Il 18 marzo 2019 saranno trascorsi
trentasei anni dalla morte dell’ultimo Re d’Italia, Umberto II. Come ogni
anniversario lo onorerò partecipando alla Santa Messa, assieme a mio nipote,
che ha lo stesso nome del sovrano. Per i trentasei anni dalla sua morte e per
ricordare questo buon Re, pianterò nella mia terra una quercia. Il tempo passa,
ma l’uomo non riesce a comprendere la grande lezione che Umberto II ha dato
alla storia. Il Re d’Italia riuscì a sopportare un destino avverso, una sorte
che di solito è assegnata a quelli che hanno le spalle più forti, diventando
così un grande esempio per le generazioni future. Sua madre, la Regina Elena,
gli aveva insegnato ad amare Dio e ad accettare il suo disegno.
Re Umberto II
non dimenticò mai nella sua vita di essere un buon cattolico. La lealtà,
l’onestà e l’umanità lo contraddistinguevano. La solitudine che ha dovuto
sopportare il sovrano in esilio fu un duro percorso, che avrebbe messo alla
prova chiunque. Qualcuno non ha ancora pensato di fare un film sulla vita di
questo sovrano che sicuramente avrebbe successo e permetterebbe di conoscere la
vita di un galantuomo. Al momento di lasciare l’Italia, non avrebbe mai pensato
che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto il suo Paese. Credo
che in cuor suo pensasse di passare qualche tempo in esilio e di ritornare. La
storia non è andata in questo modo, il Re trascorse tutta la sua vita in un
Paese che non era il suo, amato dai portoghesi che lo stimavano e gli erano
grati d’aver scelto il loro Paese per viverci. Passò trentasei anni in esilio,
l’unica cosa che domandò fu quella di ritornare a morire in quella terra che
aveva amato per tutta la vita. Non chiedeva che un letto da cui non si sarebbe
più mosso, era ammalato gravemente e forse avrà pensato al suo amico, il
campione Primo Carnera, che anni prima, anche lui aveva scelto di morire nel
suo piccolo paese. Il Re non domandava molto, ma il Parlamento italiano vedeva
in lui un pericolo, forse si temeva un ritorno nostalgico. Le lacrime di
coccodrillo di alcuni politici che vedemmo dopo la sua morte, furono la cosa
più triste cui si potesse assistere. Ricordo che in quei tempi la Chiesa non
mosse una parola a favore del Re, non un appello alle istituzioni. Eppure la
Chiesa aveva avuto molto da Casa Savoia, si pensi solo alla Sacra Sindone.
L’atteggiamento indifferente della Chiesa non so ancora spiegarmelo. Fui tra i
tanti italiani che parteciparono ai funerali del Re in terra d’esilio e come
tutti con un doppio dolore, sia per aver perduto il Re, che per seppellirlo in
terra straniera. Nell’abbazia di Hautcombe, anche quest’anno, molti italiani
arriveranno per ricordare il Re. La storia di questo sovrano non è mai giunta
veramente alla gente e, probabilmente, non ci sarà nessuno tra i politici che
lo ricorderà. Il Re avrebbe meritato un trattamento diverso. Alla sua morte, il
giornalista Indro Montanelli scrisse sul – Giornale – del 19 marzo 1983, il
seguente articolo. ” Nessuno può dire che Re sarebbe stato Umberto di Savoia,
se fosse rimasto Re. Nelle poche settimane in cui lo fu, anche i più arrabbiati
repubblicani che ebbero a che fare con lui ne riconobbero l’equilibrio, la
correttezza e la lealtà. Chiamato a rispondere di colpe non sue, lo fece senza
trincerarsi dietro quelle di suo padre. Mai una parola uscì dalla sua bocca, né
allora né poi, contro di lui. Quando, anni dopo, gli chiesi a Cascais se era
vero che l’otto settembre il Re gli aveva proibito di restare a Roma alla testa
delle truppe che dovevano difenderla dai tedeschi- un gesto che forse avrebbe
salvato la monarchia- me lo smentì, mentendo. Mi accorsi che non difendeva la
memoria di suo padre, per affetto di figlio: di affetti, nelle case regnanti,
ce ne sono sempre pochi, e in quella dei Savoia meno che nelle altre.
Difendeva, da Re, il Re. Qualcuno gli rimprovera di aver contestato i risultati
del plebiscito che sanciva la fine della Corona, qualche altro gli rinfaccia di
esservisi troppo facilmente rassegnato. Credo che Umberto si rendesse conto che
anche se qualche broglio c’era stato, esso non era tale da sovvertire il
verdetto: su un margine risicato, quale in ogni caso sarebbe stato quello del 2
giugno, possono vincere le repubbliche, non le monarchie. Capì che una
resistenza avrebbe significato il sangue per le strade.
E preferì abbandonare la
partita. Raccontano che, salendo a Ciampino sull’aereo che doveva condurlo a
Lisbona, a chi gli diceva che presto sarebbe tornato, rispondesse:”I re sono
come is gni: o si ricordano subito o non si ricordano più”. Tante volte nella
mia vita mi sono domandato perché avessi nel cuore il Re D’Italia e la
Monarchia, cosa mi avesse spinto ad avvicinarmi a queste istituzioni. La scelta
fu per me obbligatoria, sono sempre stato vicino a quelli che subiscono delle
ingiustizie e il Re aveva subito la più tremenda delle iniquità, quella di
essere tradito da tanti che gli avevano giurato lealtà. Questo può capitare a
uomini veri, che lottano con lealtà e il Re è sempre stato fino all’ultimo
giorno una persona vera e leale. Nel lungo esilio, in cui la solitudine era
imperante, trovava nella fede la sua forza. Da buon cristiano andava alla messa
e pregava il buon Dio che lo sorreggesse. Quando partì per l’esilio, disse “
Ero incapace di pensare. Avevo la sensazione di essere immerso in un clima
irreale. Poi mi resi conto che l’aereo decollava. Vidi Roma laggiù in un velo
grigio di pioggia: di colpo riacquistai, acutissimo, il senso della realtà. E
in quel momento, lo confesso, non fui più capace né mi curai di trattenere le
lacrime”. In quell’aereo cui erano stati tolti i simboli della monarchia, e i
cui piloti vestivano normalmente, senza la divisa della Regia Aereonautica, il
Re salutava per sempre l’Italia. Un mio amico poeta, un giorno m’inviò questa
poesia per farmi capire il dramma che aveva subito il Re. “Fuori dalla mia
patria che ho amato e amo con tutto me stesso, osservo il susseguirsi degli
avvenimenti senza poter intervenire, senza poter fare qualcosa, senza, quando
sarà l'ora, poter dormire il sonno eterno nel mio suolo natio. Osservo, osservo
e, dall'estero, deluso e intristito nel cuore, mi rammarico”. Leggendo queste
parole ho pensato a quel pugno di terra italiana che una contadina aveva dato
al Re prima della sua partenza. Con il Re Umberto II gli avversari non furono
molto corretti, specialmente quelli che si consideravano cattolici, lo erano
solo davanti agli uomini, ma non davanti a Dio. Quando arrivò in terra
d’esilio, il Re scrisse una lettera al suo Ministro Falcone Lucifero e con
quelle parole nate dal cuore, spiegava il suo stato d’animo di esule. “ Caro
Lucifero! Eccomi in Portogallo! Ma il mio cuore è con Voi tutti: con gli amici
noti e ignoti, con tutti quelli che hanno creduto in me per tanto tempo ... e
che ora? Io non dimentico, ma senza notizie si sta male, molto male, e il
tormento per il Proprio Paese è tremendo e a stento si nasconde… Ripenso alle
ultime ore di Roma, a quando mi fu detto che allontanandomi per poco dalla
città tutto mi sarebbe stato più semplice e invece quel “trucco “che non voglio
qui definire in termini “appropriati”! Non so le reazioni degli amici né quelle
degli “alleati”. Attendo con ansia notizie! Balbo forse le dirà qualcosa di
qui: il paese è bello, tutti molto cortesi: dal Presidente all’ortolano della
nostra villa, ospitalità affettuosa, la casa molto simpatica, il giardino
bellissimo con la vista, senza luce però e a trenta chilometri dalla città! Un
po’ troppo! E il clima come da noi in marzo-aprile. Caro Lucifero! Lei non può
credere come io pensi a Lei! Purtroppo come non le seppi dire partendo da Roma,
credo che non saprò mai dirle tutto quello che provo per Lei! La mia gratitudine
è come la mia amicizia, sicura, costante e ferma! Mi dia presto notizie e mi
abbia sempre per il suo affezionatissimo, riconoscentissimo Umberto .
Da Cintra, 17 VI 1946
Avevano convinto il Re di
partire per un periodo, per calmare le acque, ma dopo l’allontanamento, il
tradimento. Il Re dichiarò alla giornalista straniera Edith Wieland: “La mia
partenza dall’Italia doveva essere una lontananza di qualche tempo in attesa
che le passioni si placassero. Poi pensavo di poter tornare per dare anch’io,
umilmente e senza avallare turbamenti dell’ordine pubblico, il mio apporto
all’opera di pacificazione e di ricostruzione ”. Al giornalista e scrittore
Bruno Gatta disse:” Mai si parlò d’esilio, da parte di nessuno. Né mai, io
almeno, vi avevo pensato. Poi, durante i lunghi lavori della Costituzione
s’inflisse l’esilio a me,a mia moglie e a mio figlio. Una pena inesistente in
ogni altra legislazione”. Spesso nella mia vita mi sono chiesto se chi subisce
un torto debba passare per uno che lo fa. Il Re rimase in esilio tutta la vita,
ma nessun politico lo potrà mai accusare di non essere sempre stato un Re
onesto. E chi ama si sacrifica per il bene. L’Italia forse non meritava un Re
come Umberto II. Ha trascorso trentasette anni in esilio e sono trentasei anni
dalla sua morte. Il Re è ancora lontano dall’Italia, ma è nel cuore di quelli
che continuano ad amarlo. Con amarezza posso trascrivere quella citazione del
grande Francesco Carnelutti:” L’Italia è la culla del diritto, e la tomba della
giustizia”. I tempi passano, ma l’Italia non ha ancora permesso ai monarchici
di poter dare sepoltura al Pantheon, al proprio Re. Per il trentaseiesimo
anniversario della sua scomparsa, esporrò la mia bandiera Sabauda, quella che
ha lo stemma del Re. Umberto II confidò al giornalista Giovanni Mosca: ”E’ una
pena terribile. Nessuno conosce l’Italia, angolo per angolo, quanto me. Nessuno
immagina quanto io la rimpianga. C’è nella lingua portoghese una parola,
saudade, che è qualche cosa di più che rimpianto, qualche cosa più che nostalgia.
E’ intrisa di dolore”.
Un articolo meraviglioso, che riempie il cuore di amore e contemporaneamente tristezza e rabbia per quello che ha sofferto il nostro re e per l' oblio in cui volontariamente i nostri politici l' hanno relegato.
RispondiElimina