NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 11 luglio 2011

UNA REPUBBLICATA FONDATA SU UMBERTO II

Editoriale di Aldo A. Mola pubblicato su “Il Giornale del Piemonte” del 3.7.2011
      
Tutti sanno ma non sempre ricordano che la Costituzione della repubblica  italiana è fondata su Umberto di Savoia. Fu lui, principe di Piemonte e Luogotenente del Regno, a varare il decreto legislativo luogotenenziale 25 giugno 1944 n. 151 in forza del quale entro quattro mesi dalla fine della guerra gli italiani, maschi e femmine, avrebbero scelto la forma dello Stato ed eletto la Costituente per dargli veste. Quel decreto non poté essere convertito in legge dalle Camere perché  l’improvvido Pietro Badoglio sciolse la Camera  e  paralizzò il senato, perseguitato dall’alto commissario per le sanzioni contro il fascismo, Carlo Sforza, logori mito dell’antifascismo peloso.
Alle urne gli italiani andarono non quattro ma tredici mesi dopo la resa di Caserta che il 2 maggio 1945 mise fine alla guerra in Italia la guerra tra i tedeschi e le Nazioni Unite, per le quali l’Italia era “nazione nemica” e così venne trattata al tavolo della pace di Parigi (10 febbraio 1947), che fu un diktat e peggiorò i contenuto della resa senza condizioni del 3-29 settembre 1943. L’ambasciatore Antonio Meli Lupi di Soragna lo firmò con la stilografica propria e sigillò con lo stemma istoriato sul suo anello. Per dare tardiva legittimazione a tre anni di “fatti compiuti” spacciati come  atti istituzionalmente legittimi (inclusa la proclamazione dell’esito del referendum il 18 giugno 1946),  la XV disposizione transitoria e finale della Costituzione precisò che quel decreto di Umberto “si ha per convertito in legge”: una patacca tipica dei costituzionalisti che avallano  secondo il vento che tira, come soleva dire il grande Vittorio Emanuele III. Nell’edizione “riveduta e aumentata” del suo gustosissimo  libro del 1953  su La illegittimità del governo Badoglio (Gastaldi) col titolo Dal governo Badoglio alla Repubblica italiana (Clu, Genova,2011) Elio Lodolini ricorda  che il 22 dicembre 2008, tutto preso dall’ardore di  cancellare le leggi superflue, un decreto legge convertito nella legge 18 febbraio 2009, n. 9 2009 abrogò 27.806 leggi vigenti, tra  le quali il dll 25 giugno 1944, n.151, sul quale regge lo Stato. Solo  mesi dopo la Repubblica si accorse di  essersi tolta lo sgabello di sotto e corse ai ripari richiamandolo in  vigore con decorrenza dal 19 dicembre 2009: un giorno prima della decadenza   frettolosamente decretata un anno prima. Vennero ripescate altre 861 leggi “bruciate” da Calderoli…
Anziano e vispo, Lodolini è uno studioso coerente. Già direttore dell’Archivio  di Stato di Roma, Membro d’Onore della organizzazione mondiale degli Archivi per meriti eminenti, ha l’indelicatezza di ricordare, per esempio, che il mancato scambio di consegne tra Mussolini e Badoglio, il 25 luglio 1943, inflisse un  vulnus  insanabile alla legittimità del governo, che era e rimase provvisorio, come tutti quelli seguiti (Bonomi, Parri, De Gasperi…) sino al 1° gennaio 1948. Non solo: gettò nel caos l’Italia centro-settentrionale ove molti, anche monarchici, scelsero l’unico Stato in quel momento e lì esistente. Lodolini e altri studiosi scomodi mostrano che si può scrivere, e,  bene, la storia d’Italia e della Monarchia  anche se non si dispone  di tutte le carte, forse in piccola parte disperse (non malizia per i casi della storia). La Casa, del resto, non aveva alcun obbligo di conservarle e di consegnarle,  visto il trattamento subito  con l’iniqua condanna all’esilio del Re e di suo figlio, nato in Italia nel 1937.  La presunta mancata consegna è stata ora  deplorata da Nicola Tranfaglia, in un articolo che Dino Messina giudica “nobile” , perché, dice, senza documenti non si scrive storia. Verissimo. Aggiungiamo, però, che senza documenti non si lanciano neppure accuse o insinuazioni di scorrettezza. Di sicuro tra le carte di Vittorio Emanuele III non reperite vi erano quelle che provavano la sollecitazione della Francia all’Italia a entrare in guerra (10 giugno 1940): una decisione  assunta dal re e da Mussolini per propiziare la richiesta francese di armistizio e fermare i tedeschi  prima che  arrivassero sul Mediterraneo. Poi la storia prese altro corso.
Quanto al pensiero degli ebrei italiani su Vittorio Emanuele III, che sta a cuore non solo a Dino Messina, va detto che esso emerge dalla folla dei Levi, Lattes, Segre, Sacerdote, Ottolenghi  ecc. , i quali fra il 1939 e il 1942 annualmente salivano in vacanza nelle valli cuneesi ove estivavano il Re e la Regina Elena, perché lì si sentivano al sicuro, come dicono le carte dell’Archivio Centrale dello Stato a studiosi pazienti e non prevenuti. In conclusione, a differenza di quanto scrive Paolo Colombo in La monarchia fascista, 1922-1940 (il Mulino: ove è errata anche la data della sfilata delle camicie nere  a Roma, che fu il 31 e non il 30 ottobre), la Monarchia garantì la legittimità della vita pubblica italiana  anche nel ventennio mussoliniano, sanando le intemperanze e le inadempienze  dei politici. Perciò nel 150° della nascita del Regno d’Italia  con la XV disposizione transitoria e finale della Costituzione essa rimane il pilastro portante di quanto di solido vi è nella repubblica, oggi periclitante a causa di leggi elettorali, sia nazionali sia regionali, che ne mettono a nudo l’inclinazione congenita ai brogli e al caos e allontanano i cittadini dalle istituzioni.
Aldo A. Mola

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