Risponde Carlo
Cadorna con documenti
di Aldo A. Mola
Gli Uomini che fecero la Storia:
Giolitti, Cadorna, Diaz
Il 1928 in pochi mesi portò via Armando Diaz
(classe 1861), Giovanni Giolitti (1842) e Luigi Cadorna (1850), tre massimi
protagonisti della storia d'Italia: lo Statista e i due Comandanti Supremi
dell'esercito nella Grande guerra. Diaz non lasciò memorie. Le sue carte sono
state studiate e valorizzate dal generale Luigi Gratton (2001), fiero di essere
stato alfiere del Tricolore al rientro dell'Italia a Trieste nel 1954. Giolitti
pubblicò le Memorie della sua vita nel suo 80° compleanno, il 27 ottobre
1922. Nei sei anni seguenti non aggiunse nulla, né rilasciò interviste. Ma il
16 marzo 1924, vigilia delle elezioni vinte dal “listone nazionale”
filofascista che candidò Enrico De Nicola a Napoli e Vittorio Emanuele Orlando
in Sicilia, Giolitti deplorò la deriva precipitosa dalla democrazia liberale di
Azeglio, Cavour e Sella al “partito unico”, sempre con l'avallo della Camera
dei deputati, pronuba dinnanzi al “duce”, che ripetutamente la umiliò con
parole sferzanti. Dal canto suo Cadorna non tenne un “Diario” né pubblicò “memorie”. Però cent'anni orsono fece di più
e di meglio. Nel 1919, vergò la sua opera fondamentale: “La guerra alla fronte
italiana fino all'arresto sulla linea della Piave e del Grappa (24 maggio
1915-9 novembre 1917)”. Non generici “ricordi” personali ma Storia,
densa di documenti e di atti ufficiali. L'opera è la “biografia” dell'Italia
dalla Conflagrazione europea (luglio1914) alla sostituzione di Cadorna con Armando Diaz a capo
dell'Esercito italiano (9 novembre 1917).
Quando scrisse, il Generale viveva a Firenze,
in un villino acquistato per festeggiare il suo 68° compleanno: una residenza
appartata, modesta, senza riscaldamento. Chi lo visitava nei lunghi mesi del
freddo lo trovava alla scrivania “intabarrato e inguantato”, intento a
compulsare documenti. Posava la penna e conversava. Limpido, chiaro, tutto
“fatti”, dati, luoghi. A volte s'accendeva, alzava la voce, batteva il pugno
sulla scrivania, come gli accadde mentre conversava con Olindo Malagodi. Aveva
sempre dinnanzi agli occhi le sterminate carte militari “della fronte” e
l'“ordine di battaglia” aggiornato per anni, le 35 divisioni iniziali, via via
cresciute di numero e di capacità, ma sempre periclitanti per carenza di mezzi
e la sorda ostilità serpeggiante malgrado l'attivismo del “fronte interno”.
In “La guerra alla fronte italiana” il
Generale ampliò quanto aveva dichiarato alla Commissione d'inchiesta “sugli
avvenimenti dall'Isonzo al Piave (24 ottobre-9 novembre 1917)”, titolo pudico
della Relazione pubblicata in due volumi nell'estate 1919.
Per capire il canone della sua opera occorre
ricordare i drammatici mesi vissuti da Cadorna dal giorno stesso
dell'arretramento dalla conca di Caporetto alla destra del “fiume Sacro”,
quando fu rimosso dal comando della macchina militare da lui costruita con
determinazione, grazie all’intelligente collaborazione di militari di alte
capacità, di “militari senza divisa” e dell'apparato industriale, a cominciare
dall'Ansaldo di Genova, che si valse, tra altri, delle competenze scientifiche
di Federico Giolitti, figlio dello Statista.
Dal dicembre 1917 rappresentante dell'Italia
nell'appena costituito Consiglio superiore di guerra interalleato con sede a
Versailles (carica accettata con spirito di servizio, dopo iniziale
riluttanza), il 20 gennaio 1918 Cadorna fu chiamato “a disposizione” della
Commissione d'inchiesta come un teste qualunque, quasi non potesse essere
“audito” diversamente, come invece avvenne al migliaio di altre persone
chiamate a deporre. Qualcosa non gli tornava. Né torna a chi studi il “caso”
senza preconcetti.
Il Generale nella tempesta
scrive la verità dei “fatti”
Tirava vento pessimo. L'antico Comandante
Supremo ne colse le prime folate, ma non avvertì la bufera. Nel luglio 1918 fu
drasticamente collocato a disposizione “in sovrannumero”, con riduzione di
rango e assegni. All'estero il provvedimento venne inteso come punizione, “una
vera e propria destituzione”. “Ma le porcherie e le vessazioni – egli scrisse
il 1° agosto al figlio, Raffaele, futuro comandante del Corpo Volontari della
Libertà - hanno sempre disonorato chi le commette e non chi le subisce”.
Protestò col presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, da anni suo
fierissimo nemico, lo stesso che in quei giorni incalzava Armando Diaz affinché
scatenasse l'offensiva contro l'esercito asburgico e, secondo il vicecomandante
Gaetano Giardino, arrivò ad affermare: “Preferisco una sconfitta all'inazione”,
quasi che il Paese potesse permetterselo. In realtà, un eventuale sciagurato
disastro (la storia insegna che nessuno sa “prima” come finiscano le battaglie
né le guerre) avrebbe fatto crollare il regno d'Italia, senza speranze di
riscossa, com'era accaduto in Russia e poi avvenne in Bulgaria, Austria,
Turchia e Germania.
Il 21 novembre 1919 Cadorna aveva già
terminato i primi quattro dei dieci capitoli del libro “Dalla Bainsizza al
Piave”. Contava di terminarlo entro l'anno
e di mettere subito mano a un secondo tomo “Dall'origine alla Bainsizza”.
Non aveva ancora deciso se pubblicarli separatamente o fonderli in un unico
volume. Nel frattempo cominciarono a uscire le memorie di altri generali, come
le “Note di guerra” di Luigi Capello, già comandante della II armata, travolta
dall'avanzata austro-germanica dell'ottobre 1917, e il memoriale di Luigi Nava,
da lui rimosso da comandante della IV Armata. “L'affare di Caporetto – scrisse Cadorna al figlio – è come una
pentola che bolle e che ogni tanto solleva il coperchio e poi si chiude.
Figurati che pandemonio accadrà quando se ne parlerà sul serio” (14 marzo
1919).
Il governo Orlando-Sonnino era alla resa dei
conti. La delegazione italiana alla conferenza di pace di Versailles non fu
all'altezza del compito, né dell'alto prezzo pagato dal Paese per la vittoria
finale. Lo ammise Orlando nelle “Memorie” (lasciate incompiute per motivi
fabulosi), in cui polemizzò aspramente ex post con il presidente
degli Stati Uniti d'America, Woodrow Wilson, “arbitro di fatto dalla forza
irresistibile della sua potenza” e al tempo stesso succubo di “una forza
occulta”, degli jugoslavi e (venne insinuato) delle loro “attiviste”. Fantasie.
Non avendo ottenuto Fiume in aggiunta a quanto previsto dall'arrangement con
il quale il 26 aprile 1915 il governo Salandra-Sonnino aveva aderito all'Intesa
(senza però entrarvi organicamente: imperdonabile errore strategico di politica
diplomatica), la delegazione di Roma lasciò il Congresso di Parigi (“non
conferenza di pace” ma arbitrato secondo Orlando), nell'indifferenza degli
altri partecipanti, che si affrettarono ad approvare lo statuto della Lega
delle Nazioni e a fissare i preliminari del diktat contro la Germania.
Non le rimase che riprendere la via francigena. Il 23 giugno la Camera rovesciò
il governo Orlando-Sonnino, pochi giorni prima della firma del Trattato di pace
nel Castello di Versailles nel quinto anniversario del mortale attentato di
Sarajevo, motivo scatenante della conflagrazione.
Anche il nuovo presidente del Consiglio,
Francesco Saverio Nitti, alimentò la canea nei confronti di Cadorna, in vista
della pubblicazione della Relazione della commissione d'inchiesta. Questa gli
attraeva i consensi degli antimilitaristi. Per lui il generale era solo un
“brutto ricordo”. Perciò Cadorna venne messo nell'oggettiva impossibilità di
rispondere pubblicamente con la
necessaria efficacia e abbandonato al “crucifige” di una “piazza” da oltre un
anno aizzata e assetata del sacrificio di un capro espiatorio. I due volumi di
“La guerra alla fronte italiana” rimasero inediti sino all'aprile del 1921.
Cent'anni dopo escono (BastogiLibri, Roma, con prefazione di Gianni Rabbia) in
vista della Giornata Cadorna in programma a Pallanza il 7 aprile prossimo.
Facit
indignatio versum
Mentre scriveva l'Opus magnum,
come fosse due persone in una, con due teste e quattro mani, il generale
intraprese l'“altro libro”. Il primo era la Storia, il secondo una sorta di
lunga “nota a pie' di pagina”, puntuale e puntuta, meticolosa e rigorosa,
sempre documenti alla mano. Man mano che i lavori della Commissione d'inchiesta
procedevano, egli sentiva sempre più impellente e doveroso “testimoniare”
dinnanzi all'opinione nazionale e internazionale. Doveva illuminare i passaggi
fondamentali del différend tra la sua opera di Comandante supremo e i
governi susseguitisi dalla conflagrazione alla sua rimozione: Salandra-San
Giuliano e Salandra-Sonnino sino al 10 giugno 1916, il ministero Boselli,
rovesciato il 25 ottobre 1917, e gli esordi di quello presieduto da Orlando,
sempre con Sonnino agli Esteri, anello di congiunzione fra le trame diplomatiche
del 1914 e il rovescio del 1919. Neppur Sonnino lasciò “Memorie”. Solo un
“Diario”, molto frammentario e lacunoso proprio nei passaggi cruciali, e
lettere.
Sin dai primi mesi dell'intervento
dell'Italia in guerra Governo e Comando Supremo giunsero ai ferri corti su
molti versanti sostanziali delle rispettive competenze. Lo aveva anticipato il
ministro della Guerra Domenico Grandi quando, consultato proprio Cadorna, il 23
settembre 1914 aveva avvertito Salandra: il governo era l'unico titolato a
valutare lo spirito pubblico e le esigenze politiche e a stabilire se “il
Paese” avrebbe condiviso e assecondato, o no, l'ingresso nella fornace ardente,
con tutti i rischi derivanti dalla impreparazione dello “strumento bellico”.
Poiché non era allineato con gli scopi occulti del governo, Grandi venne
sostituito. Ad aggravare la tensione sull'inizio del 1916 intervenne la
decisione dell'Esecutivo di intraprendere un'azione militare in Albania.
Attestarsi a Vallona (come all'epoca si diceva) per Salandra e Sonnino
significava fare dell'Adriatico il “lago italiano”, come a grandi linee tratteggiato dall'“accordo” (non
patto né trattato, a differenza di quanto molti scrissero e ripetono) siglato a
Londra il 26 aprile 1915 in vista dell'adesione all'Intesa anglo-franco-russa.
Secondo Cadorna l'apertura di quel fronte
bellico sulla “quinta sponda” era invece del tutto fuorviante: avrebbe
distratto mezzi e uomini dall'unico vero campo di battaglia e, in prospettiva,
assorbito risorse sempre più ampie, in uno scenario politico-militare colmo di
incognite e di possibili sorprese negative. Lo stesso valeva per le truppe
italiane Oltremare, dalla Tripolitania al Mar Rosso, Ve n'era invece urgente e
prioritario bisogno sul lunghissimo sinuoso fronte italo-austriaco. L'Italia,
egli soleva ripetere, avrebbe riconquistato la Libia sul Carso, ove,
diversamente, rischiava di perdere tutto. Anche Londra si disperdeva in imprese
azzardate su teatri diversissimi, ma da secoli era un impero. All'opposto
l'Italia doveva invece concentrare tutte le sue risorse per sfondare il fronte
austro-ungarico a est, arrivare a Lubiana e Zagabria e aggirare da sud l'impero
asburgico, suscitandovi l'insorgenza delle “nazioni senza Stato” o, come poi si
disse, dei “popoli oppressi”. La sua visione potrebbe essere classificata
mazziniana o garibaldina se non fosse che sin dal 1864 Vittorio Emanuele II
aveva caldeggiato un'azione italiana di quel tenore, per destabilizzare
l'Austria. Come scrive suo nipote Carlo nel succoso saggio introduttivo a
“Caporetto. Risponde Cadorna” (BCSMedia, Grottaferrata, aprile 2019), il
Comandante era “un generale del Risorgimento italiano”.
Il “differend” tra governi allo sbando e il
Comandante Supremo
La risposta del governo ai suoi mòniti e,
presto, alle sue rimostranze, consegnate anche al carteggio con il titolare
degli Esteri, Sonnino, fu quanto di più deludente e assurdo. Lo documenta il
verbale della seduta del Consiglio dei ministri del 26 febbraio1916, firmato da
Antonio Salandra e da Salvatore Barzilai, sinora inedito: “Presenti tutti i
ministri. Si autorizza la pubblicazione di un decreto relativo all'avvio delle
azioni militari in Albania, in sostituzione del decreto 1 dicembre 1915”. Il
governo avocò a sé il comando dell'impresa. Così l'Italia condusse due guerre
separate, una con la regia del Comandante Supremo, un'altra “gestita”
direttamente da Roma. Quella delibera comportava due diverse politiche estere,
perché (lo aveva insegnato Clausewitz) le armi sono la prosecuzione della
diplomazia con altri mezzi. Ma era appunto la politica estera il “ventre molle”
del governo italiano. Lo si vide anche con l’esecutivo Boselli, quando Roma non
poté più esimersi dal dichiarare guerra alla Germania, che si era impegnata a
combattere sin dal 26 aprile 1915. Dopo la “spedizione di primavera” (o
“punitiva”) austroungarica del maggio 1916 e la controffensiva abilmente
allestita da Cadorna, culminata con l'ingresso in Gorizia il 10 agosto, la
guerra mutò volto e “ragione sociale”: non poteva più essere confinata nel
recinto del “sacro egoismo” accampato da Salandra, il cui vero e miope
obiettivo era annientare Giolitti. La guerra dell'Italia andava inquadrata
nell'ambito di una visione europea, delle alleanze e delle loro prospettive
postbelliche, come da Cadorna scritto e ripetuto sin dal luglio 1914, con
lungimiranza superiore a quella dei “politici”.
Solo il 24 agosto 1916, presenti tutti i
ministri, il governo Boselli fece mettere a verbale il passo fatale: udita la
relazione del ministro degli Esteri, deliberò “in conformità degli impegni
assunti con gli alleati, di proporre a Sua Maestà la dichiarazione di guerra
alla Germania, [autorizzando] il Presidente
del Consiglio e il ministro degli Esteri di determinare il momento
opportuno per dar seguito alla deliberazione presa”. Roma doveva però motivare
una decisione così gravida di conseguenze. Lo fece con argomenti di basso
profilo: gli aiuti militari germanici all'Austria-Ungheria sua alleata, la
consegna agli asburgici di militari italiani evasi dai campi di prigionia, la
sospensione del pagamento delle pensioni dovute a operai italiani: contenziosi
da sottoporre a commissioni paritetiche, non alle armi. La dichiarazione di
guerra venne comunicata alle 13.40 del 27 agosto con efficacia dall'indomani.
Lo stesso giorno la Romania scese in campo a fianco dell'Intesa. A quel punto
Cadorna chiese a Sonnino di farsi almeno comunicare “i patti interceduti fra
gli alleati circa la sorte eventuale dell'impero turco: Costantinopoli, gli
Stretti, l'Asia Minore, questioni di primaria importanza per la preparazione
della pace, a cui bisogna pure pensare quando non ci sia altra guerra da
dichiarare”. Sonnino si chiuse a riccio. La politica estera era suo riservato
dominio. Di più e di peggio fece Boselli col sostegno del ministro
dell'Interno, Orlando. Lungo tutto il 1917 e specialmente dopo la rivoluzione
in Russia, l'ingresso degli USA nella guerra e il rischio di un'offensiva
austro-germanica, come bene documenta Carlo Cadorna, il Comandante Supremo
incalzò il governo con ben quattro lettere per chiedere il potenziamento del
“fronte interno” e la lotta contro il disfattismo che dal paese contagiava
l'Esercito. Non ebbe alcuna risposta. Il 27 marzo e il 28 settembre Cadorna
partecipò a due sedute del governo. Della prima non v'è alcuna traccia nei
verbali del Consiglio dei ministri; la seconda è riassunta in poche righe,
elusive, senza alcun cenno al dibattito. Cadorna non compare. Secondo una
postuma Dichiarazione di Orlando, il Comandante supremo gli condensò il
programma in poche parole a seduta ormai terminata: “Lei pensi ad assicurarmi
le retrovie, che ai soldati ci penso io”.
La vera storia di quei drammatici mesi non si
comprende appieno dunque né dalle Memorie di Orlando o dal carteggio di Sonnino
né, tanto meno, dall'Inchiesta su Caporetto, ma emerge invece a luce meridiana
da “La guerra alla fronte italiana” e dal volume ora pubblicato da Carlo
Cadorna per riaprire il dibattito su pagine fondamentali della storia
d'Italia.
Aldo A. Mola
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