di Eugenio Di Rienzo
Un saggio di Gilda Zazzara ricostruisce le vicende di un progetto egemonico che voleva monopolizzare lo studio del ’900 e della Resistenza. Ma la ricercatrice è troppo indulgente verso chi trasformò la conoscenza in arma politica
Il volume di Gilda Zazzara (La storia a sinistra. Ricerca e impegno politico dopo il fascismo, Laterza, pagg. 208, euro 20) sostiene una tesi difficilmente condivisibile e anzi del tutto erronea. Secondo l’autrice, solo dopo il 1945 e grazie all’opera d’intellettuali e politici del Pci e del movimento azionista «gli studiosi italiani riuscirono a sviluppare con la politica un rapporto peculiare e complesso, che accompagnò la gestazione di una nuova e autonoma disciplina storiografica: la Storia contemporanea».
Nulla di più inesatto di questa ricostruzione, se si pensa che fin dal 1917 la Nuova Rivista Storica, fondata da Corrado Barbagallo, iniziava le sue pubblicazioni con una serie di articoli dedicati a esaminare le conseguenze politiche, economiche e sociali della Grande Guerra e che, anche prima di quella data, altri grandi maestri, compreso lo stesso Croce, si cimentarono con l’analisi della «storia recente e recentissima».
Il 16 gennaio 1906, infatti, Gioacchino Volpe proponeva a Salvemini di creare «una rivista destinata ad allontanarsi dai lavori in cui l’erudizione sia scopo a se stessa, per agitare invece questioni larghe e vitali che riguardino i problemi della nostra epoca».
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«Tutto quello che possiamo fare noi che abbiamo necessariamente ancora una certa posizione passionale nei confronti del fascismo», sosteneva il vecchio oppositore di Mussolini, «è invece segnalare agli studiosi quel che sappiamo per esperienza sofferta», mettendoli in guardia dalle testimonianze dei reduci della guerra civile che «sono troppo spesso ingannevoli e anzi costruite ad arte allo scopo di trarre in inganno».
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