DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA 2-19 GIUGNO 1946
L'IMMENSA MATASSA DI BROGLI E PASTETTE
CHI VINSE DAVVERO AL REFERENDUM DEL 2-3 GIUGNO 1946?
Il 2 giugno è trascorso sottotono. Sarà la
vigilia delle votazioni, sarà il tempo incerto, sarà che i cittadini sono stufi
di annunci e di promesse, di proclami e di esortazioni. Sarà che sul cambio
istituzionale del giugno 1946 ancora gravano dubbi e ombre tuttora senza
risposte chiare. Documenti alla mano, ne scrive il nostro editorialista. FuBa
di Aldo A. Mola
Le
votazioni: imbrogli bene ordinati
Le votazioni sulla forma dello Stato
(referendum) e l'elezione dell'Assemblea Costituente iniziarono la mattina del 2 giugno 1946 e
si protrassero sino alle 12 del 3. Gli scrutini dovevano chiudersi entro 48
ore. Lo spoglio iniziò dalle schede del referendum, più semplice e con meno
contestazioni rispetto alla votazione della Costituente, che vide in lizza 51
partiti (dai nomi e dai simboli fantasiosi, incluso l'Asinello del Movimento Lavoratori Indipendenti), 32 dei quali collegati al Collegio Unico Nazionale. Inizialmente
la monarchia risultò in vantaggio, come la mattina del 4 il presidente del
Consiglio dei Ministri, De Gasperi, comunicò al ministro della Real Casa,
Falcone Lucifero. Lungo il giorno i dati furono aggiornati col contagocce.
Nelle Memorie Romita narrò di aver
affrontato la notte peggiore delle sua vita. La monarchia rimaneva in
vantaggio. Tuttavia proprio tra il 4 e il 5, “la notte degli imbrogli”, la
repubblica balzò inaspettatamente in testa. Lo storico Franco Bandini ha
narrato che, per avere dati in anteprima, il “Corriere della Sera”, nella cui
redazione lavorava, aveva assoldato i bidelli delle scuole milanesi adibite a
seggi. In cambio di una modesta mancia, essi comunicarono i risultati a
scrutini appena conclusi. Così la sera del 4 al “Corriere” si seppe che anche a
Milano la monarchia era in testa. Scuro in volto, il direttore Mario Borsa,
esponente del partito d’azione e fiduciario del CLN, si chiuse nel suo ufficio.
Il 5 mattina l’ultima pagina del quotidiano annunciò la vittoria della
repubblica. Un anonimo cronista vi narrò che alle due di notte Romita aveva
informato Togliatti, ministro della Giustizia: scrutinati 20 milioni di schede,
la repubblica stava vincendo. Togliatti dichiarò al “Corriere”: “Avevamo un
solo scopo, quello di fare la repubblica”. Previde la vittoria con uno scarto
di due milioni di voti perché “negli ambienti di sinistra si considera che il
10% dei democristiani ha votato per la repubblica”. La somma delle parole sue
con quelle di Romita hanno alimentato la leggenda sulla Grande Frode: due
milioni di voti estratti da un misterioso “cassetto” e buttati sulla bilancia
della storia. Ne hanno scritto tanti, con elucubrazioni fantasiose. Se mai
fosse avvenuto, quel gigantesco broglio avrebbe avuto conniventi centinaia di persone. Qualche traccia e/o
rivelazione ne sarebbe affiorata in un paese incapace di riserbo, corrivo a
vendere ricordi a destra e a manca. In realtà
il mito della Grande Frode fece comodo alle sinistre: diceva che essi
sono capaci di tutto e servì a terrorizzare i loro avversari; ma fu di conforto
anche ai monarchici per giustificare a se stessi la propria sconfitta. La
generalità degli “storici” si è fermata sulla soglia della partita conclusiva:
il conteggio finale di tutti i voti espressi (incluse le schede bianche, nulle
e contestate) chiesta dal presidente della Corte suprema di Cassazione,
Giuseppe Pagano, il 10 giugno per il 18 seguente. Nel suo saggio 2 giugno 1946.La battaglia per la
Repubblica (ed. dal “Corriere della Sera” lo scorso 1 giugno), con errori e
lacune e scritto con inchiostro velenoso nei confronti di Vittorio Emanuele
III, anche Dino Messina chiude gli occhi
sull'immensa documentazione sui giorni conclusivi, il 2-17 giugno.
Senza attendere né verifiche né conferme,
dalla mattina del 5 giugno i quotidiani
d’informazione annunciarono la vittoria della repubblica. Subito Umberto II
invitò la regina Maria José a lasciare il Quirinale per Napoli e salpare con i
figli verso Lisbona sullo stesso incrociatore “Duca degli Abruzzi” appena
rientrato da Alessandria d’Egitto, ove aveva portato Vittorio Emanuele III e la
regina Elena: una decisione che a molti monarchici parve una resa prima della
battaglia finale. Alle 10,30 dello stesso giorno Umberto II ricevette De
Gasperi e il sottosegretario alla presidenza, on. Giulio Andreotti,
ventiseienne. De Gasperi si dichiarò “dolorosamente sorpreso” del risultato, ma
al socialista Nenni fece notare invece orgogliosamente che il suo Trentino era fra le province in vetta per
preferenze repubblicane. Egli stesso l’aveva votata.
Dal 6 il Re iniziò al
Quirinale il mesto rito degli addii. Il 7 andò in udienza privata da Pio XII.
Che cosa avrebbero fatto gli
anglo-americani dinanzi alla ipotetica insurrezione dell’estrema sinistra,
appoggiata da truppe jugoslave di Tito, contro la decisione di Umberto II di
temporeggiare? Non sarebbero rimasti a guardare. Secondo l’ammiraglio Robert
Dennison, comandante della portaerei “Missouri”, quando il presidente Harry
Truman fu informato che il dittatore comunista della Jugoslavia Tito si
preparava ad attaccare militarmente Trieste stava giocando a carte. Senza
neppure alzare gli occhi, egli sibilò: “Dite a quel figlio di puttana che dovrà
farsi strada a fucilate”. A parte i comunisti jugoslavi, su quali forze
effettive contavano le sinistre estreme? La minaccia di un loro assalto armato
al potere non ha seri fondamenti ma trovò credito. Fu un eccellente alibi per
tante piccole “rese senza condizioni”, per una serie di viltà.
Il
caos della verifica dei voti: un referendum nullo?
Dall’8 giugno 1946 i verbali
redatti dagli Uffici elettorali circoscrizionali insediati presso le Corti
d’Appello affluirono all'Ufficio elettorale centrale. Ai plichi si aggiunsero
sacchi di verbali dei singoli seggi, registri dei voti e montagne di ricorsi.
Un’alluvione di carte inviate con auto, furgoni, voli speciali e scaricate in
fretta e furia. Plichi e sacchi passarono di mano in mano, talora alla rinfusa.
Era fatale che alcuni perdessero ceralacca, piombi e cordicelle e risultassero
infine aperti. Tutto scontato e accettabile, se l’esito fosse stato netto e
chiaro dall’inizio, in un senso o nell’altro. Ma così non fu.
Nella seduta delle ore 18 di
lunedì 10 giugno il presidente della Corte suprema di cassazione, Giuseppe
Pagano, fece enumerare i risultati a quel momento accertati e li comunicò.
Mancavano quelli di 114 sezioni (in realtà provvisori in realtà erano
migliaia). Rinviò la seduta al 18 seguente, ultimo giorno consentito dal DLL
per l'annuncio finale. Non era affatto disposto a fare da killer della monarchia, né, meno ancora, da
stuoino di Togliatti. Avvertì che avrebbe comunicato anche il numero delle
schede bianche e nulle, il cui computo sino a quel giorno rimaneva ignoto.
Bisognava rifare tutti i conti, mentre incombevano 21.000 ricorsi sugli esiti
di altrettanti seggi e quelli sulla legittimità stessa del referendum appena
celebrato.
Accanto alla “partita
politica” si aprì quella legale per conferire dignità formale all’esito del
referendum. Per un paio di giorni la questione fu rovente. Come ha documentato
Aldo G. Ricci nell'edizione dei Verbali del Consiglio dei ministri (10 volumi
in 13 tomi), la disputa rese incandescenti le riunioni del governo. Nella
seduta dello stesso 10 giugno, il democristiano Giovanni Gronchi riferì d’aver
accertato che in molti verbali mancava l’indicazione dei votanti. Dal canto suo
Togliatti ammise che i ricorsi potevano “anche richiedere l’esame delle schede
che, tra l’altro, non sono qui (a Roma n.d.a) e forse sono distrutte”. Aggiunse
che non era possibile indicare le schede nulle. Infatti, i moduli per la
raccolta dei voti comprendevano due sole voci: monarchia e repubblica. Perciò,
egli concluse, “non si può parlare di 400-500.000 schede nulle”. Per venirne a
capo, su mandato di Togliatti il magistrato Saverio Briganti guidò duecento
funzionari e impiegati del ministero della Giustizia a sbrogliare il gomitolo
dei ricorsi e, soprattutto, del ricalcolo dei voti.
Il fondo Suprema Corte di Cassazione conservato
all'Archivio Centrale dello Stato documenta le migliaia e migliaia di brogli,
pasticci, proteste sollevate sin dal 2-3 giugno e la concitazione delle
verifiche: fra il 12 e il 17 giugno le somme vennero fatte e rifatte. Su fogli
malamente predisposti, con un tratto di penna o di matita vennero separate le
caselle R(epubblica) e M(onarchia) e si fece spazio al numero delle schede
nulle (non furono previste caselle per bianche, contestate e non assegnate). Un
brogliaccio annotò l'ora di avviamento dei dati finali alle macchine
calcolatrici e della loro restituzione, senza alcun ordine razionale, man mano
che affluivano all'apposito filtro. Sulle strisciate delle calcolatrici furono
effettuate laboriosissime somme, annotate a matita. I documenti più
impressionanti sono però i verbali degli Uffici circoscrizionali. Se ne evince
che il 17 giugno mancavano i dati esatti di migliaia di sezioni (o perché non
pervenuti o perché contestati), anche dell'Italia centro-settentrionale e del
Trentino del democristiano De Gasperi, che in Umberto II vedeva il discendente
di Vittorio Emanuele II, usurpatore dello Stato Pontificio, il nipote del
“libertino” Umberto I e il figlio dell'agnostico Vittorio Emanuele III.
La ratifica del colpo di
Stato
Se l'Italia aveva votato con
un certo ordine, lo scrutinio e la verifica dei verbali avvenne nel caos. In
seduta notturna il governo proclamò la vittoria della repubblica e dichiarò
festivo martedì 11. Ma nessuno lo seppe
né se ne valse. Dinnanzi alla prevaricazione del governo molti cittadini
si mossero nella convinzione che la Corona non è patrimonio esclusivo del
sovrano bensì costituisce l’anello del patto statutario tra il Re e la nazione.
I cittadini difendono le istituzioni anche senza sollecitazioni del sovrano
(potrebbe essere assente, fisicamente impedito, insano di mente, di minore età,
prigioniero...). Perciò dal 10 giugno iniziarono manifestazioni di massa di
monarchici militanti, convinti di interpretare la volontà inespressa del Re e,
comunque, di dire la loro dinnanzi alla storia. A Napoli dettero miccia per
lancio di bombe a mano, colpi d’arma e scontri tra forze dell’ordine e
popolani. Si contarono morti e feriti, recentemente liquidati da Napolitano
Giorgio come “popolino monarchico isterizzato”.
Alle 0.30 di giovedì 13
giugno il governo conferì al presidente del Consiglio le funzioni di capo dello
Stato. Dopo una notte convulsa, scartate altre opzioni, Umberto II decise di
lasciare il suolo patrio senza riconoscere il “fatto compiuto”, attuato in
violazione della legge, né, quindi la proclamazione dei risultati. Alle ore 17 di martedì 18 giugno la Suprema
Corte tenne l’attesa seduta per la pronuncia sul ricorso fondamentale. Il
Procuratore Generale, Massimo Pilotti, spiegò che per “votanti” s’intende, come
tutti sanno, quanti si recano ai urne. Si contano sulla base delle schede
votate, incluse bianche, nulle e contestate. Messa ai voti, la sua conclusione
venne approvata da sei giudici e
respinta da 12. Per ultimo, il presidente Pagano scandì: “Io voto in conformità
dell’avviso espresso dal Procuratore generale”. Votò secondo ragione. La
salvaguardia della propria dignità ebbe la meglio su ogni preoccupazione di
carriera.
L'ombra lunga della
vittoria troppo risicata.
Il giorno dopo uscì il n. 1
della “Gazzetta Ufficiale” della Repubblica italiana. Fino al giorno prima
tutti gli atti pubblici continuarono a essere emessi in nome del Re. Posto che
sia da festeggiare, la Repubblica non nacque il 2 ma il 19 giugno: col consenso
del 54% dei voti validi, del 50% dei votanti e del 45% degli elettori.
La pronuncia della Corte
suprema di cassazione rese irrilevante ogni ulteriore contestazione: sarebbe
stato facile documentare errori e brogli piccoli e grandi per almeno 250.000
voti, provando così la nullità del referendum. Però nessun Paese può rimanere
troppo a lungo sulla graticola della scelta istituzionale senza bruciarsi
irrimediabilmente. Fu Umberto II a recidere il nodo con la partenza dal suolo patrio.
Lasciò l’Italia da Re, fiducioso del rispetto della legalità. Invece la Costituente, a colpi di maggioranza,
criminalizzò Casa Savoia (i re e i loro discendenti maschi vennero condannati
all'esilio) e chiuse in un ghetto undici milioni di voti di monarchici piegati
alla pax republicana,
discriminati, irrisi da quanti non capiscono che essi erano tutt'uno con la
grande storia d'Italia. Infine la Repubblica si blindò con 'art. 139 della
Carta esclude la revisione costituzionale della forma dello Stato.
Alla morte Umberto II volle
con sé i Sigilli Reali, ma non chiuse nel feretro la monarchia. Come insegnò il
principe dei giuristi costituzionalisti repubblicani, Giandomenico Romagnosi,
“ogni generazione ha diritto di darsi la forma di Stato che preferisce”. La
Repubblica ha per emblema un ghirigoro di difficile interpretazione, nato da un
modesto bozzetto dell'incisore Paolo Paschetto già apprezzato da Benito
Mussolini, ed è tuttora è priva di un inno nazionale. Nata minoritaria, vive in
affanno, divisa come non mai, lontana dalle speranze aperte il 14 marzo 1861.
L'Italia merita sorti all'altezza della sua storia. A ottobre i suoi cittadini
saranno chiamati a difendere la Carta stravolta da una maggioranza parlamentare
esigua e raccogliticcia. Per quanto paradossale, anche tanti monarchici si
batteranno per conservare questa Costituzione, che ha tanti difetti ma almeno
su un principio è chiara: la sovranità appartiene al popolo, quello che votò le
annessioni del 1848-1870 e che il 2-3 giugno 1946 andò alle urne per decreto
firmato da Umberto di Piemonte, Luogotenente del regno d'Italia. (*)
Aldo A. Mola
(*) La documentazione
analitica dei brogli e del caos nel quale avvenne la “verifica” dei verbali fra
il 13 e il 17 giugno 1946 è in Aldo A. Mola, Il referendum
monarchia-repubblica del 2-3 giugno 1946, pref. di Maria Gabriella
di Savoia (Ed. Bastogi Libri, 2016).
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