Quando si avanza con gli anni, si sente il bisogno
di cercare le proprie radici. Si cercano quei
sentieri che sapranno resistere alla terribile scure del tempo che
annienta tutto. Spesso con mio padre parlavo di sua madre, che era una Del
Bianco. Era una donna semplice che non sorrideva mai. Un suo fratello aveva
prestato servizio nei corazzieri del Re. Era una persona di alta statura che
assomigliava a Carnera. Questo termine, un tempo, si usava molto per definire
una persona alta e dotata di una imponente muscolatura. Anche mio padre
assomigliava fisicamente allo zio corazziere. In paese nutriva una grande
considerazione, infatti era un grande onore appartenere al corpo dei Corazzieri
del Re.
Una volta erano davvero poche le possibilità per far fortuna. Una
famiglia contadina, come la sua, era sempre in difficoltà. La terra offriva
pochi frutti. La famiglia di mia nonna abitava ad Azzano, e anche mio padre
proveniva dallo stesso paese.
L’ ho immaginato spesso con la sua impeccabile divisa addosso, mentre prestava servizio alla famiglia reale, con il portamento dai caratteri nobili. Chissà quante volte avrà visto i Re Vittorio Emanuele III ed Umberto II, e quante volte avrà sentito la loro voce. Se avessi avuto modo di conoscerlo sicuramente mi sarei fatto raccontare alcuni aneddoti su Casa Savoia. I ricordi sono le pagine più belle che bisogna lasciare a quelli che verranno. So che ha avuto un figlio che è stato deportato in Germania dopo l’otto settembre del 1943. Alla fine della guerra fu uno dei tanti che dovettero emigrare per andare a lavorare in Belgio. Aveva stipulato un contratto di lavoro in una miniera di carbone dalla durata di otto anni.
Dopo quei lunghi otto anni di lavoro, il figlio del corazziere tornò al paese, appena in tempo per assistere alla morte di suo padre. La storia del prozio corazziere mi ha fatto ritornare in mente la partenza per l’esilio di Re Umberto II, avvenuta il 13 giugno 1946. In questi giorni ho ritrovato un articolo sul settimanale – Il Tempo - del 1948, in cui si raccontava che il Re prima di partire aveva reso omaggio ai suoi fedeli corazzieri, salutandoli uno ad uno. L’articolo conteneva anche delle fotografie di questi uomini del Re, raffigurati nelle loro belle ed eleganti uniformi e con il volto serio. In altre foto venivano rappresentati a cavallo. Il corazziere che di solito superava il quintale, indossava la corazza, l’elmo e gli stivali. L’articolo scritto da Renata Alterocca era intitolato: “ I giganti che custodivano Einaudi piansero abbracciando Umberto”. “ Sono state giornate di gran da fare, queste, per il capo armaiolo Capriolo della Caserma dei Corazzieri in via XX settembre : c’era da levare la ruggine da cento sciabole, cento corazze da tirare a lucido, senza contare il problema di avvitare nei fori lasciati vuoti dai fregi reali, i nuovi fregi repubblicani. I Corazzieri sono tornati il 12 maggio al Quirinale, riassumendo con una sola, ma fondamentale variante le loro funzioni di guardia personale del Capo dello Stato. Ma ancora, quel giorno, nel corteo che accompagnava il primo presidente della repubblica Italiana nel suo viaggio da Montecitorio alla sua residenza ufficiale, a distinguere il plotone dei Corazzieri da quello dei Carabinieri non c’era che l’altezza, un minimo di metri1,82. Questi cento uomini sono così impegnati dall’addestramento e dalle ore di servizio che, nonostante le loro qualità fisiche, non si sono creati quella popolarità che per esempio hanno i bersaglieri ed i cavalleggeri; e vivono inosservati in una casermetta nascosta presso il Ministero della Guerra.
Dicevo che, tornando al Quirinale, dopo averne varcata la soglia il presidente Einaudi, sceso dall’automobile, si è trovato dinnanzi, a fargli gli onori di casa, un plotone di Corazzieri in uniforme di gran gala, Corazzieri veri, insomma, di quelli che conosciamo noi, sin da bambini, tutti luccicanti nelle loro corazze, con la lunga criniera che gli cade dall’elmo dorato giù per le spalle, le sciabole al fianco, le smisurate gambe inguainate di daino bianco sino a dove non giungono i neri stivaloni alla scudiera. Così sono ricomparse queste guardie speciali dopo un oscuro periodo trascorso in incognito sotto la denominazione di terzo squadrone del gruppo dei Carabinieri a cavallo, con mansioni di vigilanza a Palazzo Giustiniani dove risiedeva il presidente provvisorio della repubblica. C’era stato per i Corazzieri un periodo più oscuro ancora, quello iniziatosi l’otto settembre del 1943. I tedeschi li avevano per un giorno, arrestati in massa. Rilasciati poi in base ad un accordo internazionale che garantisce l’immunità delle guardie personali dei Capi di Stato, si trovarono improvvisamente disoccupati. Si sparpagliarono qua e là, molti si unirono, varcando la linea gotica ai gruppi dei partigiani; due dei loro ufficiali, il maggiore Pianzola e il capitano Medici Tornaquinci compirono atti di eccezionale valore. Uno solo, il corazziere D’ Azan, che oggi vive in Argentina riuscì a portare i suoi 108 chilogrammi distribuiti proporzionatamente su un metro e novantacinque di statura sani e salvi fino a Bari dove li mise al servizio del suo piccolissimo Re. Dopo la liberazione di Roma, lo squadrone di Corazzieri tornò a ricostruirsi, le divise che erano state nascoste nei sotterranei della caserma furono riportate alla luce. Ricominciarono, in un’ atmosfera tesa ed incerta, i turni di guardia al Quirinale. Vennero giorni di ansia febbrile a palazzo. Il cinque giugno i risultati, non ancora ufficiali del referendum, che del Regno d’Italia facevano una Repubblica, furono noti al Quirinale. Giù nel cortile i Corazzieri se ne stavano immobili come grandi statue di pietra: aspettavano la pubblicazione ufficiale della repubblica. Non si sarebbero mossi un minuto prima.
Solo il 13 giugno, verso le due del pomeriggio, il generale Infante, Aiutante di Campo di Umberto chiamò al telefono l’ufficiale di guardia, quel giorno capitano Riccardo Massimo, impartendogli l’ordine di radunare lo Squadrone al completo, con tutti gli ufficiali nel cortile del Quirinale. In un quarto d’ora c’erano tutti, in tenuta normale, per salutare il Re che partiva. Alle 3 circa, Umberto II scendeva nella vetrata antistante il cortile; mentre s’avvicinava lo Squadrone gli aveva reso gli onori militari. Poi erano cominciate le strette di mano: colonnello Riario Sforza, maggiore Pianzola , capitano Medici Tornaquinci, capitano Massimo, capitano Dassinari. Aveva salutato tutti chiamandoli per nome, finché si era trovato davanti un maresciallo, e se l’era abbracciato. Il maresciallo, forse per giustificare i propri lucciconi, è pronto a giurare che Umberto aveva anche lui le lacrime agli occhi. Tornati in caserma i corazzieri avevano l’aria dei bambini che del collegio ne hanno avuto abbastanza. I loro ufficiali avevano chiesto ed ottenuto di essere messi in libertà e il comando dello Squadrone lo assunse il capitano Tassoni. Dei gregari alcuni avevano chiesto di essere congedati, altri si consigliavano con gli ufficiali circa le decisioni da prendere. Il Re li aveva sciolti dal giuramento di fedeltà e allora, perché non restare? E così i più restarono.
Erano diventati Corazzieri senza Re e senza corazza, addetti alla vigilanza del presidente provvisorio di una repubblica allo stato di crisalide. Tutto fu rimesso a posto, dunque, quando qualcuno si ricordò che c’era ancora qualcosa da mettere da parte, e non provvisoriamente, ma per sempre. Cercarono lo stendardo: lo stendardo dei Corazzieri del Re, color blu Savoia con l’aquila ricamata in oro. Frugarono dappertutto, interrogarono sottufficiali e soldati, ma lo stendardo non venne fuori. Ancora oggi nessuno sa dove sia nascosto. Ci fu, nello stesso periodo, un colonnello di Cavalleria che, prima di dare le proprie dimissioni dall’Esercito, rifiutò di consegnare il suo stendardo ai superiori che glielo avevano richiesto e lo consegnò, invece, al Re. Chissà che anche lo stendardo azzurro dello Squadrone dei Corazzieri non sia oggi nelle mani di Umberto, chissà che non riposi invece, in una vetrinetta di qualche salotto, assieme ai cimeli di un epoca passata.
E i Corazzieri della repubblica si sono dovuti fare un nuovo stendardo”.
L’ ho immaginato spesso con la sua impeccabile divisa addosso, mentre prestava servizio alla famiglia reale, con il portamento dai caratteri nobili. Chissà quante volte avrà visto i Re Vittorio Emanuele III ed Umberto II, e quante volte avrà sentito la loro voce. Se avessi avuto modo di conoscerlo sicuramente mi sarei fatto raccontare alcuni aneddoti su Casa Savoia. I ricordi sono le pagine più belle che bisogna lasciare a quelli che verranno. So che ha avuto un figlio che è stato deportato in Germania dopo l’otto settembre del 1943. Alla fine della guerra fu uno dei tanti che dovettero emigrare per andare a lavorare in Belgio. Aveva stipulato un contratto di lavoro in una miniera di carbone dalla durata di otto anni.
Dopo quei lunghi otto anni di lavoro, il figlio del corazziere tornò al paese, appena in tempo per assistere alla morte di suo padre. La storia del prozio corazziere mi ha fatto ritornare in mente la partenza per l’esilio di Re Umberto II, avvenuta il 13 giugno 1946. In questi giorni ho ritrovato un articolo sul settimanale – Il Tempo - del 1948, in cui si raccontava che il Re prima di partire aveva reso omaggio ai suoi fedeli corazzieri, salutandoli uno ad uno. L’articolo conteneva anche delle fotografie di questi uomini del Re, raffigurati nelle loro belle ed eleganti uniformi e con il volto serio. In altre foto venivano rappresentati a cavallo. Il corazziere che di solito superava il quintale, indossava la corazza, l’elmo e gli stivali. L’articolo scritto da Renata Alterocca era intitolato: “ I giganti che custodivano Einaudi piansero abbracciando Umberto”. “ Sono state giornate di gran da fare, queste, per il capo armaiolo Capriolo della Caserma dei Corazzieri in via XX settembre : c’era da levare la ruggine da cento sciabole, cento corazze da tirare a lucido, senza contare il problema di avvitare nei fori lasciati vuoti dai fregi reali, i nuovi fregi repubblicani. I Corazzieri sono tornati il 12 maggio al Quirinale, riassumendo con una sola, ma fondamentale variante le loro funzioni di guardia personale del Capo dello Stato. Ma ancora, quel giorno, nel corteo che accompagnava il primo presidente della repubblica Italiana nel suo viaggio da Montecitorio alla sua residenza ufficiale, a distinguere il plotone dei Corazzieri da quello dei Carabinieri non c’era che l’altezza, un minimo di metri1,82. Questi cento uomini sono così impegnati dall’addestramento e dalle ore di servizio che, nonostante le loro qualità fisiche, non si sono creati quella popolarità che per esempio hanno i bersaglieri ed i cavalleggeri; e vivono inosservati in una casermetta nascosta presso il Ministero della Guerra.
Dicevo che, tornando al Quirinale, dopo averne varcata la soglia il presidente Einaudi, sceso dall’automobile, si è trovato dinnanzi, a fargli gli onori di casa, un plotone di Corazzieri in uniforme di gran gala, Corazzieri veri, insomma, di quelli che conosciamo noi, sin da bambini, tutti luccicanti nelle loro corazze, con la lunga criniera che gli cade dall’elmo dorato giù per le spalle, le sciabole al fianco, le smisurate gambe inguainate di daino bianco sino a dove non giungono i neri stivaloni alla scudiera. Così sono ricomparse queste guardie speciali dopo un oscuro periodo trascorso in incognito sotto la denominazione di terzo squadrone del gruppo dei Carabinieri a cavallo, con mansioni di vigilanza a Palazzo Giustiniani dove risiedeva il presidente provvisorio della repubblica. C’era stato per i Corazzieri un periodo più oscuro ancora, quello iniziatosi l’otto settembre del 1943. I tedeschi li avevano per un giorno, arrestati in massa. Rilasciati poi in base ad un accordo internazionale che garantisce l’immunità delle guardie personali dei Capi di Stato, si trovarono improvvisamente disoccupati. Si sparpagliarono qua e là, molti si unirono, varcando la linea gotica ai gruppi dei partigiani; due dei loro ufficiali, il maggiore Pianzola e il capitano Medici Tornaquinci compirono atti di eccezionale valore. Uno solo, il corazziere D’ Azan, che oggi vive in Argentina riuscì a portare i suoi 108 chilogrammi distribuiti proporzionatamente su un metro e novantacinque di statura sani e salvi fino a Bari dove li mise al servizio del suo piccolissimo Re. Dopo la liberazione di Roma, lo squadrone di Corazzieri tornò a ricostruirsi, le divise che erano state nascoste nei sotterranei della caserma furono riportate alla luce. Ricominciarono, in un’ atmosfera tesa ed incerta, i turni di guardia al Quirinale. Vennero giorni di ansia febbrile a palazzo. Il cinque giugno i risultati, non ancora ufficiali del referendum, che del Regno d’Italia facevano una Repubblica, furono noti al Quirinale. Giù nel cortile i Corazzieri se ne stavano immobili come grandi statue di pietra: aspettavano la pubblicazione ufficiale della repubblica. Non si sarebbero mossi un minuto prima.
Solo il 13 giugno, verso le due del pomeriggio, il generale Infante, Aiutante di Campo di Umberto chiamò al telefono l’ufficiale di guardia, quel giorno capitano Riccardo Massimo, impartendogli l’ordine di radunare lo Squadrone al completo, con tutti gli ufficiali nel cortile del Quirinale. In un quarto d’ora c’erano tutti, in tenuta normale, per salutare il Re che partiva. Alle 3 circa, Umberto II scendeva nella vetrata antistante il cortile; mentre s’avvicinava lo Squadrone gli aveva reso gli onori militari. Poi erano cominciate le strette di mano: colonnello Riario Sforza, maggiore Pianzola , capitano Medici Tornaquinci, capitano Massimo, capitano Dassinari. Aveva salutato tutti chiamandoli per nome, finché si era trovato davanti un maresciallo, e se l’era abbracciato. Il maresciallo, forse per giustificare i propri lucciconi, è pronto a giurare che Umberto aveva anche lui le lacrime agli occhi. Tornati in caserma i corazzieri avevano l’aria dei bambini che del collegio ne hanno avuto abbastanza. I loro ufficiali avevano chiesto ed ottenuto di essere messi in libertà e il comando dello Squadrone lo assunse il capitano Tassoni. Dei gregari alcuni avevano chiesto di essere congedati, altri si consigliavano con gli ufficiali circa le decisioni da prendere. Il Re li aveva sciolti dal giuramento di fedeltà e allora, perché non restare? E così i più restarono.
Erano diventati Corazzieri senza Re e senza corazza, addetti alla vigilanza del presidente provvisorio di una repubblica allo stato di crisalide. Tutto fu rimesso a posto, dunque, quando qualcuno si ricordò che c’era ancora qualcosa da mettere da parte, e non provvisoriamente, ma per sempre. Cercarono lo stendardo: lo stendardo dei Corazzieri del Re, color blu Savoia con l’aquila ricamata in oro. Frugarono dappertutto, interrogarono sottufficiali e soldati, ma lo stendardo non venne fuori. Ancora oggi nessuno sa dove sia nascosto. Ci fu, nello stesso periodo, un colonnello di Cavalleria che, prima di dare le proprie dimissioni dall’Esercito, rifiutò di consegnare il suo stendardo ai superiori che glielo avevano richiesto e lo consegnò, invece, al Re. Chissà che anche lo stendardo azzurro dello Squadrone dei Corazzieri non sia oggi nelle mani di Umberto, chissà che non riposi invece, in una vetrinetta di qualche salotto, assieme ai cimeli di un epoca passata.
E i Corazzieri della repubblica si sono dovuti fare un nuovo stendardo”.
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RispondiEliminautente giubra63
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Grazie per l'articolo
giuseppe