NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 6 gennaio 2020

La conferenza diplomatica di Sanremo, Aprile 1920




Quando a Sanremo Francia e Gran Bretagna si spartirono le spoglie dei vinti

di Aldo A. Mola
 
La Porta del Paradiso abbarbicata a Sanremo
Ebbe per scenario il “Castello Devachan” la Conferenza diplomatica che tra il 19 e il 26 aprile 1920 prese decisioni tuttora gravanti sulla storia mondiale e, s'intende, sulla porziuncola di nome Italia. Lo vediamo mentre nell'afasia dell'Unione Europea e nel borbottio della Farnesina la Turchia ha deciso l'intervento militare in Libia, due passi da noi, per rivendicare il Califfato e si teme che nel Vicino e Medio Oriente possa esplodere una guerra apocalittica (subito pagata “alla pompa” dei carburanti quasi fosse già in corso). “Devachan” nella parlata locale è detta la Villa che, poco a occidente dal centro Sanremo, con la collina del Berigo per sfondo, contempla il mare. Sul suo nome infuriarono dispute filologico-interpretative del tutto in contrasto col suo recondito messaggio: “secondo cielo del paradiso dell'anima”, raggiunto o almeno intravisto da chi s'inerpica verso il Nirvana. Fu “impostata” dal proprietario, John Horatio Sevile, conte di Mexborough (1843-1916), che di rientro dall'India, convertito al buddismo, la dedicò alla seconda moglie, Lucy. Era ed è un angolo di Paradiso, appunto...
Ma si sa che le vie dell'Inferno sono lastricate di buone intenzioni e, talvolta, di denominazioni e “cartelli” invano bene auguranti. Nella vita il conte curò molto l'arredo arboreo del suo spazio tra il cielo, il mare e la costa sulla quale è abbarbicata la Villa perfezionata nel 1909 in stile liberty da Pietro Agosti, sindaco di Sanremo. Come poi insegnò José López Rega, “el brujo”, i colori e i profumi esalanti dai fiori ispirano visioni e pensieri alti. Da uno all'altro proprietario il Castello passò nelle mani di Edoardo Mercegaglia, che fu in rapporti con Francesco Saverio Nitti. Ancora non è chiaro come e perché proprio tra quei primi tepori primaverili del 1920 vi si adunò la Conferenza diplomatica (con militari aggiunti: per l'Italia Pietro Badoglio) che decise e in parte ratificò la spartizione degli imperi coloniali dei vinti, Germania e Turchia. L'Italia, pronuba, rimase a bocca asciutta.
Cent'anni dopo, la Conferenza diplomatica di Sanremo merita una rievocazione non convenzionale, sibbene con gli occhi aperti sulle sue conseguenze ultime. Per coglierne la portata occorre fare un paio di passi all'indietro nel tempo. La Storia procede a ritmo lento, pesante, ciclica. Felice chi riesce a contemplarla scansandone gli “effetti collaterali”, da osservatore anziché da vittima, de a narrarla sine ira et studio.

Dalla “Società” alla “Lega” delle Nazioni
Nel gennaio-giugno 1917 il Grande Oriente di Francia (GOF) e la Gran Loggia di Francia (GLF) stilarono lo statuto della Società delle Nazioni. Fu un progetto della massoneria francese, consenzienti il Grande Oriente d'Italia (GOI) e una decina di altre Comunità massoniche di Paesi (come la Spagna e lembi dell'America centro-meridionale) ancora estranei alla Grande Guerra che da tre anni stava devastando l'Europa. L'impero russo era sconvolto dalla rivoluzione. Quello turco era alle prese con la rivolta araba, che ebbe nell'inglese Thomas Edward Lawrence il suo eroe eponimo (o mosca cocchiera?). Il 6 aprile gli Stati Uniti d'America avevano dichiarato guerra alla Germania. “Marianne” doveva accelerare il passo prima che il corso gli eventi le scappasse di mano. Quella prima Società delle Nazioni nacque euro-centrica: identica rappresentanza per ogni Stato, quale ne fosse il numero degli abitanti, bandiera con tante stelle e un sole arancione.
I due grandi maestri del GOF e della GLF, Georges Corneau e il generale Paul Peigné, avevano molti assi nella manica: il loro patto di ferro con il governo di Parigi, la totale identità con il Grande Oriente del Belgio, che aveva preceduto quello di Francia nell'abolizione del “Grande Architetto dell'Universo” quale intestazione dei “travagli d'officina”, il pieno sostegno dei radical-socialisti e dei vertici militari e, soprattutto, l'affiliazione di esuli politici della Serbia, futura Jugoslavia, e della Boemia, perno della futura Cecoslovacchia. Da un secolo la massoneria francese “esportava” classe dirigente alla guida degli Stati nascenti nell'Europa orientale (Romania, Bulgaria, Serbia...). Mentre il governo italiano aveva ancora idee confuse sul futuro dell'Impero austro-ungarico (secondo il ministro degli Esteri Sidney Sonnino esso doveva sopravvivere al conflitto), Parigi era per il suo annientamento. Mirava alla “repubblicanizzazione d'Europa” come in Requiem per un impero defunto (Mondadori) ha scritto François Fejto. Perciò lo statuto della Società delle Nazioni franco-massonica ebbe per caposaldo l'“autodeterminazione dei popoli”. Ancor tutta da tracciare in termini geo-politici, nelle aree mistilingue questa doveva esprimersi attraverso plebisciti. L'Italia scoprì tardivamente di essere entrata in guerra a fianco di chi non le voleva tanto bene. Anzitutto la Francia, che mirava ad aggirarla a est affermando la sua supremazia sull'Europa orientale (Polonia, Bulgaria, debitamente sconfitta e “depurata” dall’originaria prevalenza germanica e, appunto, gli Stati nascenti, inclusa l'Ungheria, la cui Gran Loggia Simbolica dall'origine era ispirata da Parigi, che mirò anche a presidiare Fiume). In secondo luogo la Serbia che non nutriva alcuna gratitudine verso Roma e aspirava al controllo dell'Adriatico, in netto antagonismo con i sogni italiani di talassocrazia, sia pure nella modesta dimensione dell'Adriatico. Non basta dichiarare la sovranità nazionale sui mari: bisogna affermarla coi fatti.
Sempre investita dalla martellante offensiva germanica, vulnerata da ammutinamenti repressi con decimazioni e da scioperi, nel 1917 Parigi si affrettò a divulgare il suo “progetto” di pace universale “pro domo sua” per battere sul tempo interferenze americane. Ricorse anche a emissari in Russia, per obbligare l'ex impero zarista, spossato, a rimanere in armi. L'Italia si schierò nettamente contro l'ipotesi di subordinare i confini futuri a referendum, che infatti non vi vennero mai celebrati a differenza di quanto era avvenuto con le annessioni del 1848-1870. La prevalenza di germanofoni nell'Alto Adige e di slavofoni a est di Gorizia e in Istria avrebbe azzerato i “compensi” pattuiti con l'accordo di Londra del 26 aprile 1915 e gli immensi sacrifici sopportati dal paese in due anni di guerra. Il Grande Oriente d'Italia si allineò alle direttive del governo nazionale. Ad affrettare il cambio concorsero il disastro di Caporetto, il timore dell'avanzata austro-germanica sino all'Adige o al Mincio, del crollo dell'unità nazionale per insorgenza dei socialisti, decisi a “fare come in Russia”, e dei cattolici, convinti che occorreva mettere fine alla “inutile strage”, tanto più che di lì a poco si scoprì che su richiesta di Roma l'Intesa escludeva la Santa Sede dal futuro “congresso di pace”.
La concezione francocentrica della Società delle Nazioni si scontrò con l'indifferenza della Gran Loggia Unita d'Inghilterra, delle Grandi Logge degli Stati Uniti d'America e con l'astensione della Gran Loggia Alpina in nome della neutralità della Svizzera. Ma il vero colpo di grazia lo inferse l'8 gennaio 1918 il presidente degli USA, Woodrow Wilson, a lungo ed erroneamente ritenuto massone, con l'enunciazione dei 14 punti per la pace futura. Per fondare la “pace nel mondo”, l'“America” propose l'istituzione della Lega generale delle Nazioni, ben diversa dalla Società delle Nazioni. Per garantire l'indipendenza politica ai piccoli come ai grandi Stati, Wilson disconobbe ogni valore ai patti internazionali pregressi, declassati a accordi “privati”, e precisò che la rettifica delle frontiere italiane doveva essere effettuata “secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili” (punto 9°).

La spartizione dei popoli… incivili
Inchiodata a una visione italo-centrica del conflitto, ancor oggi dominante nella “storiografia” nostrana su guerra e dopoguerra, Roma non comprese affatto la portata del progetto wilsoniano, poi codificato nello statuto della Lega approvato a Parigi il 26 aprile 1919 e inserito quale premessa a tutti i trattati dettati dai vincitori ai vinti (Germania, Austria, Ungheria, Bulgaria e Turchia) tra il 28 giugno 1919 e il 10 agosto 1920. L'articolo 20 del Trattato di Versailles abrogò tutti i patti pregressi tra i suoi membri, ritenuti incompatibili con lo statuto della Lega, mentre non lo era la “dottrina Monroe”, cioè “l'America agli Americani”, inserita nello statuto della Lega quale art.21. Questo stabilì che “i popoli non ancora capaci di reggersi da sé nelle condizioni particolarmente difficili del mondo moderno” sarebbero stati affidati alla “tutela” delle nazioni progredite che “in ragione delle loro risorse, della loro esperienza o della loro posizione geografica erano meglio in grado di di assumere questa responsabilità”. Allo scopo furono ideati tre generi di “mandati” secondo il grado di sviluppo dei popoli da… civilizzare.
Alcune “comunità” del fatiscente impero ottomano (non esplicitamente indicate: si pensava alla Siria, all'Egitto e all'Iraq) vennero ritenute capaci di reggersi da sé, sia pure con consigli e aiuti di un Mandatario; altre (in specie dell'Africa Centrale) andavano invece affidate direttamente a Mandatari; altri territori infine (quali  l'Africa del Sud-Ovest e isole del Pacifico australe) venivano  senz'altro incorporati nella sovranità del mandatario, completi dei loro abitanti.
Le paci di Versailles, di Saint-Germain (10 settembre) e di Neully (17 novembre) non chiusero affatto la complessità del contenzioso tra vinti e vincitori. Gli italiani rimasero preda della rivendicazione di Fiume, tardivamente chiesta da Roma in aggiunta ai compensi previsti dall'accordo di Londra del 26 aprile 1915. La “questione fiumana”, divenuta incandescente con la “marcia di Ronchi” e la sedizione militare guidata da Gabriele d'Annunzio il 12 settembre 1919, catalizzò l'opinione pubblica italiana su un aspetto marginale dell'assetto europeo postbellico, nel cui ambito il caso di Fiume era tessera di un caleidoscopio di “crisi”, e la distrasse da questioni di gran lunga più importanti, quale la spartizione dell'impero turco e delle colonie dell'impero di Germania.

Italia senza bussola...
Al pettine della storia vennero tutti i nodi della politica estera dei governi susseguitisi in Italia dalla conflagrazione europea agli armistizi. Quale condizione della rescissione dell'alleanza difensiva tra Roma, Berlino e Vienna e l'intervento in guerra a fianco di Parigi, Londra e San Pietroburgo, nel 1914 il ministro degli Esteri Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano, aveva proposto la costituzione di una Quadruplice Alleanza, come documenta GianPaolo Ferrajoli in un'opera magistrale e insuperata sul grande diplomatico siculo-normanno ispiratore di I Viceré di Federico De Roberto. L'Italia doveva entrare in guerra “alla pari”, previa verifica di tutti i patti istituiti tra gli alleati. Però, morto San Giuliano, il nuovo titolare degli Esteri, Sonnino, d'intesa con il presidente del Consiglio, Antonio Salandra, stipulò invece un accordo di “accessione” alla Triplice: un “arrangement” asimmetrico. Roma non venne informata dei patti di ferro preesistenti sull'assetto postbellico. Il comandante supremo Luigi Cadorna se ne lamentò, invano, anche nell'estate 1916, quando il governo Boselli tra il 24 e il 28 agosto decise la dichiarazione di guerra alla Germania.
Gli errori della politica estera si ripercossero sulla conduzione della guerra. Cadorna usava dire che l'Italia avrebbe riconquistato la Libia sul Carso. Vinta la guerra sul fronte principale, avrebbe avuto tutti i titoli per farsi valere nel confronto con “alleati” poco “amici”. Invece il governo distrasse truppe su altri fronti. Arrivò anzi al paradosso. Decise una “spedizione” in Albania e se ne assunse la responsabilità militare diretta: fu un'impresa finita male per la pochezza del governo, dei militari inviati allo sbaraglio, degli “alleati” (anzitutto  i francesi) che non la videro di buon occhio, e degli albanesi. Fu la prova che la guerra è cosa troppo seria per lasciarla nelle mani dei “politici” e che la politica estera è altrettanto importante. Va affidata a diplomatici dotati di comprovate capacità: anzitutto malleabilità e duttilità, aurei requisiti ignoti allo spigoloso Sonnino.

Da Versailles a Sanremo
La delegazione italiana a Versailles rimase celebre per dilettantismo e cocciutaggine. Dopo le sue molte prove negative, il governo fu sfiduciato poco prima che il Congresso finisse. “Faute de mieux”, il 28 giugno Orlando e Sonnino figurarono firmatari del trattato di pace, ma già sostituiti. Caso unico nella storia. Il nuovo presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, si trovò sulle spalle la passività del governo precedente, il colpo di mano di d'Annunzio a Fiume, la diffidenza degli altri governi. S'aggiunse la sconfitta di Wilson nelle elezioni e il rifiuto degli USA di aderire alla Lega delle nazioni, che pertanto rimase per sempre orfana del suo ideatore.
Londra e Parigi fecero subito un passo verso il passato: tornarono alla visione euro-centrica della Società (non più Lega) delle Nazioni. La sua sede, originariamente ipotizzata a Londra, poi spostata a Parigi, fu infine accampata a Ginevra in attesa che venisse terminato il sontuoso Palazzo, adeguato alle sue ambizioni. Ebbe un organigramma complesso e più ampolloso che funzionale, ma nessuna forza armata, neppure simbolica. Avrebbe emesso voti, raccomandazioni e magari anche deciso sanzioni economiche contro i propri membri discoli (fu il caso dell'Italia, quando dichiarò guerra all'Etiopia). Perciò la SdN si ridusse a porta girevole di Stati che entrarono e uscirono secondo le convenienze. L'Italia, che era tra i Quattro Grandi originari (Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone) vi tenne una condotta discontinua, alternando retorica e polemiche.

Il primo appuntamento importante per dirimere le grandi questioni lasciate aperte dalla sequela di trattati di pace del 1919 fu proprio al “Secondo cielo del Paradiso dell'anima” in Sanremo nell'aprile 1920. Alla Conferenza allestita al Castello Devachan parteciparono il primo ministro francese Alexandre Millerand, il britannico David Lloyd George, l'ambasciatore del Giappone Keishiro Matsui e Nitti, che nella biografia del 1984 Francesco Barbagallo paragona nientemeno che a Camillo Cavour (Utet, p.366). La “Porta del Paradiso” era suggestiva, il paesaggio incantevole, la compagnia eccellente, l'ospitalità memorabile. Poiché lo zucchero disponibile andò rapidamente esaurito, giunse in soccorso l'Hotel de Nice.
Alle spalle la Conferenza di Sanremo ebbe anche gli antichi accordi Sykes-Picot per l'egemonia franco-britannica su Vicino e Medio Oriente. Il governo italiano ovviamente non ne era stato informato. Gli anglo-francesi ignorarono tutti i precedenti riconoscimenti di indipendenza della Siria, includente il Libano, Iraq ed Egitto. Con molto sussiego la Francia dichiarò di assumere direttamente l'amministrazione della Siria. La Gran Bretagna fece altrettanto con Mesopotamia, Palestina ed Egitto. A Sanremo furono ratificate le decisioni assunte a Londra nel febbraio precedente. E l'Italia? Quasi zero. Ottenne il riconoscimento di Rodi e del Dodecanneso, che possedeva da quasi dieci anni, e l'utilizzo di Konya e Antalya sulla costa di quella Turchia che da decenni contava ampie comunità italofone e persino varie logge massoniche sia del Grande Oriente sia della Gran Loggia d'Italia.
Di più. A Sanremo venne definita la spartizione delle colonie dell'Impero di Germania, che già ne era stato privato dal trattato di Versailles. Parte andarono alla Gran Bretagna, parte alla Francia e in quota minore addirittura al Belgio, che era e rimase l'esempio peggiore della colonizzazione più ottusa, come si vide quando nel 1960 Bruxelles lasciò il Congo, subito teatro di guerre orrende e carneficine, tra le cui vittime vanno ricordati anche i militari italiani assassinati a Kindù e il segretario generale dell'ONU, Dag Hammarskjold (l'aero sul quale viaggiava venne sabotato).

Da San Remo a Sion
La vera novità di Sanremo però fu un'altra: l'approvazione della Dichiarazione Balfour del 1917 che riconosceva il “focolare ebraico” in Palestina. Fu una concessione al sionismo blando, che in sé non è affatto un “male” ma legittimo rifugio di un popolo soggiogato, annientato in patria, costretto alla diaspora dai tempi degli imperatori Tito e Adriano e perseguitato per millenni. Del resto il “focolare” venne incluso nella Palestina, sotto mandato di Londra, poco incline a riconoscere speciali privilegi agli ebrei.
Oltre due anni dopo, il 24 luglio 1922, l'accordo di Sanremo ebbe veste “definitiva” con la risoluzione della Società delle Nazioni redatta in inglese, arabo ed ebraico. Mandataria rimase la Gran Bretagna. Venne riconosciuto un “organismo ebraico conveniente” col diritto di “dare pareri all'amministrazione della Palestina e di cooperare con essa in tutte le questioni economiche, sociali, ed altre suscettibili di interessare lo stabilimento della Sede nazionale ebraica e gli interessi della popolazione ebraica in Palestina”. Il Mandatario s'impegnò a “facilitare l'immigrazione degli ebrei, ferma restando la salvaguardia dei diritti civili e religiosi di tutti gli abitanti della regione a qualsiasi razza o religione appartenessero”, e assunse “la responsabilità dell'ordine e della decenza dei Luoghi Santi, compresi i diritti esistenti” per “assicurare il libero accesso ai Luoghi Santi, agli edifici ed ai luoghi religiosi e il libero esercizio del culto per tutti gli abitanti della Palestina”. Tutte partite ancor oggi aperte e sempre più in forse per l'esasperazione degli opposti fanatismi.

Il tramonto di Nitti
Ci voleva la villa di un buddista per arrivare a una visione universale della religiosità e della pace?
Un mese dopo la Conferenza diplomatica di Sanremo, fallimentare per l'Italia, Nitti venne messo in minoranza. Il 22 maggio formò un secondo governo, sempre con Vittorio Scialoja agli Esteri. Crollò un mese dopo e cedette il passo al settantottenne Giolitti, presidente del suo quinto e ultimo governo (1920-1921). Nelle “Memorie di un fesso” (ed. Forni) il “fratello” Alberto Giannini ha vergato un ritratto indimenticabile di “Cagoia”, come Nitti venne appellato da d'Annunzio.
Qualcuno forse deplora che a Sanremo in quell'aprile di cent'anni orsono l'Italia non sia riuscita a strappare qualche lembo di terre lontane, un pezzetto di Tanganika, di Africa Australe, della Mesopotamia e, chissà mai, non abbia rivendicato il Monte Ararat. In quel dopoguerra, però, essa già non sapeva come condursi in Eritrea, Somalia e Libia, tutta da riconquistare. E soprattutto doveva ricostruire se stessa dalle macerie della guerra, vinta sul campo ma persa con l'indebitamento dello Stato, passato da 7 a 90 miliardi di lire dell'epoca. La delusione tuttavia rimase. Cocente. La sfruttarono i nazionalisti, il d'Annunzio della Vittoria mutilata e, più abile di tutti, Benito Mussolini, che poi ritenne di lenirla con la conquista dell'Impero d'Etiopia: un'impresa anacronistica, costata una fortuna, naufragata in soli cinque anni: 1936-1941.
Perciò merita tornare a Sanremo, per intravvedere il Castello Devachan, ombra di un sogno fuggente. Apprezzarvi l'aurora, l'esalazione dei fiori, il sentore del mare, il crepuscolo. È il “mondo” uguale nei secoli, migliorato dal “Maestro” Mario Calvino e dai suoi emuli. “Porta” dell'unico  Paradiso sicuro: un lembo di questa “valle di lacrime” ove rileggere in santa pace Epicuro e Lucrezio, al riparo dai “rumori molesti”.

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