Quando a Sanremo Francia e Gran Bretagna si spartirono
le spoglie dei vinti
di Aldo A. Mola
La Porta del Paradiso abbarbicata a Sanremo
Ebbe per scenario il “Castello Devachan” la
Conferenza diplomatica che tra il 19 e il 26 aprile 1920 prese decisioni
tuttora gravanti sulla storia mondiale e, s'intende, sulla porziuncola di nome
Italia. Lo vediamo mentre nell'afasia dell'Unione Europea e nel borbottio della
Farnesina la Turchia ha deciso l'intervento militare in Libia, due passi da
noi, per rivendicare il Califfato e si teme che nel Vicino e Medio Oriente
possa esplodere una guerra apocalittica (subito pagata “alla pompa” dei
carburanti quasi fosse già in corso). “Devachan” nella parlata locale è detta
la Villa che, poco a occidente dal centro Sanremo, con la collina del Berigo
per sfondo, contempla il mare. Sul suo nome infuriarono dispute
filologico-interpretative del tutto in contrasto col suo recondito messaggio:
“secondo cielo del paradiso dell'anima”, raggiunto o almeno intravisto da chi
s'inerpica verso il Nirvana. Fu “impostata” dal proprietario, John Horatio
Sevile, conte di Mexborough (1843-1916), che di rientro dall'India, convertito
al buddismo, la dedicò alla seconda moglie, Lucy. Era ed è un angolo di
Paradiso, appunto...
Ma si sa che le vie dell'Inferno sono
lastricate di buone intenzioni e, talvolta, di denominazioni e “cartelli”
invano bene auguranti. Nella vita il conte curò molto l'arredo arboreo del suo
spazio tra il cielo, il mare e la costa sulla quale è abbarbicata la Villa
perfezionata nel 1909 in stile liberty da Pietro Agosti, sindaco di Sanremo.
Come poi insegnò José López Rega, “el brujo”, i colori e i profumi esalanti dai
fiori ispirano visioni e pensieri alti. Da uno all'altro proprietario il
Castello passò nelle mani di Edoardo Mercegaglia, che fu in rapporti con
Francesco Saverio Nitti. Ancora non è chiaro come e perché proprio tra quei
primi tepori primaverili del 1920 vi si adunò la Conferenza diplomatica (con militari
aggiunti: per l'Italia Pietro Badoglio) che decise e in parte ratificò la
spartizione degli imperi coloniali dei vinti, Germania e Turchia. L'Italia,
pronuba, rimase a bocca asciutta.
Cent'anni dopo, la Conferenza diplomatica di
Sanremo merita una rievocazione non convenzionale, sibbene con gli occhi aperti
sulle sue conseguenze ultime. Per coglierne la portata occorre fare un paio di
passi all'indietro nel tempo. La Storia procede a ritmo lento, pesante,
ciclica. Felice chi riesce a contemplarla scansandone gli “effetti
collaterali”, da osservatore anziché da vittima, de a narrarla sine ira et
studio.
Dalla “Società” alla “Lega” delle
Nazioni
Nel gennaio-giugno 1917 il Grande Oriente di
Francia (GOF) e la Gran Loggia di Francia (GLF) stilarono lo statuto della
Società delle Nazioni. Fu un progetto della massoneria francese, consenzienti
il Grande Oriente d'Italia (GOI) e una decina di altre Comunità massoniche di
Paesi (come la Spagna e lembi dell'America centro-meridionale) ancora estranei
alla Grande Guerra che da tre anni stava devastando l'Europa. L'impero russo
era sconvolto dalla rivoluzione. Quello turco era alle prese con la rivolta
araba, che ebbe nell'inglese Thomas Edward Lawrence il suo eroe eponimo (o
mosca cocchiera?). Il 6 aprile gli Stati Uniti d'America avevano dichiarato
guerra alla Germania. “Marianne” doveva accelerare il passo prima che il corso
gli eventi le scappasse di mano. Quella prima Società delle Nazioni nacque
euro-centrica: identica rappresentanza per ogni Stato, quale ne fosse il numero
degli abitanti, bandiera con tante stelle e un sole arancione.
I due grandi maestri del GOF e della GLF,
Georges Corneau e il generale Paul Peigné, avevano molti assi nella manica: il
loro patto di ferro con il governo di Parigi, la totale identità con il Grande
Oriente del Belgio, che aveva preceduto quello di Francia nell'abolizione del
“Grande Architetto dell'Universo” quale intestazione dei “travagli d'officina”,
il pieno sostegno dei radical-socialisti e dei vertici militari e, soprattutto,
l'affiliazione di esuli politici della Serbia, futura Jugoslavia, e della
Boemia, perno della futura Cecoslovacchia. Da un secolo la massoneria francese
“esportava” classe dirigente alla guida degli Stati nascenti nell'Europa
orientale (Romania, Bulgaria, Serbia...). Mentre il governo italiano aveva
ancora idee confuse sul futuro dell'Impero austro-ungarico (secondo il ministro
degli Esteri Sidney Sonnino esso doveva sopravvivere al conflitto), Parigi era
per il suo annientamento. Mirava alla “repubblicanizzazione d'Europa” come in Requiem
per un impero defunto (Mondadori) ha scritto
François Fejto. Perciò lo statuto della Società delle Nazioni franco-massonica
ebbe per caposaldo l'“autodeterminazione dei popoli”. Ancor tutta da tracciare
in termini geo-politici, nelle aree mistilingue questa doveva esprimersi
attraverso plebisciti. L'Italia scoprì tardivamente di essere entrata in guerra
a fianco di chi non le voleva tanto bene. Anzitutto la Francia, che mirava ad
aggirarla a est affermando la sua supremazia sull'Europa orientale (Polonia,
Bulgaria, debitamente sconfitta e “depurata” dall’originaria prevalenza
germanica e, appunto, gli Stati nascenti, inclusa l'Ungheria, la cui Gran
Loggia Simbolica dall'origine era ispirata da Parigi, che mirò anche a
presidiare Fiume). In secondo luogo la Serbia che non nutriva alcuna
gratitudine verso Roma e aspirava al controllo dell'Adriatico, in netto
antagonismo con i sogni italiani di talassocrazia, sia pure nella modesta
dimensione dell'Adriatico. Non basta dichiarare la sovranità nazionale sui
mari: bisogna affermarla coi fatti.
Sempre investita dalla martellante offensiva
germanica, vulnerata da ammutinamenti repressi con decimazioni e da scioperi,
nel 1917 Parigi si affrettò a divulgare il suo “progetto” di pace universale
“pro domo sua” per battere sul tempo interferenze americane. Ricorse anche a
emissari in Russia, per obbligare l'ex impero zarista, spossato, a rimanere in
armi. L'Italia si schierò nettamente contro l'ipotesi di subordinare i confini
futuri a referendum, che infatti non vi vennero mai celebrati a differenza di
quanto era avvenuto con le annessioni del 1848-1870. La prevalenza di
germanofoni nell'Alto Adige e di slavofoni a est di Gorizia e in Istria avrebbe
azzerato i “compensi” pattuiti con l'accordo di Londra del 26 aprile 1915 e gli
immensi sacrifici sopportati dal paese in due anni di guerra. Il Grande Oriente
d'Italia si allineò alle direttive del governo nazionale. Ad affrettare il
cambio concorsero il disastro di Caporetto, il timore dell'avanzata
austro-germanica sino all'Adige o al Mincio, del crollo dell'unità nazionale
per insorgenza dei socialisti, decisi a “fare come in Russia”, e dei cattolici,
convinti che occorreva mettere fine alla “inutile strage”, tanto più che di lì
a poco si scoprì che su richiesta di Roma l'Intesa escludeva la Santa Sede dal
futuro “congresso di pace”.
La concezione francocentrica della Società
delle Nazioni si scontrò con l'indifferenza della Gran Loggia Unita
d'Inghilterra, delle Grandi Logge degli Stati Uniti d'America e con
l'astensione della Gran Loggia Alpina in nome della neutralità della Svizzera.
Ma il vero colpo di grazia lo inferse l'8 gennaio 1918 il presidente degli USA,
Woodrow Wilson, a lungo ed erroneamente ritenuto massone, con l'enunciazione
dei 14 punti per la pace futura. Per fondare la “pace nel mondo”, l'“America”
propose l'istituzione della Lega generale delle Nazioni, ben diversa dalla
Società delle Nazioni. Per garantire l'indipendenza politica ai piccoli come ai
grandi Stati, Wilson disconobbe ogni valore ai patti internazionali pregressi,
declassati a accordi “privati”, e precisò che la rettifica delle frontiere
italiane doveva essere effettuata “secondo linee di nazionalità chiaramente
riconoscibili” (punto 9°).
La spartizione dei popoli… incivili
Inchiodata a una visione italo-centrica del
conflitto, ancor oggi dominante nella “storiografia” nostrana su guerra e
dopoguerra, Roma non comprese affatto la portata del progetto wilsoniano, poi
codificato nello statuto della Lega approvato a Parigi il 26 aprile 1919 e
inserito quale premessa a tutti i trattati dettati dai vincitori ai vinti
(Germania, Austria, Ungheria, Bulgaria e Turchia) tra il 28 giugno 1919 e il 10
agosto 1920. L'articolo 20 del Trattato di Versailles abrogò tutti i patti
pregressi tra i suoi membri, ritenuti incompatibili con lo statuto della Lega,
mentre non lo era la “dottrina Monroe”, cioè “l'America agli Americani”,
inserita nello statuto della Lega quale art.21. Questo stabilì che “i popoli
non ancora capaci di reggersi da sé nelle condizioni particolarmente difficili
del mondo moderno” sarebbero stati affidati alla “tutela” delle nazioni
progredite che “in ragione delle loro risorse, della loro esperienza o della
loro posizione geografica erano meglio in grado di di assumere questa
responsabilità”. Allo scopo furono ideati tre generi di “mandati” secondo il
grado di sviluppo dei popoli da… civilizzare.
Alcune “comunità” del fatiscente impero
ottomano (non esplicitamente indicate: si pensava alla Siria, all'Egitto e
all'Iraq) vennero ritenute capaci di reggersi da sé, sia pure con consigli e
aiuti di un Mandatario; altre (in specie dell'Africa Centrale) andavano invece
affidate direttamente a Mandatari; altri territori infine (quali l'Africa del Sud-Ovest e isole del Pacifico
australe) venivano senz'altro
incorporati nella sovranità del mandatario, completi dei loro abitanti.
Le paci di Versailles, di Saint-Germain (10
settembre) e di Neully (17 novembre) non chiusero affatto la complessità del
contenzioso tra vinti e vincitori. Gli italiani rimasero preda della
rivendicazione di Fiume, tardivamente chiesta da Roma in aggiunta ai compensi
previsti dall'accordo di Londra del 26 aprile 1915. La “questione fiumana”,
divenuta incandescente con la “marcia di Ronchi” e la sedizione militare
guidata da Gabriele d'Annunzio il 12 settembre 1919, catalizzò l'opinione
pubblica italiana su un aspetto marginale dell'assetto europeo postbellico, nel
cui ambito il caso di Fiume era tessera di un caleidoscopio di “crisi”, e la distrasse
da questioni di gran lunga più importanti, quale la spartizione dell'impero
turco e delle colonie dell'impero di Germania.
Italia senza bussola...
Al pettine della storia vennero tutti i nodi
della politica estera dei governi susseguitisi in Italia dalla conflagrazione
europea agli armistizi. Quale condizione della rescissione dell'alleanza
difensiva tra Roma, Berlino e Vienna e l'intervento in guerra a fianco di
Parigi, Londra e San Pietroburgo, nel 1914 il ministro degli Esteri Antonino
Paternò Castello, marchese di San Giuliano, aveva proposto la costituzione di
una Quadruplice Alleanza, come documenta GianPaolo Ferrajoli in un'opera
magistrale e insuperata sul grande diplomatico siculo-normanno ispiratore di I
Viceré di Federico De Roberto. L'Italia doveva entrare
in guerra “alla pari”, previa verifica di tutti i patti istituiti tra gli
alleati. Però, morto San Giuliano, il nuovo titolare degli Esteri, Sonnino,
d'intesa con il presidente del Consiglio, Antonio Salandra, stipulò invece un
accordo di “accessione” alla Triplice: un “arrangement” asimmetrico. Roma non
venne informata dei patti di ferro preesistenti sull'assetto postbellico. Il
comandante supremo Luigi Cadorna se ne lamentò, invano, anche nell'estate 1916,
quando il governo Boselli tra il 24 e il 28 agosto decise la dichiarazione di
guerra alla Germania.
Gli errori della politica estera si
ripercossero sulla conduzione della guerra. Cadorna usava dire che l'Italia
avrebbe riconquistato la Libia sul Carso. Vinta la guerra sul fronte principale,
avrebbe avuto tutti i titoli per farsi valere nel confronto con “alleati” poco
“amici”. Invece il governo distrasse truppe su altri fronti. Arrivò anzi al
paradosso. Decise una “spedizione” in Albania e se ne assunse la responsabilità
militare diretta: fu un'impresa finita male per la pochezza del governo, dei
militari inviati allo sbaraglio, degli “alleati” (anzitutto i francesi) che non la videro di buon occhio,
e degli albanesi. Fu la prova che la guerra è cosa troppo seria per lasciarla
nelle mani dei “politici” e che la politica estera è altrettanto importante. Va
affidata a diplomatici dotati di comprovate capacità: anzitutto malleabilità e
duttilità, aurei requisiti ignoti allo spigoloso Sonnino.
Da Versailles a Sanremo
La delegazione italiana a Versailles rimase
celebre per dilettantismo e cocciutaggine. Dopo le sue molte prove negative, il
governo fu sfiduciato poco prima che il Congresso finisse. “Faute de mieux”, il
28 giugno Orlando e Sonnino figurarono firmatari del trattato di pace, ma già
sostituiti. Caso unico nella storia. Il nuovo presidente del Consiglio,
Francesco Saverio Nitti, si trovò sulle spalle la passività del governo
precedente, il colpo di mano di d'Annunzio a Fiume, la diffidenza degli altri
governi. S'aggiunse la sconfitta di Wilson nelle elezioni e il rifiuto degli
USA di aderire alla Lega delle nazioni, che pertanto rimase per sempre orfana
del suo ideatore.
Londra e Parigi fecero subito un passo verso
il passato: tornarono alla visione euro-centrica della Società (non più Lega)
delle Nazioni. La sua sede, originariamente ipotizzata a Londra, poi spostata a
Parigi, fu infine accampata a Ginevra in attesa che venisse terminato il
sontuoso Palazzo, adeguato alle sue ambizioni. Ebbe un organigramma complesso e
più ampolloso che funzionale, ma nessuna forza armata, neppure simbolica.
Avrebbe emesso voti, raccomandazioni e magari anche deciso sanzioni economiche
contro i propri membri discoli (fu il caso dell'Italia, quando dichiarò guerra
all'Etiopia). Perciò la SdN si ridusse a porta girevole di Stati che entrarono
e uscirono secondo le convenienze. L'Italia, che era tra i Quattro Grandi
originari (Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone) vi tenne una condotta
discontinua, alternando retorica e polemiche.
Il primo appuntamento importante per dirimere
le grandi questioni lasciate aperte dalla sequela di trattati di pace del 1919
fu proprio al “Secondo cielo del Paradiso dell'anima” in Sanremo nell'aprile
1920. Alla Conferenza allestita al Castello Devachan parteciparono il primo
ministro francese Alexandre Millerand, il britannico David Lloyd George,
l'ambasciatore del Giappone Keishiro Matsui e Nitti, che nella biografia del
1984 Francesco Barbagallo paragona nientemeno che a Camillo Cavour (Utet,
p.366). La “Porta del Paradiso” era suggestiva, il paesaggio incantevole, la
compagnia eccellente, l'ospitalità memorabile. Poiché lo zucchero disponibile
andò rapidamente esaurito, giunse in soccorso l'Hotel de Nice.
Alle spalle la Conferenza di Sanremo ebbe
anche gli antichi accordi Sykes-Picot per l'egemonia franco-britannica su
Vicino e Medio Oriente. Il governo italiano ovviamente non ne era stato
informato. Gli anglo-francesi ignorarono tutti i precedenti riconoscimenti di
indipendenza della Siria, includente il Libano, Iraq ed Egitto. Con molto
sussiego la Francia dichiarò di assumere direttamente l'amministrazione della
Siria. La Gran Bretagna fece altrettanto con Mesopotamia, Palestina ed Egitto.
A Sanremo furono ratificate le decisioni assunte a Londra nel febbraio precedente.
E l'Italia? Quasi zero. Ottenne il riconoscimento di Rodi e del Dodecanneso,
che possedeva da quasi dieci anni, e l'utilizzo di Konya e Antalya sulla costa
di quella Turchia che da decenni contava ampie comunità italofone e persino
varie logge massoniche sia del Grande Oriente sia della Gran Loggia d'Italia.
Di più. A Sanremo venne definita la
spartizione delle colonie dell'Impero di Germania, che già ne era stato privato
dal trattato di Versailles. Parte andarono alla Gran Bretagna, parte alla
Francia e in quota minore addirittura al Belgio, che era e rimase l'esempio
peggiore della colonizzazione più ottusa, come si vide quando nel 1960
Bruxelles lasciò il Congo, subito teatro di guerre orrende e carneficine, tra
le cui vittime vanno ricordati anche i militari italiani assassinati a Kindù e
il segretario generale dell'ONU, Dag Hammarskjold (l'aero sul quale viaggiava
venne sabotato).
Da San Remo a Sion
La vera novità di Sanremo però fu un'altra:
l'approvazione della Dichiarazione Balfour del 1917 che riconosceva il
“focolare ebraico” in Palestina. Fu una concessione al sionismo blando, che in
sé non è affatto un “male” ma legittimo rifugio di un popolo soggiogato,
annientato in patria, costretto alla diaspora dai tempi degli imperatori Tito e
Adriano e perseguitato per millenni. Del resto il “focolare” venne incluso
nella Palestina, sotto mandato di Londra, poco incline a riconoscere speciali
privilegi agli ebrei.
Oltre due anni dopo, il 24 luglio 1922,
l'accordo di Sanremo ebbe veste “definitiva” con la risoluzione della Società
delle Nazioni redatta in inglese, arabo ed ebraico. Mandataria rimase la Gran
Bretagna. Venne riconosciuto un “organismo ebraico conveniente” col diritto di
“dare pareri all'amministrazione della Palestina e di cooperare con essa in
tutte le questioni economiche, sociali, ed altre suscettibili di interessare lo
stabilimento della Sede nazionale ebraica e gli interessi della popolazione
ebraica in Palestina”. Il Mandatario s'impegnò a “facilitare l'immigrazione
degli ebrei, ferma restando la salvaguardia dei diritti civili e religiosi di
tutti gli abitanti della regione a qualsiasi razza o religione appartenessero”,
e assunse “la responsabilità dell'ordine e della decenza dei Luoghi Santi,
compresi i diritti esistenti” per “assicurare il libero accesso ai Luoghi
Santi, agli edifici ed ai luoghi religiosi e il libero esercizio del culto per
tutti gli abitanti della Palestina”. Tutte partite ancor oggi aperte e sempre
più in forse per l'esasperazione degli opposti fanatismi.
Il tramonto di Nitti
Ci voleva la villa di un buddista per
arrivare a una visione universale della religiosità e della pace?
Un mese dopo la Conferenza diplomatica di
Sanremo, fallimentare per l'Italia, Nitti venne messo in minoranza. Il 22
maggio formò un secondo governo, sempre con Vittorio Scialoja agli Esteri.
Crollò un mese dopo e cedette il passo al settantottenne Giolitti, presidente
del suo quinto e ultimo governo (1920-1921). Nelle “Memorie di un fesso” (ed.
Forni) il “fratello” Alberto Giannini ha vergato un ritratto indimenticabile di
“Cagoia”, come Nitti venne appellato da d'Annunzio.
Qualcuno forse deplora che a Sanremo in
quell'aprile di cent'anni orsono l'Italia non sia riuscita a strappare qualche
lembo di terre lontane, un pezzetto di Tanganika, di Africa Australe, della
Mesopotamia e, chissà mai, non abbia rivendicato il Monte Ararat. In quel
dopoguerra, però, essa già non sapeva come condursi in Eritrea, Somalia e
Libia, tutta da riconquistare. E soprattutto doveva ricostruire se stessa dalle
macerie della guerra, vinta sul campo ma persa con l'indebitamento dello Stato,
passato da 7 a 90 miliardi di lire dell'epoca. La delusione tuttavia rimase.
Cocente. La sfruttarono i nazionalisti, il d'Annunzio della Vittoria mutilata
e, più abile di tutti, Benito Mussolini, che poi ritenne di lenirla con la
conquista dell'Impero d'Etiopia: un'impresa anacronistica, costata una fortuna,
naufragata in soli cinque anni: 1936-1941.
Perciò merita tornare a Sanremo, per
intravvedere il Castello Devachan, ombra di un sogno fuggente. Apprezzarvi
l'aurora, l'esalazione dei fiori, il sentore del mare, il crepuscolo. È il
“mondo” uguale nei secoli, migliorato dal “Maestro” Mario Calvino e dai suoi
emuli. “Porta” dell'unico Paradiso sicuro:
un lembo di questa “valle di lacrime” ove rileggere in santa pace Epicuro e
Lucrezio, al riparo dai “rumori molesti”.
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