NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 9 giugno 2016

I referendum spianano la via ai regimi

Settantesimo del  2-19 giugno 1946

                                                    I REFERENDUM DIVISIVI
                                    POSSONO SPIANARE LA STRADA AI REGIMI
                                      
Il 2-3 giugno 1946 italiane e italiani furono chiamati a scegliere tra monarchia e repubblica e a eleggere l'Assemblea Costituente. I risultati delle votazioni furono e rimangono molto discussi. Misero in evidenza la profonda differenza tra le regioni del Mezzogiorno e le isole, prevalentemente e talora nettamente monarchiche, da quelle dell'Italia centro-settentrionale (con l'eccezione del Lazio), che, non va dimenticato, aveva alle spalle venti mesi di Repubblica sociale italiana e di guerra civile. Anche nelle regioni settentrionali gli esiti non furono affatto omogenei. In quattro province prevalse la Monarchia: Cuneo e Asti nella Circoscrizione Cuneo-Asti-Alessandria (nel cui ambito essa risultò tuttavia minoritaria, a causa dell'orientamento repubblicano dell'Alessandrino), Bergamo e Padova.
Manca una storia esauriente del cambio istituzionale. Occorrono ricerche analitiche sul territorio e la rimozione di tanti luoghi comuni. Il nostro editorialista Aldo A. Mola, autore di Il referendum monarchia-repubblica del 2-3 giugno 1946. Come andò davvero?, con prefazione della Principessa Maria Gabriella di Savoia (Ed. Bastogi Libri, pp. XXI+440, maggio 2016) in due articoli passa in rassegna quegli eventi e i molti dubbi che ancora li avvolgono.

                                           Fu(lvio)  Ba(steris)   (Direttore)                                                                                                                    
                                                                                                                    

di Aldo A. Mola

I referendum spianano la via ai regimi

La Repubblica italiana non è nata il 2 giugno 1946 ma il 19, quando uscì il n. 1 della sua “Gazzetta Ufficiale”. Il 2 giugno è una data convenzionale, come il “25 aprile”, che cerca di dare valenza nostrana alla fine della guerra tra anglo-americani e tedeschi in Italia, chiusa il 2 maggio1945. Benché superfluo, va precisato che il 19 giugno 1946 non nacque uno Stato Nuovo. Rimasero vigenti codici, leggi e decreti emanati durante il Regno. Le forme passano, gli Stati restano, se non vengono annientati. Merito storico indiscutibile di Vittorio Emanuele III fu di aver propiziato la resa dell'Italia agli anglo-americani (3-29 settembre 1943) evitandone la debellatio, sorte riservata invece alla Germania.
Il 2 giugno 1946 fu il primo dei due giorni del referendum sulla forma dello Stato e dell'elezione dell'Assemblea Costituente, chiamata a tagliare l'abito sul corpo preferito dai votanti. Secondo l'Istat (Elezioni per l'Assemblea Costituente e Referendum Istituzionale, febbraio 1948) gli elettori erano 28.005.449. Per motivi diversi, tre milioni (quasi il 12%) rimasero esclusi dal voto (prigionieri di guerra, cittadini di province inquiete o occupate, radiati per motivi politici o non reperiti dagli uffici elettorali comunali). Su 25 milioni di votanti i partiti dichiaratamente monarchici alla Costituente ottennero circa due milioni di suffragi e un numero modesto di seggi, mentre al referendum la monarchia ottenne 10.719.284 voti contro i 12.717.923 assegnati alla repubblica. Le schede bianche, nulle, contestate e non assegnate sommarono a circa 1.509.735, pari al 6,1% dei votanti). La repubblica ottenne quindi il 54% dei voti validi: un pelo più del 50% dei votanti e il 45% degli elettori. Nacque minoritaria. Però l'Assemblea Costituente, ove i repubblicani erano maggioranza schiacciante (Partito comunista, Partito socialista, Democrazia cristiana i cui dirigenti monarchici vennero zittiti, Partito d'azione…), ignorò i quasi undici milioni di cittadini monarchici, confiscò la volontà degli italiani, blindò la forma repubblicana dichiarandola immodificabile per via costituzionale (art. 139 della Carta), vietò il rientro e soggiorno in Italia dei re e dei loro discendenti maschi (confondendo “discendenti” con “eredi dinastici”, un oceano), criminalizzò la restaurazione della monarchia e i monarchici stessi, declassati a “nostalgici”, (termine spregiativo che li accomunò ai “fascisti”) e scatenò una ottusa damnatio memoriae dell'età sabauda (1848-1947), che pure fu tutt'uno con il Risorgimento e l'unificazione d'Italia.
Quel referendum non fu traumatico di per sé, per come venne concepito e svolto. Esso però offrì ai vincitori (terrorizzati dalla modestia del loro “successo”) la via per attuare una lacerazione radicale, storica ed etica tuttora aperta.
Del resto i referendum sono destinati a dividere. Instillano nel vincitore la sete di annientare il vinto e di perpetuare la sua vittoria rottamando l'avversario, additato come nemico. Guerra civile permanente. Il primo referendum fu l'elezione a suffragio universale dei 749 membri della “Convenzione” (20 settembre 1792) che in Francia proclamò la Repubblica, dalla quale datò la “novella storia”, e ghigliottinò Luigi XVI e la regina Maria Antonietta, proprio per dare un taglio netto col passato. Altrettanto fece Napoleone I con i plebisciti dopo il colpo di stato del 18 brumaio 1799 e la creazione dell'Impero, suggellata con la fucilazione del Duca d' Enghien. Nel 1851 lo imitò suo nipote, Napoleone III, finito male. Per imporsi i regimi rivoluzionari hanno bisogno di referendum e/o di plebisciti. Gli Stati solidi no. Il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord non ha neppure una costituzione. Esso c'è, come mostrano i riti, celebrati dalla sovrana novantenne, come ricorda Francesco De Leo in Elisabetta II Regina (ed. Aracne).
Gli Stati durevoli reggono sulla distinzione tra sovrano (o presidente, nelle repubbliche presidenziali), loro incarnazione formale e sostanziale, esecutivo, legislativo e ordine giudiziario, tutti incardinati sul Capo dello Stato: esattamente l'opposto di quanto accadde in Italia nel giugno 1946, quando il presidente della Repubblica fu investito di poteri da definire e il governo tenne per sé il legislativo mentre l'Assemblea (prorogata due volte) redigeva la Carta. Successivamente la Costituzione è stata ripetutamente modificata. Recentemente essa è stata stravolta da un Parlamento dichiarato in parte illegittimo dalla Corte Costituzionale, screditato dai cambi di casacca dei suoi componenti, ricattato con l'asfissiante richiesta di voti di fiducia (un assurdo per riforme costituzionali) da un governo infine obbligato a sottoporre le modifiche a referendum confermativo: occasione unica per i cittadini di dire la loro dopo anni di espropriazione della loro sovranità.
La consultazione degli elettori su temi etici e costituzionali ha sempre spaccato e lacera il Paese. Avvenne nel giugno 1946. Lo sarà nell'ottobre 2016. Perciò il referendum di 70 anni or sono merita l'attenzione sinora elusa dalla narrativa, che solitamente liquida il cambio monarchia/repubblica con un retorico omaggio al “re gentiluomo” che “tolse l'incomodo”, come, in estrema sintesi, ripete Gianni Oliva in Gli ultimi giorni della monarchia (Mondadori).

Dallo Statuto albertino alle “costituzioni provvisorie” (1944-1946)

Negli strumenti della resa incondizionata, gli anglo-americani non posero in discussione la monarchia, chiamata anzi a garantirne l’applicazione, a cominciare dalla consegna della flotta. Quando il Re lanciò agli italiani il messaggio radiofonico da Brindisi (12 settembre 1943), nelle regioni non occupate da reparti germanici i cittadini consapevoli capirono che lo Stato era salvo. Iniziava la ricostruzione. Altrove però il quadro risultò del tutto diverso. A Roma il 16 ottobre il Comitato centrale di liberazione nazionale dichiarò la monarchia complice del fascismo e chiese un governo formato dai partiti. Anche il Re lo voleva, ma incontrava la riluttanza del capo del governo, Pietro Badoglio, “marionetta” nelle mani degli anglo-americani come scrisse Paolo Puntoni, aiutante di campo del sovrano. Il 28 gennaio 1944 il sedicente congresso dei CLN, autoconvocato a Bari, chiese con veemenza l’abdicazione del Re. Si accodò anche Benedetto Croce. Badoglio, piagnucolando, propose al re di abdicare, ignorare il figlio, Umberto di Piemonte, e di passare la Corona al nipote, Vittorio Emanuele principe di Napoli, di soli sette anni, tutelato da un Reggente: si offrì egli stesso. In violazione dello Statuto. Fu il napoletano monarchico Enrico De Nicola a proporre la Luogotenenza, figura prevista dallo Statuto.
Il 14 marzo 1944 Stalin, Capo dell'URSS, riconobbe il governo Badoglio per sparigliare il gioco degli anglo-americani nel Mediterraneo. Il 27 il comunista Palmiro Togliatti, arrivò a Napoli dall’URSS, via Algeri, per attuare la “svolta partecipazionistica” su mandato di Stalin. Il 12 gli anglo-americani imposero ruvidamente al Re di farsi da parte e di trasferire tutti i poteri al figlio. A Vittorio Emanuele non restò che accettare. Il 27 aprile a Salerno nacque il secondo governo Badoglio, comprendente i sei partiti del CLN. I ministri giurarono sul proprio onore. Il 5 giugno Umberto divenne Luogotenente del regno.

Il referendum fu il punto di arrivo di una serie di modifiche formali e sostanziali dello Statuto. Il 25 giugno 1944 il Luogotenente Umberto emanò il decreto 151, il cui articolo 1 recitava: “Dopo la liberazione del territorio nazionale le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà a suffragio universale diretto e segreto una assemblea costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato”. Rimise la sovranità ai cittadini. Malgrado la “tregua istituzionale” promessa dai partiti, si moltiplicarono violentissimi attacchi alla Corona. Ne furono approdo il  libello di Luigi Salvatorelli Casa Savoia nella storia d'Italia e i “manifesti” diintellettuali repubblicani” in gran parte ex fascisti petulanti.
Per preparare la futura Costituente, il 5 aprile 1945 fu istituita una Consulta nazionale di 304 membri (poi elevati a 430). Si insediò il 25 settembre. Presieduta da Carlo Sforza, cavaliere della SS. Annunziata ma repubblicano così vociferante da infastidire il premier britannico Winston Churchill, essa fu composta quasi esclusivamente da repubblicani. Il ministero per la Costituente, istituito il 31 luglio 1945, a sua volta formò varie commissioni, una delle quali (con 84 membri, quasi esclusivamente repubblicani, presieduta da Ugo Forti), tracciò le linee della futura Carta.  
Al termine della guerra (2 maggio 1945), il contributo delle Forze Armate alla liberazione fu messo sotto silenzio. Il Luogotenente incontrò seri ostacoli a visitare l’Italia settentrionale. Il socialista Sandro Pertini, futuro presidente della repubblica, vantò le fucilate contro le finestre della dimora milanese che lo ospitava. Se solo lo avessero potuto, altrettanto avrebbero volentieri fatto tanti militanti della Repubblica sociale, la cui velenosa propaganda antisabauda giovò enormemente al successo dei repubblicani nell'Italia centro-settentrionale.

La preparazione delle votazioni

Dopo un lungo braccio di ferro politico, il 16 marzo 1946 il Luogotenente emanò i DLL n. 98 e 99  su referendum istituzionale ed elezione dell’Assemblea Costituente. Erano in corso le elezioni amministrative, indette anche per tastare il polso dell’elettorato. Per la prima volta le donne vi esercitarono il diritto di voto attivo e passivo. Alle urne furono chiamati 19.548.888 elettori di 5.680 comuni: 3.158 dell’Italia meridionale e insulare, 804 della centrale, 1.255 del nord. Votò il 79,37% degli aventi diritto. I democristiani conquistarono 2.020 comuni, contro i 1.985 dei socialcomunisti. Agli altri andarono le briciole. I liberali, in parte monarchici, ne ebbero 99; 345 andarono a concentrazioni di centro, 65 a blocchi di destra.
L’articolo 2 del DLL n. 98 sancì: “Qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci a favore della Repubblica...”. Il DLL 219 del 23 aprile seguente sulle norme per lo svolgimento del referendum dimenticò che la maggioranza andava calcolata sulla base dei votanti, comprese schede bianche e nulle, e prescrisse che gli Uffici centrali circoscrizionali (Corti d’Appello o Tribunali ai sensi di precedente decreto) computassero solo i voti validi per la monarchia o per la repubblica.  “Appena pervenuti i verbali” degli uffici centrali circoscrizionali, il primo presidente della Corte suprema di cassazione, partecipi sei presidenti di sezione, dodici consiglieri e il procuratore generale, avrebbe proclamato “i risultati del referendum”. La Corte doveva anche deliberare su contestazioni, proteste e reclami presentati agli uffici delle singole sezioni elettorali, agli Uffici Elettorali Circoscrizionali (Ue-Cir) a quello centrale (Ue-Cen) o direttamente a essa. Un compito immane.
Sull'Italia incombeva la divisione dei vincitori della seconda guerra mondiale in blocchi contrapposti: USA, Gran Bretagna e (per quel che contava) Francia da un canto, URSS dall’altro. S’avvicinava inoltre l'intimazione del trattato di pace, duramente punitivo. L’Italia aveva urgenza di stabilità interna. Per i cittadini la scelta tra monarchia e repubblica investiva memorie, sentimenti, sogni. Per la generalità dei partiti Casa Savoia era un impiccio di cui liberarsi una volta per tutte. Così si andò alle urne. I votanti dovevano tracciare una croce accanto a (o sopra ) uno dei simboli.“Due rami di quercia e di alloro attorno a una testa turrita di donna” contrassegnava la repubblica; una corona (senza croce sommitale) sovrapposta alla Stella sabauda indicava la monarchia. Entrambi si stagliavano sull’Italia.
Il 9 maggio Vittorio Emanuele III abdicò e lasciò l'Italia per l'Egitto. In vista del voto, Umberto II  sciolse dal giuramento al “bene indivisibile del Re, dei Reali successori e dell’Italia” quanti l’avevano prestato entrando a servizio nei pubblici uffici. L’esito del referendum non era affatto scontato. Le votazioni si svolsero complessivamente in buon ordine. Fu una prova di maturità democratica.
Il governo De Gasperi-Togliatti-Nenni conosceva le condizioni precarie in cui si sarebbe svolta la consultazione. Il ministro dell’Interno, Giuseppe Romita, repubblicano anche per avversione verso   suo padre (come egli stesso scrisse nelle memorie), si cautelò. Fece stampare due serie di certificati elettorali: il 2C (normale) e 3C (sostitutivo del primo in caso di smarrimento, distruzione accidentale, ecc.): ottanta milioni di schede, tre volte più degli aventi diritto al voto. Alle prefetture   venne mandata una scorta di certificati sostitutivi corrispondente al 40% degli ordinari.

Quella immensa nuvola di carte avvolse le votazioni del 2-3 giugno 1946: la scelta tra monarchia e repubblica e l'elezione dell'Assemblea Costituente.

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