Il fanatismo dei neosocialisti spagnoli
di Aldo A. Mola
Pedro Sánchez il becchino
“Quieta non movère” è un saggio mònito degli
antichi. Invece il chiodo fisso dei neosocialisti spagnoli, da Zapatero a Pedro
Sánchez, è rimuovere la salma di Francisco Franco dal Valle de los Caídos per
trasferirla nella cripta più nascosta di Spagna. Zapatero ci provò per anni,
invano. Sánchez ripete la litania. Ha persino strappato il tacito consenso
delle Cortes, con silenzi opachi e astensioni del Partito popolare e di
Ciudadanos, sempre affetti dall'orticaria quando si parla di Franco e del
Franchismo, quasi arrivino da un altro pianeta anziché dalla lunghissima
transizione che vide alternarsi al governo senza traumi i socialisti di Felipe
González e i popolari di Aznar. Da quando è stato battuto in Parlamento e ha
dovuto indire elezioni anticipate per il prossimo 28 aprile, Sánchez ne sta
facendo una questione di vita o di morte. Poiché spera che la nascita di un
nuovo governo vada per le lunghe, ha fissato al 10 giugno il giorno nel quale,
costi quel che costi, la salma imbalsamata di Francisco Franco y Bahamonde va
assolutamente rimossa, malgrado l'opposizione del priore dell'Abbazia
benedettina di Santa Cruz, Santiago Cantera, dipinto come bieco reazionario.
Contro la pretesa di Sánchez e dei suoi accoliti sono schierati all'unanimità i
sette nipoti di Franco (Carmen, Mariola, Francis, Merry, Cristóbal, Arancha e
Jaime), l’Associazione per la Difesa del Valle de los Caídos e un ventaglio di
organizzazioni sempre più decise a difendere la memoria autentica del Paese. In
attesa che il Tribunale Supremo dello Stato si pronunci sui molti ricorsi
pendenti, Sánchez fa della estumulazione uno dei cavalli di battaglia della
campagna elettorale. Il suo vero obiettivo, però, non è rimuovere quel che
resta del Caudillo di Spagna (come Franco venne detto ai tempi della sua
sanguinosa ascesa) ma intimidire Popolari e Ciudadanos, ricattarli con l'accusa
di paleofranchismo, di “fascismo eterno” (il “vangelo” di Umberto Eco, ora
riecheggiato da Francesco Filippi in “Mussolini ha fatto anche opere buone”,
ed. Bollati-Boringhieri). In realtà Sánchez mira a “provocare” e ad infoltire
le file di “Vox”, il movimento sorto proprio contro l'estremismo neosocialista
e la flebilità dei “moderati”. In tal modo calcola di frantumare il fronte
avversario in tre corpi separati e di batterli alle elezioni, grazie alla legge
elettorale vigente, pensata per il bipartitismo, non per il caleidoscopio di
partitelli e partitini (autonomisti come i “canarini”, indipendentisti,
separatisti, federalisti, repubblicani senza se e senza ma...), causa sicura
della deflagrazione se non vi fosse lo scudo della monarchia.
Le radici dell'ascesa di Francisco Franco al
potere
Ma perché mai l'ossessione neosocialista
ispanica per la salma di Franco? Come tutte le “idee fisse”, anche questa non è
affatto un mistero. A ben vedere è una sorta di franchismo uguale e contrario.
Riassumiamo.
Il Caudillo nacque in una famiglia di liberi
pensatori. Lo era suo padre, che gli preferiva il fratello, Ramón, massone
accanito come altri consanguinei, poi da Francisco abbandonati alla furia dei
reazionari. Il futuro Jefe del Estado fece una brillante carriera
nell'esercito, conseguì successi Oltremare e divenne il più giovane generale
d'Europa. Però non avrebbe mai avuto spazio politico se la Spagna fosse stata
capace di darsi un governo parlamentare stabile. Il dramma del Paese arrivava
dal suo passato remoto: secoli di “reconquista cristiana” dal giogo dei “moros”
e, nel Cinquecento, la lotta per la “limpieza de sangre”, che impose a islamici
e a ebrei di andarsene o di travestirsi da moriscos e da marranos, convertiti
ma sospettati. La pace di Utrecht (1713), dopo la guerra di successione sul
trono di Madrid, segnò il passaggio dagli Asburgo (“Los Austria”) ai Borbone di
Francia. Nel 1808 Napoleone I invase la Spagna e impose re suo fratello
maggiore, Giuseppe, “don José Primero”. La feroce guerriglia per
l'indipendenza, sorretta dagli inglesi, non finì con la cacciata degli invasori
ma con l'annientamento degli “afrancesados”, uccisi o costretti all'esilio. Era
la vendetta contro la repressione bonapartistica immortalata da Francisco Goya
nel “Dos de Mayo”, rivendicazione popolare contro i metodi insopportabili degli
occupanti (gli aristocratici in buona parte si erano “accomodati”). L'Ottocento
in Spagna fu un secolo di moti liberali (quasi sempre guidati da militari), di
sette segrete e di guerre tra opposti rami della dinastia (uno, reazionario,
guidato da don Carlos, contrario alla successione femminile sul trono di
Madrid), e di complotti che finirono con l'assegnazione della corona a un re
designato dalle Cortes: Amedeo di Savoia, Duca d'Aosta, secondogenito del re
d'Italia,Vittorio Emanuele II. Don Amadeo Primero regnò poco più di un anno,
col beneplacito del “concerto europeo”, ma dovette fare i conti con il
malcontento (locale ed eterodiretto) culminato in vari attentati.
Dopo un'effimera repubblica e il ritorno dei
Borbone con Alfonso XII e la perdita di Cuba e delle Filippine (1898), lacerata
da movimenti rivoluzionari anarco-socialisti (ne fu campione e vittima Francisco Ferrer y Guardia,
fucilato quale promotore della “semana trágica”), la Spagna parve appartarsi
dalla storia d'Europa. Evitò di immischiarsi nella Grande Guerra. La sua
economia crebbe, come documenta Fernando García Sanz in opere tradotte anche in
italiano. Dalle turbolenze postbelliche uscì non con dittature più o meno totalitarie
come avvenne dalla Russia all'Italia e alla Germania ma con un governo
autoritario e fattivo, presieduto da Miguel Primo de Rivera. Stanco di
opposizioni querule, de Rivera si dimise e si trasferì a Parigi. Nel 1931,
all'indomani del successo delle sinistre nelle elezioni amministrative, Alfonso
XIII di Borbone lasciò la Spagna senza rinunciare alla Corona. A Madrid venne
proclamata la seconda Repubblica. Iniziarono anni di travagli. Si scatenò
l'anticlericalismo serpeggiante nel Paese come fiume carsico. Furono dati alle
fiamme chiese e monasteri e vennero perpetrate infamie ai danni dei cattolici,
documentate da Arturo Mario Iannaccone nell'inoppugnabile “Persecuzione. La
repressione della Chiesa in Spagna fra Seconda Repubblica e guerra civile,
1931-1939” (ed. Lindau).
Dopo cinque anni di disordini, in risposta al
brutale assassinio del monarchico José Calvo Sotelo da parte dei “rossi”, con
l'alzamiento di quattro generali nel luglio 1936 la Spagna precipitò
nella guerra civile. Accordi sovraordinati indicarono nel generale José
Sanjurjo, già promotore di un colpo di stato militare contro la Repubblica, il
capo di una giunta comprendente Emilio Mola, vero “direttore del golpe”, Franco
e Queipo de Llano. L'aereo che riportava Sanjurjo dal Portogallo in Spagna
cadde, forse per il peso eccessivo del bagaglio. Il suo potenziale successore,
Mola, repubblicano, sospettato a torto di affiliazione massonica, nel 1937 a
sua volta morì in incidente aereo. Queipo era un sanguinario succubo del
fascino femminile e dell'alcol, privo di fiuto politico. Rimase Franco, che
pazientemente raccolse via via al suo seguito tutti i nemici della Repubblica
di Madrid: i falangisti di José Antonio Primo de Rivera, figlio di Miguel, i
requetés (monarchici “carlisti”) e un ventaglio di movimenti e personalità.
Tutti vennero benedetti dall'alto clero spagnolo e da papa Pio XI, che condannò
il nazionalsocialismo pagano di Hitler, il bolscevismo materialistico di Stalin
e non aveva certo motivo di avversare chi, come Franco, in Spagna combatteva
contro atei dichiarati e anticlericali fanatici. La guerra civile fu orrenda.
Franco era vendicativo e crudele. Oltremare aveva utilizzato reparti speciali
“di colore” contro i marocchini. Altrettanto fecero tutti gli eserciti coloniali
dell'epoca. Mescolò motivazioni di varia genesi. Tra le sue vittime
emblematiche rimane Federico García Lorca, che agli occhi dei conservatori
rappresentava l'“Anti-Spagna”, anti-nazionale e più “scostumata” che libertina.
Eppure da mezzo secolo in Spagna cresceva l'appello alla modernizzazione. Ne
erano stati portavoce e interpreti letterati, storici e politici di alto
profilo come Miguel Azaña (massone per un giorno), Alcalá Zamora, Alejandro
Lerroux, Diego Martínez Barrio, più conservatori che rivoluzionari. Della vera
Spagna furono interpreti Miguel de Unamuno e i tanti militari “di loggia” che
passarono a fianco dei Quattro generali.
Non fu Franco a semplificare il conflitto e a
ridurlo a lotta mortale tra le tenebre e la luce. In realtà, e lo documentano
l'inglese Paul Preston, Juan Pablo Fusi e Fernando Cortázar, vi erano non due
ma tre Spagne: la rivoluzionaria, la reazionaria e quella che aspirava a
liberarsi dalla taccia di “Spagna invertebrata” e a farsi Europa, liberale,
democratica, non senza influssi massonici come si legge in “L'integrazione
europea e la penisola iberica” (a cura di Romain H. Rainero, ed. Marzorati).
Era la Spagna che aveva alle spalle il filosofo e pedagogista tedesco Krause,
l'“ideario spagnolo” di Angel Ganivet e Ortega y Gasset.
La massoneria ebbe un ruolo specifico nel
dramma? Ne hanno scritto storici di vaglia come Maria Dolores Gómez Molleda,
José Antonio Ferrer Benimeli e Juan José Ruiz Morales, autore di “Palabras
asesinas” e di poderosi saggi sulla
repressione di comunisti e massoni da parte di Franco. I fatti però dicono che
molti “fratelli” di alto rango, militari, politici e “intellettuali”, si
schierarono con il Caudillo. Franco era massonofago. Lo mostrò negli articoli pubblicati tra il 1947 e il
1950, con lo pseudonimo di J. Boor (una contraffazione delle “lettere”
incise sulle colonne dei Templi: J. B.).
Secondo Franco le logge erano al servizio degli stranieri, anzitutto i
francesi, i sovietici e le brigate internazionali che portarono migliaia di
volontari in Spagna a fianco della Repubblica. Per vincere davvero la Spagna,
“faccia al sole e camicia nuova”, doveva eradicare l'altra, la rivoluzionaria,
e spazzare via la “terra di mezzo”. Lo
fece con la benedizione del Pontificato. Pio XII scomunicò Juan Perón (caso
unico di un capo di Stato cattolico nella storia moderna della Chiesa) e
conferì l'Ordine del Cristo a Franco, suscitando l'indignazione di tanti
fedeli, anche in Italia. Non solo per il papa, da quindici anni Franco era
divenuto il simbolo della lotta contro il “comunismo”. Se questo fosse prevalso
a Madrid, l'Europa centro-occidentale avrebbe visto cancellato forse per sempre
illuminismo, liberismo, diritti dell'uomo. Per quanto paradossale, proprio in
Spagna venne combattuta una battaglia decisiva, che vide anarchici, liberali e
molti socialisti spazzati via non da Franco ma dai moscoviti ortodossi, come
Palmiro Togliatti, Longo e Vidali.
Verso la Spagna attuale: Opus dei e
instaurazione della monarchia.
Ma Franco non è né può essere ridotto solo al
Caudillo della guerra civile. Ne hanno scritto Edgardo Sogno e Nino Isaia in
“Due fronti” (ed. LibriLiberal) che meriterebbe di esser ripubblicato e
meditato mentre divampano fatue chiacchiere sul ”fascismo”. Franco ebbe tre
meriti indiscutibili, che si impongono anche a chi non ne apprezza la
personalità, la sua “retranca”, astuzia del contadino gallego, uso nei secoli a
celare i suoi propositi. In primo luogo tenne la Spagna al di fuori della
Seconda guerra mondiale, malgrado le pressioni di Mussolini, che lo considerava
ingrato nei confronti dell'aiuto datogli dall'Esercito italiano nella guerra
civile con il Corpo Truppe Volontarie: il CTV che gli spagnoli traducevano in
“Cuando ten vas?”. Dopo aver inutilmente tentato di circuirlo in un lungo esasperante
colloquio a Endaya, Hitler disse che mai più lo avrebbe incontrato. Franco era
sfuggente, indecifrabile. In realtà pensava alla sua terra. Ebbe la saggezza di
lasciarvi approdare silenziosamente gli anglo-americani: un garanzia sulla vita
non sua personale ma della Spagna Eterna. In secondo luogo favorì la
modernizzazione propugnata dall'Opus Dei, che formò una classe dirigente di
tecnocrati. Parlavano anche inglese ma pensavano in spagnolo. Al suo interno
ripresero spazio antichi propositi del falangismo di José Antonio: una visione
“popolare”, a correzione del ritorno in forze dell'aristocrazia arcaica. Infine
il Caudillo ebbe chiaro che il suo potere personale era transitorio: doveva
passare dalla “Jefatura del Estado” alla monarchia. Il cambio non poteva però
ridursi a puro e semplice ritorno al passato. Di mezzo vi erano stati i molti
enormi errori dei Borbone, la condotta di Juan, conte di Barcellona, da lui
ritenuta poco lineare e infine la guerra civile. Per essere davvero punto di
equilibrio e garanzia per il futuro la monarchia non andava “restaurata” ma
“instaurata”. Anche Umberto II, in esilio, si adoperò per convincere don Juan a
passare la mano al figlio, Juan Carlos, designato Re. Iniziò il processo che
ebbe protagonisti Manuel Fraga Iribarne, Adolfo Suárez e altri uomini della
“transizione”, coronata con la Costituzione del 1978 redatta da giuristi anche
socialisti come Gregorio Peces Barba.
Alla morte Franco poté ritenere aver
ricostruito la Spagna “una, grande, libre”, membro delle Nazioni Unite dal
1955, lo stesso anno nel quale l'Italia vi venne ammessa.
Il Valle de los Caìdos,
simbolo di pacificazione.
La salma del Caudillo non appartiene solo
alla sua famiglia e alla Spagna. Essa rappresenta un capitolo della storia
d'Europa. Non solo. L'immensa croce ritta sul colle sovrastante la cupa
Basilica vuol essere un simbolo di pace eterna, un invito alla meditazione
sulla storia universale. Quando pure le sue spoglie venissero rimosse, l'opera
di Franco rimarrebbe consegnata alla storia: anzitutto di un'Europa che ha
troppo a lungo ostacolato l'ingresso della Penisola Iberica nella Comunità
Economica, accampando violazioni dei diritti dell'uomo, per ostacolarne, in
realtà, le esportazioni e ritardarne la modernizzazione. Chi ha visitato la
Spagna durante la dittatura o all'indomani della morte di Franco e la confronta
con l'attuale conosce bene i passi da gigante compiuti dal Paese grazie alla
dirigenza cresciuta negli anni del franchismo. Unì senso dello Stato e memoria
del Passato. Il Passato che non deve passare.
E' il futuro.
Anche Sánchez sa che i “monumenti” sono come
la storia. Non si cancellano. Lo ha ricordato Francesco Rutelli contro certe
manie dilaganti oltre Atlantico e anche in Italia, ove imperversa la smania di
rimuovere, abbattere, obliare. Tuttavia conduce la sua lotta disperata per la
estumulazione: vuole svellere la pietra angolare degli avversari, seminare la
zizzania tra i suoi rivali, dividerli e sconfiggerli alle urne, per riportare
la Spagna all'indietro, a fianco di Maduro, della Cuba perennemente castrista.
Senza alcuna nostalgia personale del massonofago Caudillo (che finse di non
sapere quante logge anglo-americane proliferassero nel suo Paese malgrado i
divieti ufficiali), i quarant'anni del suo dominio hanno diritto a un giudizio
storico pacato, libero dai precetti di “leggi sulla memoria” che sanno di
censura ideologica e di fanatismo, contrario ma esattamente uguale al suo.
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