Fra il 1938 e il 1946
l'Italia visse anni convulsi. Il suo cammino proseguì per segmenti discontinui,
a strappi. Il viaggio di Adolf Hitler a Firenze e a Roma nel maggio 1938 segnò
la svolta. All'interno del Partito nazionale fascista si gonfiò la componente
antimonarchica, sopita nel 1922-1924 ma mai spenta. Molti fascisti ritenevano che
a concludere vittoriosamente l'impresa di Etiopia e a creare l'Impero non erano
stati l'Italia e il Re ma Benito Mussolini. Per loro come in Germania anche in
Italia il capo del governo e duce del fascismo doveva essere anche capo dello
Stato. Il cinquantanovenne Vittorio Emanuele III, sul trono dall'assassinio del
padre (29 luglio 1900) in pubblico appariva poco e da lontano: per convegni di
storia e di scienze, manovre militari di terra e di mare ed esposizioni come la
Fiera Campionaria di Milano, ove nel 1928 era stato bersaglio di un attentato
che fece una strage. Mussolini, invece, amava e dominava piazze straripanti. I
fasci da tempo affiancavano lo scudo sabaudo anche nelle insegne pubbliche.
Ultimo baluardo della Monarchia rimase il tricolore. Il Re rifiutò che vi
comparisse lo stemma di quello che da un decennio era il partito unico, base
della fascistizzazione della società, sempre tramite leggi approvate dal
Parlamento. Dal 1929 i deputati erano designati dal Gran Consiglio del fascismo
e approvati dal 95% e più degli elettori. Altrettanto avveniva nell'URSS e in
altri regimi totalitari, con la differenza che in Italia il potere supremo era
nella persona del Re.
Dal 1931 i pubblici
dipendenti, inclusi i docenti universitari giuravano non solo al Re ma anche al
regime. Privo di sostegno anche da parte di esponenti della tradizione
liberale, Vittorio Emanuele III non poté arginare la sterzate di Mussolini: le
leggi razziali dell'autunno 1938 (su suggestione di quelle in vigore in
Germania), la convergenza del fascismo criptorepubblicano con il
nazionalsocialismo. La Germania hitleriana mirava a una guerra europea che
l'Italia non era assolutamente in grado di affrontare. La conferenza di Monaco
di Baviera (settembre 1938) che assegnò alla Germania la regione della
Cecoslovacchia abitata prevalentemente da Sudeti (tedeschi del sud) fu l'ultimo
tentativo di frenare la corsa verso il precipizio: l'aggressione di Germania e
Unione Sovietica contro la Polonia e la conflagrazione europea (31 agosto 1939).
Il 10 giugno 1940 l'Italia intervenne a fianco della Germania e condusse una
“guerra parallela”, che si risolse in una serie di imprese niente affatto
vitali per i suoi interessi storici, dall'aggressione alla Grecia (ottobre
1940) all'invio dell'Armata in Russia e di sconfitte strategiche. Quando da
europea la guerra divenne mondiale (1941), Mussolini ne calcò le orme con la
dichiarazione di guerra agli Stati Uniti d'America del tutto invulnerabili ad
attacchi da parte dell'Italia e dalle forze colossali.
All'indomani dello
sbarco anglo-americano in Sicilia e del bombardamento aereo “pedagogico” su
Roma (luglio 1943), mentre partiti e movimenti antifascisti erano appena
albeggianti e i principali gerarchi del regime miravano a restituire al sovrano
l'esercizio dei poteri statutari senza però rimuovere Mussolini da capo del
governo (è la sostanza dell'ordine del giorno Grandi-Bottai-Federzoni del 25
luglio) il Re recise il nodo gordiano. Sicuro del pieno sostegno delle Forze
Armate, in un colloquio a quattr'occhi di pochi minuti revocò Mussolini da capo
del governo e lo sostituì con il Maresciallo Pietro Badoglio, conosciuto e
apprezzato anche a Londra e a Parigi e considerato garante della
defascistizzazione.
La diarchia era
nell'appariscenza (e rimase nella narrazione). Vittorio Emanuele III mostrò che
l'Italia era una monarchia. Giunta l'ora esercitò i poteri statutari.
Nel volgere di un
mese il nuovo governo ottenne l'armistizio (3 settembre, reso pubblico l'8) ma,
sic stantibus rebus e mentre gli anglo-americani già stavano organizzando il
futuro sbarco in Normandia, non poté evitare che il Paese divenisse campo di
battaglia tra le Nazioni Unite e la Germania: le prime fiancheggiate dal Regno
d'Italia(co-belligerante), l'altra dalla Repubblica sociale italiana,
capeggiata da Mussolini dal 23 settembre
sotto pressante tutela nazi-germanica. Nei due anni seguenti e soprattutto dal
novembre 1944 al maggio 1945 gli italiani vissero i peggiori tempi della loro
storia dall'unificazione del 1861. Alle dure condizioni del conflitto in corso
e alle privazioni materiali (a cominciare dal razionamento degli alimenti
fondamentali e dalla quotidiana esposizione agli effetti diretti e collaterali
del conflitto, a cominciare dai pesantissimi bombardamenti aerei) si aggiunsero
la deportazione in Germania dei soldati catturati dai tedeschi (classificati
come Internati Militari: ne hanno scritto esaurientemente Mario Avagliano e
Marco Palmieri nel saggio I militari italiani nei lager nazisti,
Mondadori, finalista all'Acqui Storia 2020), degli ebrei (facili da individuare
perché “schedati” dal 1938). Anche Mafalda di Savoia, figlia del Re e della
Regina Elena, principessa d'Assia, venne internata sul margine del lager di
Rawensbruck, ove morì, gravemente ferita durante un bombardamento americano sul
campo e non curata.
Nell'agosto 1943 i
rappresentanti di partiti antifascisti deliberarono di non collaborare con il
governo Badoglio per far ricadere sulla monarchia il passivo della guerra: una
decisione partitica, non patriottica. All'inizio di ottobre il Comitato
centrale di liberazione nazionale costituito in Roma dichiarò di non
riconoscere il governo. Il gennaio i CLN dell'Italia meridionale radunati a
Bari chiesero che il re abdicasse. Benedetto Croce intervenne con veemenza
contro Vittorio Emanuele III, al quale venne meno anche il sostegno di sincero
di Badoglio, che mirava a sostituirlo assumendo la Reggenza, in forma non
prevista dallo Statuto.
Enrico De Nicola,
presidente della Camera all'avvento d Mussolini e senatore dal 1929, propose
che il sovrano mantenesse la Corona ma ne trasferisse tutti i poteri, nessuno
escluso ( a cominciare dal comando formale delle Forze Armate), al principe
ereditario, Umberto quale Luogotenente del regno, carica prevista dallo
Statuto. Il “passaggio”, ruvidamente imposto al sovrano dagli anglo-americani
in aprile, venne formalizzato il 5 giugno, all'indomani della liberazione di
Roma, senza però che né il Re né il Luogotenente fossero nella Capitale, come
chiesto dal Re.
Il nuovo governo,
presieduto da Ivanoe Bonomi, mirò a sua volta a oscurare il Re, che ricordava
ogni minuto e ogni protagonista, e impose al Luogotenente che la futura forma
dello Stato d'Italia venisse decisa dagli italiani. Il Decreto legge
luogotenenziale del 25 giugno 1944 di fatto sospese lo Statuto e istituì una
sorta di costituzione provvisoria.
Un anno dopo la fine
della guerra in Italia (2 maggio 1945), segnata dalla dolorosa occupazione di
territorio nazionale (Zara, Fiume, Istria, Trieste, Gorizia...) da parte della
Jugoslavia di Tito, Vittorio Emanuele III abdicò e partì per l'Egitto, unico
paese affacciato sul Mediterraneo non in guerra con l'Italia (9 maggio 1946).
Il 2-3 giugno il referendum attribuì alla repubblica il 42% dei consensi del
corpo elettorale (12.700.000 voti su 28.000.000 di elettori). Il presidente del
Consiglio, Alcide De Gasperi, segretario della Democrazia Cristiana, pressato
dai socialcomunisti (Togliatti, Nenni e Romita) e dal partito d'azione nei
primi minuti del 13 giugno assunse le funzioni di Capo dello Stato. Per non
aprire un conflitto armato, nel pomeriggio dello stesso giorno Umberto II
lasciò l'Italia alla volta del Portogallo. Partì per l'estero senza abdicare,
nella pienezza dei suoi diritti e senza riconoscere la vittoria della repubblica
perché l'esito del referendum non era ancora ufficiale. Lo darebbe divenuto il
18, quando andò i stampa il n.1 della “Gazzetta Ufficiale della Repubblica”.
Incombeva il Trattato
di pace, che risultò duramente punitivo e ingeneroso. Non riconobbe quanto
promesso col Memorandum di Quebec dell'agosto 1943 e nell'“armistizio lungo”
del 29 settembre 1943.
La Costituente
deliberò che agli ex Re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro
discendenti maschi erano vietati l'ingresso e il soggiorno nel territorio
nazionale e che i membri e i discendenti della Casa non fossero elettori né
potessero ricoprire uffici pubblici e cariche elettive.
Tre giorni prima che
la Costituzione entrasse in vigore, Vittorio Emanuele III morì ad Alessandria
d'Egitto, ove aveva vissuto con la Regina Elena dedito agli studi e nella
meditazione sulla Storia, che è fatta di idee, di istituzioni e di uomini.
L'esilio di Umberto II non venne mai revocato. Morì a sua volta all'estero
(Ginevra, 18 marzo 1983). Gli erano stati tolti i diritti di cittadino italiano
ma nessuno aveva potuto privarlo della Corona, che aveva portato con sé.
Quel lunghissimo e
tragico decennio è ancora in attesa di essere meglio conosciuto. All'indomani
della guerra e del referendum molti di quanti lo vissero preferirono chiuderlo
nella memoria personale. Ne parlarono poco anche in famiglia. Tanti ricordi
erano troppo dolorosi. Anche profittando del loro silenzio, ne venne proposta
una narrazione unilaterale, La figura del Re venne via via oscurata Vittorio
Emanuele III, re per 46 anni, fu e continua a essere vituperato. Anche in libri
(a volte più grossi che utili) e in articoletti nei quali viene detto “pavido”.
Eppure era stato il solo a propugnare la resistenza dell'Italia dopo la
sconfitta (non catastrofe) di Caporetto nell'incontro a Peschiera con gli
alleati (8 novembre 1917). Lui a segnare ad attuare la svolta decisiva il 25
luglio 1943. Lui a premere e a indicare le vie per ottenere l'armistizio. Lui
ad assicurare la continuità dello Stato nella lunga difficile ricostruzione dal
trasferimento a Brindisi alla Riscossa. Certo era un sovrano scomodo, proprio
perché sapeva e poteva guardare tutti negli occhi senza scomporsi, al più col
lieve tremito del mento nelle emozioni supreme.
Non si ha traccia sicura
di sue “Memorie”. In loro assenza tocca pertanto agli storici ricomporre il
mosaico per ricostruite la complessità e drammaticità del suo lungo regno,
tutt'uno con l'Italia. Di sicuro Vittorio Emanuele III di Savoia non fu mai
razzista. Fu di vasta e solida cultura. Dopo averlo conosciuto Theodore
Roosevelt disse che negli Stati Uniti d'America sarebbe stato sicuramente
eletto presidente per larghezza di vedute e alto sentire. In Italia fu re
costituzionale di uno Stato sorto dal Risorgimento, dalle guerre per
l'indipendenza e per le libertà; ma non sempre fu assecondato dalla Camera
eletta dai cittadini.
Aldo A. Mola
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