breve lettera a De Gasperi. A quello Stato che ha avocato a se tutti i suoi beni personali del Re e quelli dei discendenti maschi (XIII disposizione transitoria della Costituzione), un gesto miserevole nei confronti dell’erede di una famiglia che ha unificato l’Italia il cui ultimo Re, Umberto II, dopo il referendum, ha lasciato Roma evitando che l’Italia cadesse in una guerra civile. Nessuno gli è stato grato. Sarebbe stato un gesto signorile, almeno a distanza di 70 anni. Ma Signori si nasce, diceva Totò.
La verità storica non è monarchica o repubblicana, è solamente verità e chi la riconosce dà dimostrazione di intelligenza e di onestà intellettuale.
5 giugno 2016

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