Il socialista Sanchez al governo della Spagna
Europa più debole, Mediterraneo
più insicuro
di Aldo A. Mola
11 novembre 2019. Dopo un paio d'anni di
borboglii, da trentacinque chilometri sotto terra un immenso magma esplode,
genera un vulcano sottomarino dalla pericolosità ancora da sondare, sposta di
alcuni centimetri l'isola di Mayotte nell'Arcipelago delle Comore, tra il
Madagascar e l'Africa, e l'abbassa di circa 20 centimetri. Non c'entrano né le
variazioni climatiche, né l'inquinamento atmosferico né il peso dei turisti. È
la Terra che dice la sua: un globo azzurro e verde in superficie, di fuoco
all'interno. Di quando in quando erutta. Con esiti sgradevoli.
Accade altrettanto nella “politica”.
Lo stesso 11 novembre 2019 gli spagnoli per
la quarta volta in due anni si sono recati alle urne, croce e delizia della
“democrazia parlamentare”. Le elezioni, lo sappiamo, sono il sistema meno
infelice per legittimare dirigenza e governo. Però sappiamo anche che esse non
sempre dicono la “verità”, e non solo nei regimi di partito unico, ove si
risolvono in farsa, ma anche altrove, dove sono ingabbiate in leggi e procedure
che lasciano mano libera agli eletti per giochi di potere dominati da ambizioni
personali mentre occorrerebbero progetti di lungo periodo. È appunto il caso
della Spagna. Il Partito socialista operaio spagnolo (PSOE) ha una cupola di
“baroni” in tensione crescente con il sistema costituzionale e lo Stato stesso.
Da Mayotte la Terra ha mandato un segnale. Un
preoccupante “ronzio” da lì si è diffuso in ogni angolo del pianeta. Il
messaggio è chiaro: meno chiasso in superficie, più auscultazione delle
profondità. È l'ora del “Vitriol”: “visita interiora terrae, rectificando
invenies occultum lapidem”, insegna degli Alchimisti, dei sapienti che non
fanno da zerbino ai Potenti di turno ma sono votati al Progresso delle Scienze.
Maghi? Stregoni? Massoni? O semplicemente cittadini che non fanno baccano per
futili motivi perché sanno che il Tempo passa “e quasi orma non lascia”? A
Mayotte la Terra ha emesso un respiro profondo, come suol fare, senza
consultare chi ne popola la superficie: talora animato da molta “pietas” e
rispetto verso la Gran Madre, talaltra con spocchiosa arroganza. Alcuni ne
temono le scosse e percepiscono che prima o poi potrebbe arrivare la
catastrofe. Altri invece pensano che a placare e a imbrigliare i sommovimenti
della Saturnia Tellus bastino canti e suoni di putipù.
Il rischio del blocco continentale
A volte, però, non è la Natura Maligna a
generare borboglii e a provocare sconquassi abissali. Sono gli uomini,
abbacinati da “miti” artificiosi, passioni stagionali, eruzioni cutanee.
Trent'anni in Italia addietro fu il caso dell'estemporanea invenzione dei
“celti”. Forse non tutti i suoi turibolanti ricordavano che “celtico” era stato
sinonimo di “morbo gallico”, ovvero della sifilide il cui contagio gli italici
imputarono ai francesi anziché alle proprie incaute intemperanze.
Ma altri sono oggi i contagi e ben più
drammatiche le conseguenze a breve e a lunga distanza delle faglie che si
stanno aprendo tra Terraferma e Gran Bretagna. Due secoli dopo il “blocco
continentale” ordinato da Napoleone I per mettere in ginocchio gli inglesi
adesso sono questi a decretare il blocco contro il Vecchio Continente. Approdo
di popoli migranti che si accavallarono, combatterono e dominarono l'un l'altro
in guerre feroci, proprio mentre in molte plaghe e suburbi è ormai più simile
al Brasile che alla Sassonia oggi la Gran Bretagna si chiude in se stessa:
autosegregazione. Dal canto suo l'Unione Europea si riduce a sommatoria di
quattro Stati (Germania, Francia, Italia e Spagna) e di una pleiade di Paesi
minori, soggiogati da satrapi eterodiretti (Polonia, Romania, Bulgaria...) e di
statucoli dalle dimensioni inversamente proporzionali ai capitali che vi
trovano rifugio (il riferimento a Belgio e Lussemburgo, ben inteso, non è
affatto casuale, per tacere dei principati di Andorra, Monaco e Liechtenstein).
La Spagna, dunque: Mayotte
dell'Europa ventura?
La Spagna ci riguarda da vicino. Torino e
Genova sono più vicine a Barcellona che a Santa Maria di Leuca. La loro
distanza da Madrid è pressoché uguale a quella da Palermo. La percorrenza e i
cambi in areo si equivalgono. Vale per le persone come per le merci: anzi, la
Spagna ha “corsie privilegiate” verso i porti italiani, documentate nei secoli
e consegnate ai corsi e ricorsi della storia. Una volta erano i Romani a
espugnare Numanzia; poi furono gli spagnoli a dominare l'Italia.
Nell'età presente, se la Spagna va male, va
male l'Europa. Se la Spagna è più debole, l'Europa conta di meno nel mondo, che
parla spagnolo dalla Patagonia a metà degli Stati Uniti d'America. Se la Spagna
declina, l'Italia ha tutto da perdere, perché il Mediterraneo diviene più
stretto e le sue coste settentrionali tornano vulnerabili. Le prime
ripercussioni negative ricadrebbero sull'Italia nord-occidentale, oggi
periclitante per il collasso delle comunicazioni ferro-stradali con l'Oltralpe.
Perciò il futuro della penisola iberica dovrebbe essere in cima all'agenda di
qualsiasi persona sensata, sia per l'ormai incombente Brexit sia per gli
argomenti ventilati da Erdogan a sostegno della riconquista della Libia da
parte dei turchi: vendicare la sconfitta subìta da Istanbul nella guerra del
1911-1912, quando l'Italia di Vittorio Emanuele III e Giolitti mosse contro
l'impero turco-ottomano per liberare gli arabi dal dominio turco al quale erano
sottoposti da quattro secoli.
Il governo di minoranza di “Sanchez il
Ricattabile”
In attesa che quel che resta dell'Europa
faccia un serio esame di coscienza sul suo stato attuale e sulle prospettive,
il “caso Spagna” richiama l'attenzione.
Con l'“investitura” del socialista Pedro
Sánchez a capo del governo formato da Psoe e da Uniti Possiamo (o “Podemos”
come comunemente detto il partito capitanato da Pablo Iglesias e dalla sua
compagna, Irene Montero), il 7 gennaio la Spagna ha fatto un balzo all'indietro
di ottant'anni. La maggior parte dei commentatori nostrani ha salutato
l'avvento di un “governo di coalizione” anche a Madrid, come in altri Paesi
europei, quasi fosse un passo avanti verso la “normalizzazione” dopo un
quarantennio di governi, ora socialisti democratici, ora del Partito popolare.
Hanno ignorato (o finto di ignorare?) che i governi di coalizione in Germania e
Italia nacquero dall'alleanza virtuosa tra grandi forze (prevalentemente
socialisti democratici e cristiani non clericali), forti di ampia maggioranza.
Le coalizioni costano un po' di sacrificio (“sforbiciare le ali” diceva Franco
Venturi, insuperato storico dell'Illuminismo) ma assicurano lunghi periodi di
stabilità. Mettono tra parentesi i motivi di contrapposizione e fanno leva su valori
e obiettivi comuni: la ricostruzione, l'ampliamento della partecipazione
democratica, la convergenza tra cittadini e istituzioni, tra la dimensione
originaria dello Stato e la Comunità internazionale. Governi di coalizione
durarono in Italia col centrismo degasperiano e con il centro sinistra sino al
governo presieduto da Bettino Craxi. Furono gli anni del miracolo economico,
del palpabile avvicinamento tra Nord e Sud col potenziamento della rete
ferro-stradale, demandata a completare l'unità nazionale frenata dal
dirottamento di risorse dagli investimenti civili alla guerra nel 1914-1918 e
dal rovinoso quinquennio 1940-1945.
La coalizione il 7 gennaio varata a Madrid è
di tutt'altra natura. Sánchez ha ottenuto l'investitura a presidente del
governo solo alla seconda votazione, con appena 167 voti a favore (PSOE e
Podemos) contro 165 e 18 astensioni. È un governo di coalizione, sì, ma tra
tinte di un solo colore: è rosso-paonazzo e al tempo stesso di “stretta
minoranza”. Si è salvato per un pelo grazie e una deputata delle Canarie che ha
rotto la “disciplina di partito” e solo in virtù all'astensione della Sinistra
repubblicana catalana che vuole la Catalogna repubblica indipendente. Una sua
esponente ha dichiarato alle Cortes (la Camera spagnola) che non le importa un
“fico” (traduciamo così) della governabilità della Spagna, che per lei è ancor
oggi una dittatura, un regime fascista. Per lei peggio va Madrid, meglio è per
i visionari che in Catalogna hanno rimosso i ritratti del Re, Felipe VI di
Borbone, impongono l'uso del catalano (una “linguina” rispetto allo spagnolo,
secondo idioma del pianeta) e marciano in convergenza niente affatto segreta
non con il “ragionevole” Partito nazionale basco ma con “Bildu”, erede
ideologico della sanguinaria ETA. Dinnanzi ai ceffoni loro inflitti alle Cortes
da repubblicani e nemici dell'unità della Spagna tanto Sánchez quanto i suoi
alleati non hanno battuto ciglio. Hanno taciuto. A loro premeva incassare
l'“investitura” e formare finalmente l'agognato governo: venti ministri e
quattro vicepresidenti. Mai come in questo caso ha vinto la fame di poltrone,
del resto occupate da anni senza un consenso maggioritario ma solo grazie a una
legge elettorale che premia il partito prevalente in collegi disegnati per un
Paese del tutto diverso dall'attuale.
Ciliegina sulla torta della coalizione è
stato il voto favorevole dell'unico deputato del movimento “Teruel existe”,
eletto a metà strada fra Sagunto e Calatayud, lembo della “Spagna profonda”
dipinta come “vacía”: desolata, in abbandono, sede di un vescovado comprendente
l'incantevole Albarracin. Il riscatto dei Turolensi, però, non passa attraverso
la contrapposizione masochistica tra Periferia e Centro, ma tramite gli
investimenti stranieri e la saggia amministrazione dei fondi europei, che hanno
fatto la fortuna di regioni quali la Andalusia. Il nuovo governo madrileno
assomma microcefalismo localistico (catalano, neo-etarra, turolense, un po'
canario...) e autocefalismo socialistoide di Pedro Sánchez, che per anni ha brandito
come clava la rimozione della salma di Franco dal Valle de los Caídos in
combutta con Carmen Calvo, antagonista dell'andalusa Susana Díaz: un dualismo
che riproduce in miniatura la distanza abissale tra “Pedro, el Guapo”
(rapidamente avvizzito) e Felipe González, un gigante del socialismo
democratico europeo.
Il nuovo governo ha per base un programma di
decine di titoli e centinaia di capitoletti (tipo il fallimentare “contratto di
governo” pattuito da Lega e M5S nel maggio 2018), elusivo dei veri problemi
della Spagna odierna: scongiurare la deflagrazione dello Stato in frammenti
alimentati dall'odio verso sé stessi.
Per fortuna sua e dell'Europa dalla morte di
Francisco Franco (statista in attesa di valutazioni equilibrate sul suo
quarantennio di “jefatura del Estado”) la Spagna è una monarchia
costituzionale, voluta e apprezzata dalla stragrande maggioranza dei suoi
abitanti. Come convennero anche comunisti alla Santiago Carrillo, re Juan
Carlos de Borbón y Borbón era consustanziale alla Spagna “como la sopa de ajo”.
Cresciuta dalla Transizione (che ebbe per timonieri costituzionalisti “di
sinistra” quale Gregorio Peces-Barba, anima dell'Università “Carlos III” di
Madrid) la Spagna odierna ha alto prestigio internazionale, un'economia
invidiabile e un assetto giuridico di prim'ordine, attestato dal Tribunale
Supremo nella spinosa vertenza di Oriol Junqueras, il catalano separatista
eletto eurodeputato ma condannato a 13 anni di carcere e quindi ineleggibile
perché temporaneamente privo di diritti politici.
Sarà vera gloria?
Proprio per la sua solidità e per
l'ordinamento istituzionale la Spagna è bersaglio di chi mina l'Unione Europea
attraverso l'esasperazione di localismi e di movimenti indipendentisti e
secessionisti largamente finanziati dall'estero, talora sorretti da un clero
locale dimentico dell'universalità della Chiesa che ebbe nella Spagna uno tra i
suoi più importanti “attori”.
Comunque il cammino del governo
Sánchez-Iglesias non si annuncia affatto facile. A presentargli il conto
saranno anzitutto gli estremisti che lo hanno “investito” e i separatisti che
il 7 gennaio gli hanno spianato la strada con l'astensione, attendendolo però
al varco con pretese avulse dalla storia, quali l'avvento di una Repubblica
indipendente di Catalogna, che spaccherebbe l'unità della Spagna, getterebbe
metà della popolazione catalana contro l'altra metà, del tutto contraria a
convulsioni arcaiche e costringerebbe chi va nella penisola iberica a valicare
una frontiera di troppo: l'opposto di quanto occorre.
Come noto, un passo di quel genere troverebbe
inoltre innumerevoli imitatori in Spagna (dalla Galizia ai Paesi Baschi) ma
anche in altri Stati, inclusa l'Italia dove fioriscono spinte centrifughe per
la gracilità della tenuta culturale unitaria e il declino della coscienza
storica che si espresse nelle opere di Benedetto Croce, Federico Chabod,
Ruggiero Romano, Giuseppe Galasso..., per i quali Italia ed Europa sono
tutt'uno e il pensiero liberale comprende tante possibili varianti (dai
radicali ai socialisti) all'insegna dei valori della democrazia parlamentare e
della moralità della politica, posta al centro della riflessione dal robusto
saggio di Tito Lucrezio Rizzo, L'etica, soffio del Divino attraverso le
Istituzioni più amate dagli italiani (pref. di Tullio del Sette, ed.
Aracne).
Fatalmente Sánchez si troverà presto a
misurarsi con partiti e movimenti centrifughi. Ad ambiguità, riserve mentali e
giochi al rimpiattino seguiranno tensioni e fratture.
È da prevedere che la lezione dell'11
novembre non verrà ignorata dalla Spagna maggioritaria nel Paese, centrista,
moderata, europeista, e che al prossimo non remoto turno elettorale le
divisioni tra Partito popolare, Ciudadanos (una cometa presto spenta) e Vox
cederanno il passo ad accordi e a convergenze elettorali collegio per collegio
(uniti si vince). Anche a legge elettorale immutata, basta poco perché il
centro-destra prevalga e ponga le basi per un governo effettivamente duraturo e
capace di esprimere l'unità tra Istituzioni e cittadini.
Un'ultima constatazione s’impone. In frangia
culturale nostrana, numericamente esigua ma politicamente influente, ha nutrito
a lungo pregiudizi nei confronti della Spagna, identificata con “nemici
storici”, quali gli Asburgo e i Borbone: dinastie che, con imperatori e re, esercitarono
in Italia il ruolo che gli italiani non seppero svolgervi sino all'avvento di
Casa Savoia, perno dell'unificazione nazionale. Quella è comunque storia
passata. L'attuale e la ventura hanno un altro nome, la latinità e le radici
“umanistiche” evocate a fondamento del Trattato dell'Unione; un'Europa nella
quale Paesi come l'Italia e la Spagna hanno motivo di sentirsi più che mai
affratellati, superando all'interno e all'esterno i particolarismi ideologici,
etnocentrici (che poi a volte sono poco più che tribali) e confessionali, tutti
residui del “secolo lungo”: il Novecento, scandito dalla guerra dei trent'anni
(1914-1945) e dalla lacerante divisione in blocchi militari contrapposti,
durante la guerra fredda e la sua tragica appendice nei Balcani sino alle
soglie del Terzo Millennio.
Aldo A. Mola
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