di Aldo A. Mola
Comunione e confessione prima del
Gran Consiglio
La mattina del 24 luglio 1943, un sabato,
Luigi Federzoni (Bologna, 27 settembre 1878- Roma, 24 gennaio 1967) andò a
confessarsi e a comunicarsi. Lo ricordò egli stesso in “Italia di ieri per la
storia di domani”, il “memoriale” pubblicato un mese dopo la sua morte.
Altrettanto fecero Dino Grandi e “forse qualcun altro” componente del Gran
Consiglio del Fascismo, convocato a Palazzo Venezia per le 17 in piena calura
estiva. Quei gerarchi, ricorda Emilio Gentile nel saggio più recente sul 25
luglio (ed. Laterza), erano “consapevoli del rischio mortale, ma sereni per la
certezza di combattere una battaglia forse decisiva per la salvezza del Paese”.
Alcuni alla riunione andarono “bene armati”. Federzoni narra che uno lo
“rimorchiò in un cantuccio e con aria alquanto spaccona trasse di sotto la
palandrana di prescrizione due bombe a mano”. Era forse il pugnace Cesare Maria
De Vecchi, conte di Val Cismon, pluridecorato al valore, quadrumviro della
marcia su Roma del 31 ottobre 1922, fiduciario di Vittorio Emanuele III. Il
Gran Consiglio, organo supremo della Rivoluzione fascista” dal 1928, non si
riuniva da oltre quattro anni. Contava e non contava. I suoi poteri effettivi
erano e rimangono dispute tra costituzionalisti. Ne ha scritto recentemente
Guido Melis in “La macchina imperfetta” (ed. il Mulino), Premio Acqui Soria 2018.
A volte gliene vengono attribuiti molti più di quanti ne avesse, in specie
sulla successione al trono, nel quale non ebbe mai alcun potere determinante.
Poteva solo esprimere “pareri”. Quanto poco Mussolini lo tenesse in
considerazione si era visto negli anni successivi all'abbraccio mortale tra lui
e Adolf Hitler, Fuerher della Germania e del suo partito unico, il
nazionalsocialista. Esondando dai poteri di capo del governo, il duce del
fascismo aveva deciso l'alleanza militare con la Germania, la “non belligeranza”
e poi la dichiarazione di guerra (10 giugno 1940) contro Francia e Gran
Bretagna, Unione Sovietica e, davvero esagerando, conto gli Stati Uniti
d'America senza mai consultarlo. D'altronde nessuno dei suoi componenti si era
sentito in dovere di chiederne la convocazione. Anche per loro il Duce aveva
sempre ragione.
Tre
anni dopo lo sciagurato ingresso in guerra, perduta in pochi mesi l'intera
Africa Orientale (Eritrea, Somalia ed Etiopia, conquistata appena sei anni
prima) e poi l'intera Libia e l'ultimo ridotto in Tunisia, anche la Sicilia dal
10 luglio era stata invasa dagli anglo-americani, i cui comandanti impartirono
alle truppe direttive poco tenere nei confronti degli italiani, civili
compresi. Molte piazzeforti si arresero senza opporre resistenza. Gli “alleati”
in molti casi furono accolti come liberatori. A quel punto occorreva salvare il
salvabile.
Federzoni avverte il Re, che
già sapeva tutto
Federzoni concorse con Dino Grandi alla
redazione dell'ordine del giorno da proporre al Gran Consiglio, per proclamare
“il dovere sacro di tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l'unità,
l'indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e
degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e
l'avvenire del popolo italiano”. Lo pensavano e lo ripetevano da anni quel che
rimaneva di liberali, democratici, popolari, socialisti, antifascisti in
forzato esilio o da molti anni incarcerati, militanti del neonato partito
d'azione e il repubblicano Randolfo Pacciardi, massone. Il Risorgimento non era
affatto monopolio dei nazionalisti, meno ancora dei fascisti, che lo avevano
confiscato e ridotto a retorica. L'Italia era e doveva tornare a essere degli
italiani, come avevano spiegato a loro tempo tanti patres della Terza
Italia, quali i “fratelli” Francesco De Sanctis, Giosue Carducci, Giovanni
Pascoli e una legione di studiosi che non si erano fermati alla contemplazione
letteraria del Paese ma si erano immersi negli studi di statistica, scienze
sociali ed economia. Non avevano mai formato un partito, ma una “opinione
nazionale”, sulla scia di Cavour e di Massimo d'Azeglio, nel solco di Giuseppe
Garibaldi, Francesco Crispi e via via sino a Giovanni Giolitti, capofila del
“senso dello Stato”.
Federzoni ebbe il merito di far arrivare
clandestinamente il testo dell'ordine del giorno a Vittorio Emanuele III, che
ne aveva già notizia indiretta, così come lo ebbe anticipatamente il
demolaburista Ivanoe Bonomi tramite Domenico Maiocco, socialista, antifascista
e massone. Chi davvero aveva il potere di fare ebbe quindi modo di muovere le
falangi di un ordine di battaglia predisposto da tempo.
Al Re i poteri statutari per salvare l'Italia
Con breve interruzione la seduta del Gran
Consiglio durò oltre le due del mattino e si concluse con l'approvazione
dell'ordine del giorno Grandi-Federzoni, al quale avevano aderito anche
Giuseppe Bottai, Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, mesi prima defenestrato
da ministro degli Esteri e nominato ambasciatore presso la Santa Sede (così
poté tramare con maggior sicurezza), e altre personalità eminenti del “regime”.
Ciascuna di esse poi narrò in memoriali o a intervistatori quanto ricordava. I
Grandi Consiglieri del Fascismo tradirono il partito o addirittura l'Italia?
Volevano la eliminazione del duce? Anche il verbale redatto da Federzoni molti
giorni dopo la seduta conferma che persino i più strenui fautori della “svolta”
in realtà si limitarono a “invitare il Capo del Governo a pregare la Maestà del
Re (…) affinché egli voglia per l'onore e la salvezza della Patria assumere con
l'effettivo comando delle Forze Armate (…) quella suprema iniziativa di
decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono...”. L'appello era
necessario giacché gli anglo-americani preparavano l'assalto alla penisola, le
armate italiane erano disperse all'estero, dalla Provenza alla Jugoslavia e
alla Grecia, e, dopo anni di stolida autarchia e di razionamento, la maggior
parte della popolazione, specialmente nelle città, era ormai alla fame, preda
della ”borsa nera”. Gli scioperi del marzo 1943 proprio nei centri industriali
avevano suonato il campanello d'allarme: “pane e pace”. Una settimana prima
della seduta del Gran Consiglio, nell'incontro di Feltre Mussolini per
l'ennesima volta non riuscì a far capire a Hitler che l'Italia non ce la faceva
più. Il Fuerher comprese invece che doveva farvi affluire subito divisioni in
assetto di guerra per prenderla sotto controllo prima dell'invasione
angloamericana. In quelle ore Roma stessa subì un devastante bombardamento
aereo “pedagogico”: una brutale esortazione a muoversi, a disfarsi del fascismo
e del suo duce prima di essere sistematicamente schiacciata dal cielo, come
sin dal 1940 era accaduto a tante sue
città, da Torino a Genova e Cagliari…, in un crescendo di rovine e di orrori.
Del resto era stata l'Italia a dichiarare guerra.
La mattina del 25 luglio 1943, una domenica,
Roma si destò come poteva. Alternava speranza e angoscia. Mussolini, dopo una
mattinata di lavoro ordinario (ricevette persino l'ambasciatore del Giappone,
al quale assicurò che l'Italia avrebbe
“tirato diritto”: qualcuno ha favoleggiato che stesse approntando la
richiesta di pace separata all'Urss staliniana), alle cinque del pomeriggio
andò in udienza dal re, che gli revocò la carica di capo del governo, lo fece
fermare (non “arrestare” o “incarcerare”) dai carabinieri, “nei secoli fedeli”,
e tradurre al sicuro sotto sorveglianza. Poche ore dopo, il maresciallo Pietro
Badoglio, duca di Addis Abeba, annunciò per radio la sua successione al
“cavalier Mussolini”, che in effetti dal 1924 era insignito dell'Ordine della
Santissima Annunziata, “cugino del re”.
Nella seduta, in alcuni momenti concitata ma
mai tumultuosa, Federzoni, Grandi, Bottai e gli altri firmatari dell'ordine del
giorno avevano chiesto quanto da tempo il Re aveva deciso da sé: il cambio al
vertice dell'Esecutivo in vista dell'uscita dell'Italia da una guerra ormai
insostenibile, al costo minore possibile. Iniziava una partita difficilissima
tuttora poco capita dalla storiografia e dall'opinione comune. Non era la prima
volta nei secoli di Casa Savoia. Quel che contava era salvare la continuità
dello Stato, sulla base della ribadita unione tra Istituzioni e Paese: “Italia
e Vittorio Emanuele”, secondo la formula cara a Garibaldi. L'Italia fu pervasa
da manifestazioni di giubilo per la caduta del regime. Non si registrarono
mobilitazioni significative a favore di Mussolini né del Partito nazionale
fascista, che pochi giorni dopo venne sciolto per decreto legge, come la
Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, un tempo onnipotente ma che non
mosse un dito a favore del “Capo”. Tacquero anche i celebrati “battaglioni M”.
Dai cortei nessuno inneggiò a Federzoni, Grandi, Bottai, Ciano o al altri
firmatari del poi famoso ordine del giorno. La storia aveva mutato corso senza
attenderli. I gerarchi uscirono di scena. Entrò in campo il governo di militari
e di tecnici (come Raffaele Guariglia agli esteri) che sin dal 1925 Giovanni
Giolitti aveva vaticinato quale unica alternativa alla deriva dell'Italia verso
il “partito unico” e le sue nefaste conseguenze interne e internazionali.
Qualcuno lamenta che Badoglio impiegò 45 giorni a ottenere la “resa senza
condizioni”. Che cosa fa oggi il governo in 45 giorni?
Il regime
Il partito unico ebbe la premessa
il 23 febbraio 1923 con la confluenza dei nazionalisti nel partito
nazionale fascista, previo un solenne rito sacrificale: la dichiarazione di
incompatibilità tra fasci e logge massoniche, deliberata dal Gran Consiglio del
fascismo con la partecipazione, in via eccezionale, di uno spretato
massonofago, che già aveva pubblicato in Italia i Protocolli dei Savi anziani
di Sion e da un decennio faceva da rompighiaccio dell'estremismo contro
liberalismo e democrazia parlamentare. Se il giovane Federzoni aveva deplorato
la germanizzazione del lago di Garda, quell'ex reverendo aveva scritto un
libello su la Germania alla conquista dell'Italia, denunciando i complotti di
banche (come la Commerciale di Milano) e di grandi industrie a favore dello straniero.
A quel punto i nazionalisti ritennero di
mettere le briglie al fascismo, ancora un arcipelago di correnti, dissidenze e
pulsioni mai giunte a sintesi. Di fatto nell'ambito del regime essi rimasero
una frangia autorevole per cultura giuridica e letteraria ma scarsamente
influente nell'apparato del partito che era un caleidoscopio di “ras” e di
personalità dagli itinerari disparati, ben lontani da qualunque sintesi nella
guida politica del Paese.
I nazionalisti avevano avuto maggior peso
quando erano la piccola avanguardia dell'opposizione di estrema destra e, sulla
scia delle generose visioni di Alfredo Oriani, si erano attribuiti il ruolo di
antesignani del grande ritorno a una storia mai esistita. Di fatto avevano
funto da mosche cocchiere nella guerra per la sovranità dell'Italia su
Tripolitania, Cirenaica e occupazione/liberazione di Rodi e delle Sporadi.
Questa venne decisa da uomini pragmatici come il Re, Giolitti e San Giuliano,
pronti a tirare le somme di vent'anni di trattative diplomatiche. Del pari si
considerarono avanguardia dell'intervento dell'Italia nella Grande guerra, ove
però furono anticipati dal loro principale contendente, il Grande Oriente
d'Italia capitanato da Ettore Ferrari, e si pronunciarono per la guerra contro
l'Austria quando Alfredo Rocco (l'unico nazionalista con alto senso dello
Stato) ancora guardava con ammirazione all'impero di Germania quale modello da
replicare in Italia. Nel corso del conflitto, che tra gli interventisti
registrò la prevalenza di sindacalisti rivoluzionari, socialisti riformisti
come Leonida Bissolati, socialmassimalisti alla Mussolini e repubblicani,
sempre pronti a minacciare “guerra o rivoluzione”, i nazionalisti ebbero un
ruolo marginale, sino alla fase estrema, dopo Caporetto, quando tornò
preminente il Grande Oriente guidato da Ernesto Nathan, per il quale bisognava
schiacciare i pacifisti come serpenti.
Il
Nazionalismo e la Nazione
“Nipote” in senso ideale di Giosue Carducci
(suo padre, Giovanni, ne era discepolo e cultore), Federzoni dovette il
successo del suo esordio politico proprio al declino di Nathan quale sindaco di
Roma, non per sua incapacità amministrativa (gli assessori erano competenti e
valorosi) ma per la “crociata” da lui incautamente lanciata contro la Chiesa
cattolica il 20 settembre 1910. Eletto deputato a soli 35 anni il 2 novembre
1913 nel prestigioso collegio Roma I in ballottaggio contro Antonino Campanozzi
(4322 voti contro 3872) Federzoni parve stella cometa di una Quarta Italia. In
realtà l'affluenza dei cattolici alle urne era ormai dilagante in tutta Italia
in attuazione del “patto Gentiloni” che sommò cattolici moderati, liberali
temperati e massoni lungimiranti. Nessuno sentiva bisogno di clericalismo,
estraneo all'Italia e soprattutto al suo Re, che aveva da poco scoperto la
statua equestre del Padre della Patria e rimaneva scomunicato come i suoi
antenati, colpevoli di aver debellato il potere temporale di papi.
Federzoni assunse dunque un ruolo divisivo.
La sua ascesa era fatalmente subordinata all'annientamento di un “nemico
interno”: il giolittismo e la massoneria, il socialismo riformistico e la
democrazia liberale. Non conseguì affatto l'obiettivo. Sulla fine dell'ottobre
del 1922 il governo presieduto da Luigi Facta (il sesto in appena tre anni, il peggiore
per inconcludenza) fu spazzato via ma non venne sostituito da una compagine
nazional-moderata guidata, per esempio, da Antonio Salandra, ma da una
compagine di costituzionali capitanata da Mussolini, che andò da Alberto De
Stefani al filosofo Giovanni Gentile, da Colonna di Cesarò, demosociale, al
giolittiano Teofilo Rossi di Montelera e fu vegliata da Armando Diaz e da Paolo
Thaon di Revel, grande ammiraglio. Il quarantaquattrenne Federzoni fu assegnato
alle Colonie in successione a Giovanni Amendola, teosofo e massone. Quella del
31 ottobre 1922 non fu Rivoluzione fascista ma continuità dello Stato. Dopo le
elezioni del 1924 l’Italia visse la stagione del rapimento e assassinio di
Giacomo Matteotti (l'unica certezza sulla sua fine è che morì, ha osservato il
suo documentato biografo, Enrico Tiozzo) e dei quattro attentati alla vita di
Mussolini, usati quale acceleratore della storia, quasi fosse un paese
balcanico. Chiamato a sostituire Mussolini al ministero dell'Interno nella fase
più oscura della guerra civile nuovamente strisciante, Federzoni constatò
l'ingovernabilità del caos con mezzi ordinari. L'Italia passò allora alle leggi
fascistissime, alla reintroduzione della pena di morte per i reati contro lo
Stato e al Tribunale Speciale. Il governo aumentò il consenso, ma imboccò il
viottolo della repressione di ogni forma di opposizione partitica e, ben
presto, di dissenso culturale. Il nazionalismo prevalse solo riducendosi a uno
spicchio della Nazione, negando e conculcando la verità della storia. Dal 1925
le Comunità liberomuratorie d'Italia, che facevano da tramite con le democrazie
parlamentari più avanzate (monarchie e repubbliche, quali Gran Bretagna,
Francia, Stati Uniti d'America, Svezia, Olanda...), furono costrette ad
sciogliersi. Il Paese si era avviato alla decrescita civile. Per frenarla
Mussolini stesso chiamò al governo strenui avversari del nazionalismo, quali i
massoni Giuseppe Belluzzo all'Economia e all’Educazione nazionale Balbino
Giuliano iniziato massone nella loggia “Valle del Chienti” di Camerino quando
vi era giovane docente universitario. Ad Alberto Beneduce, grande oratore del
GOI, fu affidato il nascente Istituto per la Ricostruzione Industriale. Quella
era l'Italia vera.
Federzoni: un umanista di grande talento
Dopo l'avvento del regime di partito unico
Federzoni ebbe ruoli eminenti prima da nuovamente ministro delle Colonie, poi
come componente del Senato, di cui fu per dieci anni presidente, e soprattutto
quale presidente di istituzioni accademiche benemerite, promotrici di opere
emblematiche. E' il caso dell'edizione nazionale delle opere di Garibaldi e di
Carducci che firmò con lo pseudonimo
“Enotrio Romano” i carmi più
antivaticaneschi usciti da penna italiana (più ancora di quelli di
Lorenzo Stecchetti, l'Argia Sbolenfi ben
noto nella Bologna cara al giovane Federzoni).
Per tutti questi motivi era importante dare
alle stampe l'edizione critica del vero Diario scritto da Federzoni nei
mesi durante i quali fu ospite dell'ambasciatore del Portogallo presso la Santa Sede. Riuscì
così a scampare alla Repubblica sociale che nel gennaio 1944 condannò a morte e
fucilò come traditori Ciano e altri quattro sfortunati firmatari dell'ordine
del giorno del 24-25 luglio 1943. E' significativo che a promuovere l'edizione
del Diario inedito di Federzoni, impeccabilmente curata da Erminia Ciccozzi,
funzionaria dell'Archivio Centrale dello Stato, e da Aldo G. Ricci, suo
sovrintendente emerito, sia l'Istituto Lino Salvini di Firenze, per i tipi
dell'editore Angelo Pontecorboli: un modello di cultura e di serena
contemplazione della grande storia di un'Italia che seppe essere e deve tornare
“universale”, lontana dal provincialismo spacciato come sovranismo.
Dal Diario, Federzoni emerge quale
aspirante uomo del Re. Ma Vittorio Emanuele III volle essere Re di tutti gli
italiani, senza pregiudizio di tessere di partito, di opinioni politiche e di
culto religioso. Il carteggio tra l'antico “gerarca” e Umberto II esule in
Portogallo documenta la coscienza adamantina e la profonda passione di
Federzoni per l'Italia. Cinquant'anni dopo la sua morte, merita di essere
conosciuto e riconosciuto nella sua identità di patriota.
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