E ROSALIA MONTMASSON,
L'ANGELO CADUTO
Il neo-meridionalismo siculocentrico di
Andrea Camilleri...
“Maxima debetur puero reverentia...” dicevano
gli antichi. Altrettanta se ne deve agli anziani. Con una differenza. Dal
“puer” non ci si attendono lezioni di storia. All'anziano, invece, si concede
volentieri che narri il “suo” buon tempo andato, spesso rivisto con occhiali
deformanti atti a cancellare i cattivi ricordi e a salvare i gradevoli. Ma se
il vecchio parla del tempo “di tutti”, se s'impanca a sentenziare sui massimi
sistemi dell'universo, allora si espone a obiezioni e a correzioni come
chiunque altro. È il caso di Andrea Camilleri, che ha fustigato Francesco Merlo
con una lettera a “Repubblica” intrisa di commosso elogio dell'Isola del Sole,
a suo avviso terra felice sino a quando
venne saccheggiata, come tutto il Mezzogiorno, da “piemontesi” e “nordisti”. La
reverenza verso la verità storica ha la meglio su quella per l'anagrafe. Camilleri ha un'età invidiabile, ma questo
non è un merito particolare. Accade a un numero sempre più elevato di abitanti
del Paese Italia proprio grazie al progresso sociale, economico e civile dovuto
all'unificazione nazionale del 1859-1860 e al suo inserimento nel circuito
mondiale che ha sommato scienza e diffusione del benessere, superando i
particolarismi. Per buona sorte (il suo provvidenziale Stellone) e di alcune
ondate di classe dirigente vera susseguitesi nel tempo, sia pur con cesure e
discontinuità, l'Italia fece e ancora fa parte dell'“Occidente”. E' avvenuto
per merito della unione, che fa aggio sulla deflagrazione e sulla temuta
balcanizzazione implicita nei propositi pseudo federalistici, antitetici al
senso complessivo della sua storia millenaria. Camilleri gode del plauso per la
trasposizione filmica dei suoi racconti, in specie la serie televisiva del
Commissario Montalbano, dovuta alla speciale bravura di Luca Zingaretti, anche
più delle “storie”, il cui pregio letterario esula dalle presenti
considerazioni. Quando appunto si è autorevoli, quando si parla “erga omnes”,
si assumono speciali responsabilità. Anzitutto la “reverentia” che tutti
dobbiamo alla verità dei fatti.
Orbene, secondo Camilleri intorno al 1100 la
Sicilia già aveva un parlamento mentre l'Italia settentrionale “brancolava nel
buio del medioevo”. Forse dovrebbe rileggere alcune opere sicuramente a lui ben
note, da “Gli arabi in Sicilia” del suo conterraneo Michele Amari all'“Italia moderna”
dell'abruzzese Gioacchino Volpe.
All'epoca, come nei secoli precedenti e in quelli successivi, l'Italia fu un
crogiolo di genti e di conseguenti apporti di civiltà. Solo sull'inizio del
Novecento, poco più di un secolo fa, una conventicola fanatica, imbevuta di
nazionalismo, inventò il mito della “razza italiana”. I suoi apologeti non ne
furono mai pienamente consci, ma nell'insieme ebbero l'intento di superare i
“popoli d'Italia” e le loro rispettive vicende in un “unicum”, una “nazione”
storicamente mai esistita, come ripetutamente spiegato, fra altri, da Giuseppe
Galasso nell'insuperato “L'Italia come problema storiografico”.
… e la “razza italiana” di uno spretato
massonofago.
Un famoso spretato, massonofago come tanti
clericali dei tempi suoi, quando riuscì a farsi nominare Ispettore della razza
nella Repubblica sociale italiana da Benito Mussolini (che per note ragioni
cercava di vederlo meno possibile e solo con le mani in basso) impostò la legge
che riconosceva “italiani” quanti fossero stati in grado di indicare gli
antenati almeno dall'inizio del secolo XIX. Scordava che tra il 1800 e il 1814
mezza Italia dipendeva direttamente da Parigi, l'altra metà era governata dal
figlio adottivo di Napoleone o da suo cognato, Gioacchino Murat, la Sardegna
aveva per re il francofono Vittorio Emanuele I di Savoia e la Sicilia era sotto
controllo di lord William Bentinck, che convinse Ferdinando IV di Borbone a
liberarsi dall'ingombrante moglie Maria Carolina d'Asburgo, farfallona amorosa,
e gli dettò la Costituzione dell'isola. Al confronto con lo spretato Telesio
Interlandi, il razzista di complemento biografato da Giampiero Mughini
(ed.Marsilio) pare un dilettante.
A sostegno del neo-meridionalismo
siculocentrico Camilleri cita con orgoglio alcune città monumentali della
Trinacria: Agrigento, Erice, Monreale, Noto, Siracusa, Taormina... Sono tutti
capolavori di altrettante e diverse civiltà e della loro sovrapposizione e,
talvolta, fusione nel corso del tempo: fenici, greci, romani, bizantini, arabi,
normanni, aragonesi, spagnoli, asburgici d'Austria, Borboni di Spagna e loro
progenie. Lì è il fascino dell'Isola: un “continente”, uno straordinario
mosaico, che affascinò nel tempo i suoi visitatori. Il “viaggio in Sicilia”
divenne un classico attestato da Wolfgang von Goethe. Esso propiziava
l'incontro con i suoi uomini, così unici e così fantasmagorici, dallo sguardo
intenso come nei ritratti di Antonello da Messina. A proprio conforto Camilleri
cita anche, in ordine molto sparso, le eccellenze politico-culturali siciliane:
Vincenzo Bellini, Finocchiaro Aprile (Camillo, ministro della Giustizia con
Giolitti e massone come suo figlio, Andrea: con la differenza che il primo fu
tenacemente “unitario”, il secondo focosamente separatista), lo scrittore Giuseppe
Tomasi di Lampedusa (precorso dall'insuperabile Federico De Roberto), Salvatore
Quasimodo, massone e premio Nobel per la letteratura, e Vittorio Emanuele
Orlando, giureconsulto insigne. Quando, dopo Caporetto, questi ascese a
presidente del Consiglio il 30 ottobre 1917 la deputazione siciliana gli
propose di barattare l'abolizione del servizio militare per gli isolani con
l'autonomia economica. Unitario sino al midollo, Orlando respinse sdegnosamente
un' “offerta” che sapeva di ricatto, se non di tradimento.
Naturalmente Camilleri esalta il presunto
primato economico del Regno delle Due Sicilie alla vigilia della nascita del
regno d'Italia (1861): marina, commerci, cantieri, riserve d'oro... “Laudator
temporis acti”, lo scrittore dovrebbe però spiegare come mai, se il Mezzogiorno
viveva in amorosi sensi, come egli sostiene, la Sicilia insorse ripetutamente
in armi contro Napoli, nel 1820 e nel 1848, e la sua ribellione fu
sanguinosamente repressa “manu militari” da Ferdinando I di Borbone (ex IV) e
poi dal nipote, Ferdinando II di, che si meritò l'epiteto di “Re Bomba” per
quanto fece sulla pelle di Messina. Va anche ricordato che nel 1713 re di
Sicilia divenne il duca Vittorio Amedeo II di Savoia e che nel 1848 i siciliani
offrirono la corona dell'isola a un altro Savoia, a conferma che non volevano
proprio saperne di Napoli. Il dualismo tra la Sicilia e le terre “al di qua del
Faro” fu pari solo a quello tra Sicilia occidentale e Sicilia orientale, tema
che esula da queste poche righe. Camilleri dovrebbe anche spiegare perché la
“Borbonia Felix” con tutto il benessere da lui decantato avesse pochi
chilometri di ferrovia in Campania e nessuno nel resto del regno, Sicilia
inclusa. Dovrebbe dire come mai la popolazione di Calabria, Basilicata, Abruzzo
fosse per l'80-90% analfabeta, la rete stradale quasi inesistente (il traffico
commerciale costiero superava quello per via interna) e mancassero decenti
collegamenti terrestri tra Tirreno e Adriatico, come del resto nello Stato
Pontificio.
I “fatti” sono nelle statistiche,
nell’ingente massa di ricerche esperite da politici indipendenti, quali Sidney
Sonnino e Leopoldo Franchetti, che a proprie spese condussero la celebre
“Inchiesta” sulla Sicilia, perno del meridionalismo un tempo fiorente ma oggi soffocato dalla
confusione tra polemica spicciola e storia (è il caso dei libelli e della
pletora di articolesse di Pino Aprile e dei suoi imitatori, corrivi ai
ditirambi in onore di briganti e brigantesse).
Per un ritratto veridico della sua terra,
Camilleri dovrebbe infine ricordare i tanti siciliani e, più in generale,
meridionali suppliziati, detenuti, costretti all'esilio da sovrani spergiuri e
imbelli: gli Illuministi “napoletani” (in realtà rappresentanti di tutto il
Mezzogiorno, come ampiamente documentato da Benedetto Croce e Franco Venturi),
i costituzionalisti del 1820-21 e quelli del 1848: Vincenzo Cuoco, Pietro
Colletta, benefattore di Giacomo Leopardi, Luigi Settembrini, Pasquale
Stanislao Mancini (intrinseco di Camillo Cavour e docente di Giolitti a Torino)
e il grande Francesco De Sanctis, il cui “Discorso ai Giovani” (1848) è stato
ripubblicato dal presidente dell'Associazione ex Allievi della Nunziatella,
Giuseppe Catenacci, in memoria del grande storico della letteratura italiana e
ministro della pubblica istruzione, già docente nella Scuola militare dalla
quale uscirono Enrico Cosenz, Domenico Primerano e Alberto Pollio, capi di
stato maggiore dell'Esercito italiano, e
Salvatore Pianell, tra i migliori in campo nella guerra del 1866.
Francesco Crispi: rivoluzione, riforme e un
matrimonio volante
Esuli siciliani furono anche Giuseppe La
Farina, Francesco Ferrari e Francesco Crispi, detto “Ciccio” in famiglia e per
gli amici, come Camilleri appella Francesco Merlo.
“Albanese” come Bettino Craxi, il siciliano
Crispi (Ribera, provincia di Agrigento, 1818 – Napoli, 1901) con Giovanni
Giolitti è e rimarrà tra i massimi Statisti della Nuova Italia. Studiato da
Arturo Carlo Jemolo, Sergio Romano e vent'anni addietro da Christopher Duggan,
col passare degli anni Crispi emerge sempre più nel suo vero valore di uomo di
Stato. Al suo principale governo (1887-1891) si debbono riforme fondamentali:
l'istituzione dei sottosegretari di Stato, il nuovo codice di diritto penale,
che abolì la pena di morte e pose l'Italia all'avanguardia nel mondo,
l'elezione dei sindaci dei comuni con più di 10.000 abitanti e dei presidenti
delle deputazioni provinciali, la trasformazione degli enti di carità in
istituti di pubblica assistenza e beneficenza, l'accelerazione di gigantesche
opere pubbliche e una politica estera fondata sull'alleanza difensiva di Roma
con Berlino e Vienna e sulla convergenza con Londra per la stabilità del Mediterraneo, a tutto
vantaggio dell'espansione italiana, tarpata dall'imposizione francese del
protettorato sulla Tunisia. In termini solo apparentemente diversi la sua linea
venne proseguita e riaffermata dal “grande ministero” Giolitti- Antonino di San
Giuliano, catanese, che si sublimò nella sovranità dell'Italia su Tripolitania
e Cirenaica e nella liberazione di Rodi e del Dodecanneso dal feroce dominio
secolare di quella Turchia che oggi qualcuno, pretendendo ci bendassimo gli
occhi dinnanzi a un regime oggettivamente liberticida e negatore delle
conquiste civili introdotte dal “fratello Ataturk”, vorrebbe nell'Unione
Europea.
Molti uomini politici (ma vale anche, se non
di più, per capitani d'industria, finanzieri, artisti, scrittori, scienziati e
persino per ecclesiastici perché “tous les hommes sont hommes et les moines
sourtout...”) hanno pagine più e meno commendevoli. Quelle di “don Ciccio”
Crispi sono ora narrate da Marco Ferrari nel gustoso e informato Rosalia
Montmasson. L'angelo dei Mille (Mondadori). Nata nel 1823, di origini
savoiarde (ovvero dell'allora Regno di Sardegna), migrata a Marsiglia per trar
di che vivere dal suo mestiere di lavandaia, Rose (Rosalia) vi “conobbe” (nel
senso biblico) il giovane Crispi, esule politico. Di avventura in avventura il
giovane “don Ciccio”, avvocato senza reddito, la prese in moglie in un forzato
soggiorno a Malta: un matrimonio celebrato il 27 dicembre 1854 da un sacerdote
forse non abilitato all'amministrazione del rito e con due testi a loro volta
esuli, Giorgio Tamajo e Luigi Dario Depreti.
Il “lato C” di “don Ciccio”.
Un giorno a Torino, ove dimorava in via
Vanchiglia, Rosalia ebbe la sgradevole
sorpresa di aprire la porta a una
precedente moglie di Crispi, Felicita Vella, detta Ciuzza, accompagnata
dal figlio, Tommaso. Fu poi col marito nella garibaldina spedizione dei Mille
(5 maggio 1860), unica donna a bordo, poi a Palermo (ove “don Ciccio” subì
l'attentato che lo convinse a rifugiarsi in una loggia massonica il 13 febbraio
1861), e ne assecondò passo passo il corso politico, segnato dalla scelta
fondamentale enunciata nel settembre 1864: “La monarchia ci unisce, la
repubblica ci dividerebbe”. Crispi ormai rifiutava di essere classificato
mazziniano o garibaldino. Era Crispi. E lo mostrò nel tempo, sino all'elezione
a presidente della Camera dei deputati e all'ascesa a ministro dell'Interno e a
presidente del Consiglio.
Dopo i due figli avuti dalla “segretaria” del
suo ormai fiorentissimo studio forense,
Luisa Del Testo, egli ebbe l'ultimo incontro fatale, con la giovane
Filomena (Lina) Barbagallo. Ottenuto un “accordo” con Rosalia (1875) e l'annullamento
del precedente matrimonio “per vizio di forma”, formalmente libero
dall'imputazione di bigamia sposò Lina. La loro figlia, Giuseppa Ida Marianna,
era ormai grandicella. Andò in sposa al principe di Linguaglossa ed ebbe
l'onore di un carme di Giosue Carducci,
dalla vita “sentimentale” abbastanza disordinata. Il “lato C” della
vicenda umana di Crispi riserva dunque pagine sconcertanti, ma non troppo
diverse da quelle del “birichino” Cavour e dei primi due re d'Italia. Umberto I
lo liquidò come “un porco”, ma ne aveva bisogno e ne condivise la politica
estera, specie la coloniale, perno del suo secondo governo (1893-1896), alla
cui guida venne chiamato benché fosse implicato fino al collo nello scandalo
della Banca Romana. A distruggerlo non furono i romanzi scollacciati di Léo
Taxil e di Domenico Margiotta, né i “fasci siciliani”, né socialisti
rivoluzionari e anarchici. Proprio Crispi, precursore della Conciliazione
Stato-Chiesa, presente Guglielmo Sanfelice, arcivescovo di Napoli, invitò al
patto “Con Dio, con il Re, per la patria”. Egli fu travolto dalla sconfitta del
corpo di spedizione italiano contro Menelik, negus d'Etiopia (1° marzo 1896).
Al governo salì un altro siciliano, il marchese Antonio di Rudinì, dalla vita
privata altrettanto sfortunata.
“Sunt lacrimae rerum...”. Malgrado le loro
sorti individuali, quegli uomini fecero l'Italia. È emblematico che un
dibattito sul bel libro di Ferrari venga promosso ad Alessandria (alle 17 del 9
marzo, Museo della Garbarina) dal centro studi presieduto da Marco Mensi e
intitolato a Urbano Rattazzi, altro statista dalla vita privata parecchio
turbinosa: un cognome, un destino. Così fu e per molti aspetti è la Storia
d'Italia...
Aldo A. Mola
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