Questo il titolo di una interessantissima
mostra tenutasi diversi anni or sono a Roma, nei locali dell’Archivio Centrale dello
Stato, per il centocinquantesimo anniversario della proclamazione del Regno d’
Italia e che riguardava leggi, uomini e strutture che hanno fatto l’Italia. La Mostra,
non ebbe il successo di pubblico che meritava, forse anche per l’ubicazione all’EUR,
ma essendo stato pubblicato un catalogo con lo stesso titolo,”La Macchina dello
Stato”, uscito nel 2011, edito da Mondadori Electa, ricchissimo di dati, di fotografie,
di tavole e tabelle, di documenti, è sperabile che lo stesso possa trovarsi tramite
internet od in qualche libreria specializzata od antiquaria. Farne oggi una recensione
approfondita non appare possibile per il numero e l’ampiezza dei temi e la personalità
degli autori dei vari capitoli, tutti di un estremo interesse per testo e documentazione.
Basti pensare alla sua strutturazione da “Il
primo quarantennio” dello Stato unitario, periodo sul quale ci soffermeremo
successivamente, a “Da Giolitti al primo
dopoguerra“, al “Fascismo“, in
cui sono state messe in luce sia le realizzazioni positive in tanti settori -dalle
opere pubbliche, all’architettura, all’istruzione, al lavoro e dopolavoro- sia l’apparato
poliziesco e repressivo e le discriminazioni razziali -a dimostrazione che non si
possono cancellare venti anni di storia, fermo restando il giudizio che dello stesso
periodo ciascuno può liberamente dare proprio in virtù di tutti i dati e gli elementi
esposti-, per chiudere con il breve periodo “Verso la Repubblica” dal 25 luglio 1943 alla promulgazione della attuale
Costituzione. Questi periodi, suddivisi in brevi capitoli riguardanti i singoli
problemi, sono stati preceduti da alcuni saggi: fra questi ne citiamo ad
esempio uno, intitolato “La Pubblica Amministrazione italiana da Cavour
a Giolitti“, di Giuseppe Galasso, estremamente completo ed obiettivo, dove
fra l’altro -in sottile polemica con chi contesta l’abrogazione di leggi e regolamenti
degli stati preunitari- rileva che negli anni napoleonici, in cui “...quasi tutta l’Italia era stata o annessa
all’impero francese o unita al Regno d’Italia, o aveva continuato a far parte del
regno di Napoli …con il fratello Giuseppe e poi..con Gioacchino Murat…, alla stessa
erano stati imposti la legislazione napoleonica, - con il Code Napoleon in testa –
e ordinamenti politici ed amministrativi... e grandi provvedimenti, quali la secolarizzazione
dei beni ecclesiastici…, riforme che non svanirono… nel 1815, con la restaurazione...
e ad esse si aggiunse il grande patrimonio costituito dalle esperienze amministrative
e militari fatte nei quadri dell’Italia napoleonica…”, per cui “lo stato italiano non sorgeva su una base di
totale. estraneità e diversità delle sue parti..”, afferma, dopo un’ampia disanima
delle vicende risorgimentali, che “…è sorprendente
che nelle storie politiche ed anche istituzionali del paese non sia stato abbastanza
colto questo... risalto della monarchia come punto di riferimento nella vita politica
nazionale e come suo strategico e impreteribile snodo istituzionale...”, concludendo
con un riferimento alla Pubblica Amministrazione, al suo ruolo “di modernizzazione e di dinamismo di una società
che, nella massima parte della penisola, appariva … nel 1861 più legata a equilibri
e logiche di antica tradizione che a pressanti istanze di movimento e di trasformazione…,
basti pensare alla parte avuta dallo stato italiano … nella dotazione di infrastrutture
moderne, a cominciare dalle ferrovie e della pubblica istruzione, oppure dalla grande
opera di amalgama nazionale svolta dallo stesso Stato con le sue forze armate,
scuola della nazione, come furono definite“ e questo grazie a quella leva obbligatoria
tanto criticata dai nostalgici borbonici, che forse preferivano che si spendessero
i ducati per pagare i reggimenti mercenari svizzeri o bavaresi.
Un altro saggio “I prodromi
dell’Unità“, di Romano Ugolini, è egualmente interessante perché dedica
ampio spazio ad uno dei “dimenticati“
del Risorgimento, insieme con Carlo Alberto, e cioè a Massimo d’Azeglio, al quale
attribuisce il grande merito di aver saputo indirizzare il giovane Sovrano, Vittorio
Emanuele II, sulla strada del costituzionalismo e di avere aperto le porte del Piemonte
“all’esulato nazionale, senza guardare troppo
alla fede politica di appartenenza. Non solo: a quell’esulato non offrì unicamente
un libero asilo, ma cercò, …di inserire le personalità più illustri e preparate
nelle strutture dello stato, conferendo da un lato stipendi, ma guadagnando
…l’apporto di una cultura umanistica e scientifica il cui innesto nei gangli vitali
della vita piemontese poteva già far parlare di un vero e proprio laboratorio nazionale“;
di questo particolarmente si giovò Cavour, per cui nel 1859 “allo scoppio del conflitto, nessuno dei principali
collaboratori di Cavour era piemontese. Parliamo di Farini, Minghetti, Mamiani,
Gualterio, Massari e La Farina..” e Gabrio Casati.
Venendo a “Il primo quarantennio“, dopo un breve accenno
allo sviluppo degli uffici postali passati dai 2220 del 1862 ai 2799 del 1873,
incrementati particolarmente nelle regioni meridionali “le più carenti al momento dell’ unificazione“, si passa alle “Misure dell’Unità d’Italia“ con la scelta
del sistema metrico decimale che, già effettuata dal Regno di Sardegna, dallo Stato
Pontificio e dal Ducato di Modena rispettivamente nel 1845, 1848 e 1849, fu estesa
prima alla Lombardia ed alle altre regioni con legge 28 luglio 1861, “fatta eccezione per le province napoletane e
siciliane, che avrebbero beneficiato di una dilazione per l’effettiva entrata in
vigore del sistema fino al primo gennaio 1863”. Le tavole di ragguaglio
ufficiali furono pubblicate e distribuite successivamente e sono alla base dell’unico
sistema metrologico, “potente fattore di unificazione
del paese dal punto di vista economico, tecnico-amministrativo e culturale“
per cui il Regno d’Italia poté partecipare ed aderire a pieno titolo alla Conferenza
Internazionale del Metro, tenutasi a Parigi il 20 maggio 1875.
Di non minore importanza ed urgenza
era “l’unificazione Monetaria“ in quanto
“nei territori che formavano nel 1861 il Regno d’Italia circolavano
263 diverse monete metalliche….” per cui “l’intralcio agli scambi commerciali era enorme e si sommava a quello prodotto
dai dazi doganali..”: alla vigilia dell’unità esistevano ben nove banche di
emissione che dopo l’unità furono concentrate in una unica banca nazionale, anche
se “…accanto ad essa restarono in vita le
due banche toscane e i due banchi meridionali“ fino al 1894, quando quelle toscane
e la banca romana si fusero per dare vita alla Banca d’Italia”, mentre sopravvissero
“…i due banchi meridionali…come banche di
emissione fino al 1926…”.
E “L’ unificazione legislativa ed amministrativa“ del Regno? Bisogna attendere
il 1865, data la delicatezza del problema con riferimento alle legislazioni degli
stati preunitari, e precisamente il 20 marzo per la pubblicazione della legge relativa
(la legge n.2248), anche se per la Corte dei Conti e per la Cassa Depositi e Prestiti,
fondata nel Regno di Sardegna nel 1840, vi erano state delle leggi precedenti nel
1862 e 1863, data l’ urgenza di poter disporre di queste istituzioni, ancora oggi
vive, vitali e fondamentali per il controllo delle spese e per lo sviluppo economico.
In tutta questa vicenda volta
a costruire uno stato moderno, almeno per l’epoca, si inseriscono alcuni fenomeni
che frenano lo sviluppo, distolgono energie e fondi: parliamo, ad esempio, de “Il brigantaggio”, al quale è pure dedicata una sezione della Mostra, che,
per essere debellato, richiese una legislazione speciale (Legge 1409 del 1863),
la quale prese nome dal deputato abruzzese Pica e rimase in vigore fino al 1865,
quando il fenomeno -che era storicamente endemico nel meridione d’ Italia ed al
quale si erano aggiunti, dopo l’unità, elementi di legittimismo borbonico e di rivolta
rurale- fu finalmente debellato.
Quanto alla educazione
scolastica, dopo la fondamentale legge Casati, abbiamo “La scuola di Coppino“, con la legge 3961 del 1877 che dà “...una risposta più forte alla problematica
dell’alfabetizzazione del paese…” rafforzando “...l’autorità dello Stato sulla scuola, facendo della istruzione elementare
gratuita, obbligatoria e laica uno dei suoi fondamenti...”, riuscendo a portare
già alla fine dell’anno scolastico 1886-1887 la sua applicazione in 8178 comuni
su 8267 e riducendo l’analfabetismo dal 78% del 1861 al 56% del 1900. Nel campo
della istruzione pubblica è da considerare pure “...il ruolo importante delle
scuole reggimentali nella riduzione dell’analfabetismo tra i coscritti...”,
a conferma anche da questo punto di vista della opportunità della leva obbligatoria.
Ed il territorio di questa Italia
unita? Ecco il grande lavoro “Dai catasti
preunitari al catasto italiano“: erano 22 i catasti degli stati preunitari,
di cui 8 di tipo geometrico-particellare ed i restanti di tipo descrittivo, che
dovettero fatalmente ancora sopravvivere per diversi anni prima di poter essere
unificati nel tipo geometrico-particellare con la legge del 1 marzo 1886
n.3682, legge Messedaglia, la quale produsse circa trecentomila fogli di mappa ed
i corrispondenti registri catastali, opera colossale terminata nel 1956, per la
quale dal 1934 fu di aiuto la aerofotogrammetria.
Questa conoscenza del territorio,
“Conoscere per Amministrare“, fu una
esigenza sentita dal nuovo stato e questa idea trovò “...il suo punto di forza nella creazione, già nel 1861, di una divisione di Statistica generale presso
il Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio (R.D. 9 ottobre 1861
n.294)”, grazie alla quale “nel primo
decennio postunitario, nonostante le difficoltà burocratiche, legislative e l’
inesperienza degli uomini e delle cose, come spiegherà Maestri (primo direttore,
medico ed uomo del Risorgimento), furono svolte indagini di fondamentale rilevanza”,
dai censimenti ai bilanci di comuni e province, delle casse di risparmio, delle
società commerciali ed industriali, alle statistiche delle società di mutuo soccorso
(1862), che in pochi anni “fecero guadagnare
all’Italia il riconoscimento internazionale. Già nel 1867 fu infatti prescelta per
ospitare, in Firenze, la sesta sessione del Congresso internazionale della
statistica“. Non dimentichiamo la inchiesta Jacini sulle condizioni dell’agricoltura
e l’impostazione di un’altra opera fondamentale per la conoscenza approfondita del
territorio, e cioè la compilazione della Carta Geologica della Stato, in quanto
all’epoca della unificazione “si poteva disporre
solo di carte parziali, anche se preziose, realizzate –soprattutto per la Toscana,
l’Emilia, il Piemonte e la Lombardia- da distinti geologi che avevano operato isolatamente
nei diversi stati…”, mentre esistevano vistose lacune per l’Italia centrale
e meridionale. E a questo si aggiunga l’ istituzione del Servizio Meteorologico,
per cui anche in questo settore il giovane Stato italiano entrava a far parte di
organismi internazionali ed a partecipare a congressi, quale quello di Vienna del
1873, dove il nostro fisico Giovanni Cantoni fu eletto membro del Comitato permanente.
Negli anni dal 1880 si imposta anche il lavoro sui corsi d’acqua realizzato,
tra l’altro, per introdurre in agricoltura moderni sistemi di irrigazione, particolarmente
opportuno in un paese soggetto a periodiche alluvioni. Sempre dopo il 1880 si pongono
le basi di quello che oggi chiamiamo “stato
sociale“, da un lato regolando il preesistente sistema delle società di mutuo
soccorso, esistenti da decenni particolarmente nel Piemonte Sabaudo e che nel 1894
avevano raggiunto il numero di 6722, dall’altro per quanto riguarda la legislazione
a favore dei lavoratori, partendo dal 1859 con la legge n.3755 sulla sicurezza dei
lavoratori delle miniere, proseguendo nel 1873 con la legge n.1733 sul divieto dell’impiego
dei fanciulli nelle professioni girovaghe, nel 1881 con la legge n.134 sulla Cassa
pensioni per impiegati statali, nel 1886 con la legge n.3657 sul divieto del lavoro
dei fanciulli negli opifici e nelle miniere, e arrivando alla legge 17 marzo 1898
n.80 sulla assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro nella industria
-con contributi a carico dei datori di lavoro- ed alla successiva legge del 17 luglio
1898 n.350, creatrice della Cassa di previdenza per gli operai, con la quale si
introdusse il principio dell’ assicurazione sussidiata di invalidità e vecchiaia,
firmate dal Re Umberto I del quale, così scrisse Giolitti nelle sue memorie, “non notai in Lui prevenzioni di sorta contro
una politica liberale e democratica. Egli intendeva con alto senso di responsabilità
la sua funzione e si informava moltissimo delle cose dello Stato, interessandosi
di tutto…”.
Questo il quadro complessivo, anche
se forzatamente incompleto, dell’enorme lavoro svolto in tutti i settori della vita
nazionale nel primo quarantennio dello stato unitario, i più complessi e difficili
data la disparità dei punti di partenza e le manovre e le azioni poste in atto dagli
avversari della Unità, nonché da quelle frange mazziniane che non sopportavano il
raggiungimento della unità ottenuto con -e grazie alla- Monarchia dei Savoia, lavoro
che consentì le ulteriori conquiste politiche, economiche e sociali del periodo
giolittiano, con il pieno consenso del giovane Re Vittorio Emanuele III, che ebbe
il suo culmine nelle celebrazioni del cinquantenario del Regno nel 1911 e nel successivo
completamento dell’ unità nel 1918.
La domanda conclusiva è: “tutto questo lavoro sarebbe stato possibile con
una diversa articolazione dello Stato“? Noi crediamo, in opposizione con chi
diceva “noi credevamo“, che lo Stato doveva
essere necessariamente centralizzato, in modo da utilizzare al meglio tutte le energie,
le competenze, le conoscenze che altrimenti si sarebbero disperse, provenienti da
tutte le regioni e le province, smentendo nei nomi e nei fatti la volgare accusa
di “piemontesizzazione“, dal momento che
le regioni meridionali dettero un contributo fondamentale di uomini, come poteva
vedersi in un’altra iniziativa -di cui dovremmo ricercare la documentazione -presa
nell’ambito della Pubblica Amministrazione sempre nell’anno del centocinquantenario-
e cioè la raccolta dei profili di 150 amministratori provenienti da tutte le
regioni del nuovo Regno,che dalla nascita, nel 1861, hanno onorato l’Italia e le
cui figure dovrebbero essere conosciute a memoria ed a monito nel grigiore dell’
età presente.
Domenico Giglio
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