Questa volta al Convegno di Feltre, HitIer
parlò per tre ore. E non dette che ammonimenti e consigli. Mussolini tacque
ancora una volta, mostrandosi preoccupato per il bombardamento di Roma che
avveniva in quella stessa ora. Era visibilmente irritato e deluso, ma rimase in
silenzio a meditare sui rimproveri che HitIer aveva rivolto ai generali e
soldati italiani comandati da lui.
Per non aver trovato l'energia di replicare
qualcosa a Hitler, tornò a Roma nerissimo e telefonò al Ministro della Propaganda
Polverelli per avvertirlo che sarebbe arrivato un comunicato sul convegno da
collocare nei giornali senza rilievo alcuno: « mettetelo dove vi pare e come vi
pare ». Questa comunicazione tanto insolita sbalordì e insieme preoccupò il
Ministro già gravato in quei giorni da foschi presagi. Egli non aveva potuto resistere
alla tentazione di pubblicare un discorso rivolto da Mussolini ai gerarchi un
mese, prima. Lo aveva letto e riletto per molti giorni, si era convinto nella
sua grande
semplicità di spirito che si trattava di un
discorso storico (quanta monotonia dì aggettivi e quanto candore intellettuale!)
e aveva strappato l’autorizzazione a pubblicarlo pochi giorni prima dello
sbarco in Sicilia. Si trattava del discorso del bagnasciuga ove si ammoniva il
nemico che tutti i soldati sbarcati avrebbero occupato, sì, l’Italia
durevolmente, ma in posizione orizzontale. Dopo pochi giorni gli angloamericani
sbarcarono nell’isola e vi rimasero ben saldi, in piedi. Quel discorso così prontamente
contraddetto dai fatti, segnò la fine del credito di Mussolini.
Il nemico era penetrato nel territorio
nazionale con enorme superiorità di armi e di armati. Le nostre città, il più
alto prodotto della civiltà occidentale e cioè umana, erano destinate alla
distruzione totale, anche Roma era stata bombardata e più lo sarebbe stata in
avvenire. L'Incanto della « città aperta » era rotto. Il popolo di Roma, nella
giornata del 19 luglio aveva fatto sentire la sua insofferenza e il suo
desiderio di pace, cosi come nelle settimane precedenti, il Re aveva potuto
constatare, a Civitavecchia e a Genova. L'esercito non combatteva più, i
fascisti erano scomparsi, Mussolini non aveva un fascista alle sue spalle, ma solo
alcuni figuri che si sarebbero dileguati per sfuggire alla vendetta popolare
appena conosciuta la notizia delle sue dimissioni. Anche il Gran Consiglio si
sarebbe pronunciato contro il suo capo nei prossimi giorni.
Il convegno di Feltre aveva fatto capire, e
Mussolini lo aveva detto al Re, che non vi era più nulla da attendersi dalla
collaborazione tedesca. L'Italia era per i tedeschi null'altro che una difesa
avanzata (da sfruttare fino all’estremo) della fortezza hitleriana.
Vi era sì un elemento negativo: la
sproporzione tra le forze tedesche e le forze italiane non era diminuita, ma
cresciuta.
La battaglia di Sicilia era stata I‘opposto
di quella di Tunisia, i tedeschi sì erano dimostrati assai più combattivi degli
italiani. Ma in realtà tutte le nostre migliori divisioni erano rimaste al di
là delle frontiere e se prima Mussolini ne aveva impedito il ritorno in Patria,
perché si sentiva protetto dai tedeschi assai più che dagli italiani, ora il
governo di Berlino ne impedirà, il richiamo. Conveniva dunque agire rapidamente
e nel più assoluto segreto. Spetterà poi ai partiti clandestini, se hanno
radici nel popolo di uscire alla luce e di produrre la nuova atmosfera della
lotta contro il vero eterno invasore.
Cosi
avvenne il 25 luglio. Poté essere una coincidenza
non sgradita che anche dei fascisti altolocati condannassero la politica dì Mussolini,
ma la decisione'di revocargli il mandato era già stata presa dal Re ed era
ormai irrevocabile sin dal 20 luglio. Essa fu comunicata dal Re ad Ambrosio quando
non si poteva sapere che vi sarebbe stata una mozione Grandi contro Mussolini
che avrebbe ottenuto nel Gran Consiglio la maggioranza.
Senza dubbio il Re riteneva più opportuno un governo
militare e tecnico che fosse in grado di trattare l'armistizio con gli alleati
senza essere compromesso con il fascismo
e che potesse tenere a bada i tedeschi i quali si sarebbero invece lanciati
nell'aggressione appena avessero visto al Governo gli uomini dell’antifascismo.
Non bisogna dimenticare che il « patto d'acciaio » del maggio 1939, che
costituiva la base del nostro intervento, era fondato su una premessa
ideologica che faceva richiamo alla solidarietà delle due rivoluzioni. I tedeschi
avrebbero potuto, nel caso di un ministero Bonomi, invocare quel patto per
intervenire a loro agio. Allo stesso modo il Re non poteva chiamare al Ministero
i vari Federzoni o Grandi, come dopo si insinuò che era sua intenzione di fare,
per salvare... il fascismo. Egli temeva anzi che costoro volessero far pesare
il loro voto contro Mussolini per designarsi alla successione. Ecco perché si ricorse
ai militari ed ai tecnici, ecco perché tutti gli interpellati dalla Corona a
cominciare da Orlando e da Bonomi consigliarono Badoglio. In verità fu il solo
Badoglio a desiderare un ministero politico e sì recò dal Re nei primi giorni
di luglio per suggerirglielo. Fu un atto di modestia e dì onestà che fa onore
al vecchio maresciallo. Egli voleva che altri uomini assai più esperti di lui
nella politica, conoscitori di quei movimenti clandestini e dell'emigrazione
che avrebbero dovuto fornire, i quadri dell'Italia da rifare, lo coadiuvassero
nel Governo, nelle trattative difficili e insidiose dell'armistizio, nella preparazione
dello spirito pubblico alla probabile lotta contro i tedeschi. Forse,
giudicando aprés coup è possibile
stabilire che Badoglio avesse delle buone ragioni. I tedeschi, infatti, non sì lasciarono
ingannare dal Ministero; tecnico e cominciarono a far scendere dal Brennero
quelle divisioni che avevano pochi giorni prima negate a Mussolini
nell'incontro di Feltre. Bisognava, a loro giudizio, non lasciarsi sfuggire la
base italiana nella quale si poteva ritardare per molto tempo, lungo tutto il
corso della Penisola, la marcia nemica. Intanto l’Italia, scientificamente
depredata, avrebbe fornito all'esercito, al lavoro e alla popolazione del Reich
i viveri, gli uomini, i beni, le scorte, le macchine dell'alleato di ieri.
V'era insomma un altro paese da mettere a sacco e da sottoporre alla guerra
totale, mentre gli scienziati germanici preparavano le armi nuove per tentare
di far mutare ancora il corso della guerra.
Si poteva, dunque, in queste condizioni,
fare, subito un Ministero Politico, sebbene vi si opponessero ragioni che verremo
spiegando, ma non fu certo diffidenza o calcolo dinastico quel che portò ad una
diversa soluzione. Fu invece la somma dei giudizi e dei consigli degli uomini interpellati. Così deve dirsi l’espressione
«la guerra continua » che ha suscitato tante polemiche e che fu molto sfruttata
nei circoli stranieri contrari all'Italia. La creazione di un Ministero tecnico
fece sì che il Re si trovò solo con il vecchio maresciallo nel terribile
trapasso, dalla guerra contro gli anglo-americani alla guerra contro i
tedeschi. Era il momento più grave della nostra storia, dai giorni di Novara, e
tutto ci venne meno, ma non si rimproveri il Sovrano di averlo affrontato da
solo nella speranza di evitare maggiori danni alla Patria. Non fu certo per ambizione
o per libidine dì comando e tanto meno per interesse dinastico. Sarebbe stato
assai più agevole per la Corona
far assumere ai capi dei partiti la loro parte di responsabilità , nelle
trattative di armistizio. Ma non sì riflette che, anche per consiglio e per
volontà di quei capi, esse dovevano essere segretissime per sfuggire
all'accentuata sorveglianza tedesca? Anche più agevole sarebbe stato lasciare a
quelle personalità la responsabilità della difesa e della resa della capitale.
Nessuno avrebbe in seguito potuto inscenare la campagna scandalistica per « la
fuga di Pescara »,
Questo episodio della disfatta italiana ha
fornito, infatti ì il pretesto ai beneficiari di essa per inscenare una turpe
campagna di stampa che ancora perdura. Si è puntato sul turbamento psicologico
della popolazione della capitale per chiamare in causa direttamente la Monarchia
e renderla responsabile dei fatti del settembre.
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