NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 6 marzo 2019

ANDREA CAMILLERI, IL “LATO C” DI FRANCESCO CRISPI


E ROSALIA MONTMASSON, L'ANGELO CADUTO  

di Aldo A. Mola

Il neo-meridionalismo siculocentrico di Andrea Camilleri...
“Maxima debetur puero reverentia...” dicevano gli antichi. Altrettanta se ne deve agli anziani. Con una differenza. Dal “puer” non ci si attendono lezioni di storia. All'anziano, invece, si concede volentieri che narri il “suo” buon tempo andato, spesso rivisto con occhiali deformanti atti a cancellare i cattivi ricordi e a salvare i gradevoli. Ma se il vecchio parla del tempo “di tutti”, se s'impanca a sentenziare sui massimi sistemi dell'universo, allora si espone a obiezioni e a correzioni come chiunque altro. È il caso di Andrea Camilleri, che ha fustigato Francesco Merlo con una lettera a “Repubblica” intrisa di commosso elogio dell'Isola del Sole, a suo avviso terra  felice sino a quando venne saccheggiata, come tutto il Mezzogiorno, da “piemontesi” e “nordisti”. La reverenza verso la verità storica ha la meglio su quella per l'anagrafe.  Camilleri ha un'età invidiabile, ma questo non è un merito particolare. Accade a un numero sempre più elevato di abitanti del Paese Italia proprio grazie al progresso sociale, economico e civile dovuto all'unificazione nazionale del 1859-1860 e al suo inserimento nel circuito mondiale che ha sommato scienza e diffusione del benessere, superando i particolarismi. Per buona sorte (il suo provvidenziale Stellone) e di alcune ondate di classe dirigente vera susseguitesi nel tempo, sia pur con cesure e discontinuità, l'Italia fece e ancora fa parte dell'“Occidente”. E' avvenuto per merito della unione, che fa aggio sulla deflagrazione e sulla temuta balcanizzazione implicita nei propositi pseudo federalistici, antitetici al senso complessivo della sua storia millenaria. Camilleri gode del plauso per la trasposizione filmica dei suoi racconti, in specie la serie televisiva del Commissario Montalbano, dovuta alla speciale bravura di Luca Zingaretti, anche più delle “storie”, il cui pregio letterario esula dalle presenti considerazioni. Quando appunto si è autorevoli, quando si parla “erga omnes”, si assumono speciali responsabilità. Anzitutto la “reverentia” che tutti dobbiamo alla verità dei fatti.
Orbene, secondo Camilleri intorno al 1100 la Sicilia già aveva un parlamento mentre l'Italia settentrionale “brancolava nel buio del medioevo”. Forse dovrebbe rileggere alcune opere sicuramente a lui ben note, da “Gli arabi in Sicilia” del suo conterraneo Michele Amari all'“Italia moderna” dell'abruzzese  Gioacchino Volpe. All'epoca, come nei secoli precedenti e in quelli successivi, l'Italia fu un crogiolo di genti e di conseguenti apporti di civiltà. Solo sull'inizio del Novecento, poco più di un secolo fa, una conventicola fanatica, imbevuta di nazionalismo, inventò il mito della “razza italiana”. I suoi apologeti non ne furono mai pienamente consci, ma nell'insieme ebbero l'intento di superare i “popoli d'Italia” e le loro rispettive vicende in un “unicum”, una “nazione” storicamente mai esistita, come ripetutamente spiegato, fra altri, da Giuseppe Galasso nell'insuperato “L'Italia come problema storiografico”.

… e la “razza italiana” di uno spretato massonofago.
Un famoso spretato, massonofago come tanti clericali dei tempi suoi, quando riuscì a farsi nominare Ispettore della razza nella Repubblica sociale italiana da Benito Mussolini (che per note ragioni cercava di vederlo meno possibile e solo con le mani in basso) impostò la legge che riconosceva “italiani” quanti fossero stati in grado di indicare gli antenati almeno dall'inizio del secolo XIX. Scordava che tra il 1800 e il 1814 mezza Italia dipendeva direttamente da Parigi, l'altra metà era governata dal figlio adottivo di Napoleone o da suo cognato, Gioacchino Murat, la Sardegna aveva per re il francofono Vittorio Emanuele I di Savoia e la Sicilia era sotto controllo di lord William Bentinck, che convinse Ferdinando IV di Borbone a liberarsi dall'ingombrante moglie Maria Carolina d'Asburgo, farfallona amorosa, e gli dettò la Costituzione dell'isola. Al confronto con lo spretato Telesio Interlandi, il razzista di complemento biografato da Giampiero Mughini (ed.Marsilio) pare un dilettante. 
A sostegno del neo-meridionalismo siculocentrico Camilleri cita con orgoglio alcune città monumentali della Trinacria: Agrigento, Erice, Monreale, Noto, Siracusa, Taormina... Sono tutti capolavori di altrettante e diverse civiltà e della loro sovrapposizione e, talvolta, fusione nel corso del tempo: fenici, greci, romani, bizantini, arabi, normanni, aragonesi, spagnoli, asburgici d'Austria, Borboni di Spagna e loro progenie. Lì è il fascino dell'Isola: un “continente”, uno straordinario mosaico, che affascinò nel tempo i suoi visitatori. Il “viaggio in Sicilia” divenne un classico attestato da Wolfgang von Goethe. Esso propiziava l'incontro con i suoi uomini, così unici e così fantasmagorici, dallo sguardo intenso come nei ritratti di Antonello da Messina. A proprio conforto Camilleri cita anche, in ordine molto sparso, le eccellenze politico-culturali siciliane: Vincenzo Bellini, Finocchiaro Aprile (Camillo, ministro della Giustizia con Giolitti e massone come suo figlio, Andrea: con la differenza che il primo fu tenacemente “unitario”, il secondo focosamente separatista), lo scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa (precorso dall'insuperabile Federico De Roberto), Salvatore Quasimodo, massone e premio Nobel per la letteratura, e Vittorio Emanuele Orlando, giureconsulto insigne. Quando, dopo Caporetto, questi ascese a presidente del Consiglio il 30 ottobre 1917 la deputazione siciliana gli propose di barattare l'abolizione del servizio militare per gli isolani con l'autonomia economica. Unitario sino al midollo, Orlando respinse sdegnosamente un' “offerta” che sapeva di ricatto, se non di tradimento.
Naturalmente Camilleri esalta il presunto primato economico del Regno delle Due Sicilie alla vigilia della nascita del regno d'Italia (1861): marina, commerci, cantieri, riserve d'oro... “Laudator temporis acti”, lo scrittore dovrebbe però spiegare come mai, se il Mezzogiorno viveva in amorosi sensi, come egli sostiene, la Sicilia insorse ripetutamente in armi contro Napoli, nel 1820 e nel 1848, e la sua ribellione fu sanguinosamente repressa “manu militari” da Ferdinando I di Borbone (ex IV) e poi dal nipote, Ferdinando II di, che si meritò l'epiteto di “Re Bomba” per quanto fece sulla pelle di Messina. Va anche ricordato che nel 1713 re di Sicilia divenne il duca Vittorio Amedeo II di Savoia e che nel 1848 i siciliani offrirono la corona dell'isola a un altro Savoia, a conferma che non volevano proprio saperne di Napoli. Il dualismo tra la Sicilia e le terre “al di qua del Faro” fu pari solo a quello tra Sicilia occidentale e Sicilia orientale, tema che esula da queste poche righe. Camilleri dovrebbe anche spiegare perché la “Borbonia Felix” con tutto il benessere da lui decantato avesse pochi chilometri di ferrovia in Campania e nessuno nel resto del regno, Sicilia inclusa. Dovrebbe dire come mai la popolazione di Calabria, Basilicata, Abruzzo fosse per l'80-90% analfabeta, la rete stradale quasi inesistente (il traffico commerciale costiero superava quello per via interna) e mancassero decenti collegamenti terrestri tra Tirreno e Adriatico, come del resto nello Stato Pontificio.
I “fatti” sono nelle statistiche, nell’ingente massa di ricerche esperite da politici indipendenti, quali Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, che a proprie spese condussero la celebre “Inchiesta” sulla Sicilia, perno del meridionalismo  un tempo fiorente ma oggi soffocato dalla confusione tra polemica spicciola e storia (è il caso dei libelli e della pletora di articolesse di Pino Aprile e dei suoi imitatori, corrivi ai ditirambi in onore di briganti e brigantesse).
Per un ritratto veridico della sua terra, Camilleri dovrebbe infine ricordare i tanti siciliani e, più in generale, meridionali suppliziati, detenuti, costretti all'esilio da sovrani spergiuri e imbelli: gli Illuministi “napoletani” (in realtà rappresentanti di tutto il Mezzogiorno, come ampiamente documentato da Benedetto Croce e Franco Venturi), i costituzionalisti del 1820-21 e quelli del 1848: Vincenzo Cuoco, Pietro Colletta, benefattore di Giacomo Leopardi, Luigi Settembrini, Pasquale Stanislao Mancini (intrinseco di Camillo Cavour e docente di Giolitti a Torino) e il grande Francesco De Sanctis, il cui “Discorso ai Giovani” (1848) è stato ripubblicato dal presidente dell'Associazione ex Allievi della Nunziatella, Giuseppe Catenacci, in memoria del grande storico della letteratura italiana e ministro della pubblica istruzione, già docente nella Scuola militare dalla quale uscirono Enrico Cosenz, Domenico Primerano e Alberto Pollio, capi di stato maggiore dell'Esercito italiano,  e Salvatore Pianell, tra i migliori in campo nella guerra del 1866.

Francesco Crispi: rivoluzione, riforme e un matrimonio volante
Esuli siciliani furono anche Giuseppe La Farina, Francesco Ferrari e Francesco Crispi, detto “Ciccio” in famiglia e per gli amici, come Camilleri appella Francesco Merlo.
“Albanese” come Bettino Craxi, il siciliano Crispi (Ribera, provincia di Agrigento, 1818 – Napoli, 1901) con Giovanni Giolitti è e rimarrà tra i massimi Statisti della Nuova Italia. Studiato da Arturo Carlo Jemolo, Sergio Romano e vent'anni addietro da Christopher Duggan, col passare degli anni Crispi emerge sempre più nel suo vero valore di uomo di Stato. Al suo principale governo (1887-1891) si debbono riforme fondamentali: l'istituzione dei sottosegretari di Stato, il nuovo codice di diritto penale, che abolì la pena di morte e pose l'Italia all'avanguardia nel mondo, l'elezione dei sindaci dei comuni con più di 10.000 abitanti e dei presidenti delle deputazioni provinciali, la trasformazione degli enti di carità in istituti di pubblica assistenza e beneficenza, l'accelerazione di gigantesche opere pubbliche e una politica estera fondata sull'alleanza difensiva di Roma con Berlino e Vienna e sulla convergenza con Londra  per la stabilità del Mediterraneo, a tutto vantaggio dell'espansione italiana, tarpata dall'imposizione francese del protettorato sulla Tunisia. In termini solo apparentemente diversi la sua linea venne proseguita e riaffermata dal “grande ministero” Giolitti- Antonino di San Giuliano, catanese, che si sublimò nella sovranità dell'Italia su Tripolitania e Cirenaica e nella liberazione di Rodi e del Dodecanneso dal feroce dominio secolare di quella Turchia che oggi qualcuno, pretendendo ci bendassimo gli occhi dinnanzi a un regime oggettivamente liberticida e negatore delle conquiste civili introdotte dal “fratello Ataturk”, vorrebbe nell'Unione Europea.
Molti uomini politici (ma vale anche, se non di più, per capitani d'industria, finanzieri, artisti, scrittori, scienziati e persino per ecclesiastici perché “tous les hommes sont hommes et les moines sourtout...”) hanno pagine più e meno commendevoli. Quelle di “don Ciccio” Crispi sono ora narrate da Marco Ferrari nel gustoso e informato Rosalia Montmasson. L'angelo dei Mille (Mondadori). Nata nel 1823, di origini savoiarde (ovvero dell'allora Regno di Sardegna), migrata a Marsiglia per trar di che vivere dal suo mestiere di lavandaia, Rose (Rosalia) vi “conobbe” (nel senso biblico) il giovane Crispi, esule politico. Di avventura in avventura il giovane “don Ciccio”, avvocato senza reddito, la prese in moglie in un forzato soggiorno a Malta: un matrimonio celebrato il 27 dicembre 1854 da un sacerdote forse non abilitato all'amministrazione del rito e con due testi a loro volta esuli, Giorgio Tamajo e Luigi Dario Depreti.

Il “lato C” di “don Ciccio”.
Un giorno a Torino, ove dimorava in via Vanchiglia,  Rosalia ebbe la sgradevole sorpresa di aprire la porta a una  precedente moglie di Crispi, Felicita Vella, detta Ciuzza, accompagnata dal figlio, Tommaso. Fu poi col marito nella garibaldina spedizione dei Mille (5 maggio 1860), unica donna a bordo, poi a Palermo (ove “don Ciccio” subì l'attentato che lo convinse a rifugiarsi in una loggia massonica il 13 febbraio 1861), e ne assecondò passo passo il corso politico, segnato dalla scelta fondamentale enunciata nel settembre 1864: “La monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe”. Crispi ormai rifiutava di essere classificato mazziniano o garibaldino. Era Crispi. E lo mostrò nel tempo, sino all'elezione a presidente della Camera dei deputati e all'ascesa a ministro dell'Interno e a presidente del Consiglio.
Dopo i due figli avuti dalla “segretaria” del suo ormai fiorentissimo studio forense,  Luisa Del Testo, egli ebbe l'ultimo incontro fatale, con la giovane Filomena (Lina) Barbagallo. Ottenuto un “accordo” con Rosalia (1875) e l'annullamento del precedente matrimonio “per vizio di forma”, formalmente libero dall'imputazione di bigamia sposò Lina. La loro figlia, Giuseppa Ida Marianna, era ormai grandicella. Andò in sposa al principe di Linguaglossa ed ebbe l'onore di un carme di Giosue Carducci,  dalla vita “sentimentale” abbastanza disordinata. Il “lato C” della vicenda umana di Crispi riserva dunque pagine sconcertanti, ma non troppo diverse da quelle del “birichino” Cavour e dei primi due re d'Italia. Umberto I lo liquidò come “un porco”, ma ne aveva bisogno e ne condivise la politica estera, specie la coloniale, perno del suo secondo governo (1893-1896), alla cui guida venne chiamato benché fosse implicato fino al collo nello scandalo della Banca Romana. A distruggerlo non furono i romanzi scollacciati di Léo Taxil e di Domenico Margiotta, né i “fasci siciliani”, né socialisti rivoluzionari e anarchici. Proprio Crispi, precursore della Conciliazione Stato-Chiesa, presente Guglielmo Sanfelice, arcivescovo di Napoli, invitò al patto “Con Dio, con il Re, per la patria”. Egli fu travolto dalla sconfitta del corpo di spedizione italiano contro Menelik, negus d'Etiopia (1° marzo 1896). Al governo salì un altro siciliano, il marchese Antonio di Rudinì, dalla vita privata altrettanto sfortunata.
“Sunt lacrimae rerum...”. Malgrado le loro sorti individuali, quegli uomini fecero l'Italia. È emblematico che un dibattito sul bel libro di Ferrari venga promosso ad Alessandria (alle 17 del 9 marzo, Museo della Garbarina) dal centro studi presieduto da Marco Mensi e intitolato a Urbano Rattazzi, altro statista dalla vita privata parecchio turbinosa: un cognome, un destino. Così fu e per molti aspetti è la Storia d'Italia...

Aldo A. Mola

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