Dalla conferenza tenuta al Circolo di cultura ed educazione politica Rex il 14 febbraio 2016
di Salvatore
Sfrecola
C’è un dato che accomuna un po’ tutte le guerre, la previsione,
alla vigilia, che sarebbero durate e costate poco. Così la prima guerra mondiale,
così la seconda. Previsioni basate, nel 1914, sull’esperienza delle guerre
dell’Ottocento, tutte di pochi mesi, al massimo un anno. Nel 1866 da guerra
dell’Italia e della Prussia contro l’Austria, iniziata a giugno, era finita ad
agosto. In precedenza la seconda guerra d’indipendenza, nel 1859, aveva
impegnato gli eserciti da aprile a luglio, la prima (1848) da marzo ad agosto.
Tutte guerre combattute con l’impiego di molti uomini a piedi ed a cavallo e un
po’ di artiglieria da campagna.
Nel frattempo la guerra era cambiata. In America, la guerra di
secessione aveva visto in campo in modo massiccio una nuova arma, la
mitragliatrice, che aveva decretato la fine della cavalleria e degli assalti
all’arma bianca, tipici delle guerre napoleoniche. Contemporaneamente ad un impiego
sempre più massiccio dell’artiglieria non più solamente ippotrainata ma
trasportata da treni dai quali spesso era utilizzata per colpire le linee
nemiche e, ove possibile, da pontoni, lungo i fiumi ed in vista delle coste.
In quella guerra aveva esordito anche il mezzo aereo, sia pure
in forma di mongolfiere, per scrutare dall’alto l’esercito avversario e così
indirizzare il tiro dell’artiglieria ed il dispiegamento dei reparti. Un uso
che aveva sperimentato anche il Corpo di spedizione italiano in Libia nel 1911.
Ma, si sa, spesso si dimentica presto.
Solamente inglesi e tedeschi avevano previsto una strategia di
più ampio respiro, peraltro prevalentemente marinara, tanto da attuare già da
anni un progressivo potenziamento della flotta, i primi per garantirsi il
controllo del mare ai fini dei necessari approvvigionamenti di materie prime e
di derrate alimentari, i secondi per isolare il Regno Unito ed impedire quegli
approvvigionamenti. Intanto, gli uni e gli altri, più di Francia e Italia
avevano potenziato le industrie metalmeccaniche nazionali nei settori
strategici a fini militari e civili, anche per non dipendere dall’estero, in
particolare da paesi che potevano schierarsi dalla parte opposta.
Inoltre doveva essere evidente ai governi europei che la guerra,
com’era accaduto in America, non sarebbe stata alimentata da requisizioni nei
territori occupati e dal bottino, cui tutti erano ricorsi in passato, ma avrebbe
richiesto un rilevante impegno finanziario a causa dell’esigenza di sviluppare
un’industria degli armamenti sempre più costosa, e misure, anche di carattere
tributario, per acquisire le risorse necessarie, regolare l’economia in genere
e venire incontro alle esigenze della popolazione civile.
La guerra dunque era cambiata nel 1914, ma pochi se ne erano
accorti negli stati maggiori e nei governi. Con la conseguenza che un po’ tutti
gli eserciti entrarono nel conflitto con una preparazione assolutamente inadeguata,
quanto all’armamento individuale e dei reparti, all’abbigliamento, ai mezzi di
trasporto divenuti essenziali, a cominciare dai treni. In Italia solamente la
Marina, comandata dall’Ammiraglio Thaon di Revel aveva adottato mezzi nuovi e
studiato strategie adatte al prevedibile conflitto. Si penso all’uso del
M.A.S., il motoscafo antisommergibile, che infliggerà pesanti perdite
all’imperial regia marina austro-ungarica.
L’impreparazione degli eserciti è apparsa palese, fin dai primi
mesi di guerra, sui campi di battaglia francesi che presto si coprirono dei
corpi dei fantaccini, ancora con le divise blu e rosse dell’800, falciati dalle
mitragliatrici tedesche che non avevano difficoltà ad individuare le uniformi
colorate di soldati che, tra l’altro, non avevano ancora un elmetto.
Se i generali francesi erano rimasti all’Ottocento ed alle
tattiche che in quelle battaglie ancora si giustificavano, anche il nostro
Comando supremo non aveva percepito le novità, tanto che Cadorna, il 25 febbraio
del 1915, teorizzava con la circolare 191 assalti all’arma bianca e il
successivo impiego della cavalleria (sarebbe divenuto un volumetto do
sessantadue pagine dal titolo “Attacco frontale e ammaestramento tattico”). Con
il risultato di quelle inutili carneficine delle quali impietosamente ci danno
conto i filmati dell’epoca, stragi assurde davanti ai reticolati presidiati
dalle mitragliatrici. Come nel famoso film “Orizzonti di gloria” con Kirk
Douglas, un bravo colonnello francese costretto da un generale incapace ad
assaltare una collina irta di mitragliatrici tedesche.
Sul campo, tuttavia, rifulge il sacrificio e l’eroismo dei
combattenti e, impietosamente, è sempre più evidente l’inadeguatezza del
Comando supremo fino alla rotta di Caporetto (24 ottobre 1917) la cui
responsabilità Cadorna cercò di addebitare ai soldati (“Gli uomini non si
battono, non hanno abbastanza slancio”). Il governo lo corresse e il bollettino
fu modificato (“La violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di taluni
reparti della Seconda armata…). L’8 novembre 1917 il Re ne chiese le
dimissioni.
Abbiamo ancora memoria dei nomi e del ruolo dei comandati delle armate
schierate e delle divisioni sotto l’occhio vigile di Vittorio Emanuele III, che
per questa sua costante presenza al fronte si è guadagnato l’appellativo di “Re
soldato”. Del quale ricordiamo anche la determinante presenza a Peschiera dove
rivendicò il valore dei “suoi” soldati dinanzi agli alleati perplessi sulla
nostra capacità di resistenza dopo la crisi dell’ottobre 1917.
Con il nuovo Comandante cambia tutto. Armando Diaz si mostra
subito un generale moderno, capace e attento alle esigenze dei suoi uomini, al
loro armamento, al vestiario, al morale, in continua intesa con il Re (che con
Cadorna aveva avuto un rapporto solo formale) e con le autorità politiche a
Roma. Riuscirà presto a riordinare i reparti ed a definire nuove modalità di impiego
portando le armi italiane alla vittoria. Non a caso Diaz è stato paragonato
all’americano Eisenhower, un grande organizzatore che consentirà, nella seconda
guerra mondiale, alle armate angloamericane di imprimere una svolta decisiva al
conflitto dopo quattro anni di combattimento organizzando lo sbarco di
centinaia di migliaia di uomini e migliaia di mezzi in Normandia.
All’esordio delle operazioni militari nel maggio del 1915
l’esercito aveva scontato antiche e più recenti trascuratezze e la
disattenzione dei governi. Significativa, al riguardo, una considerazione di Luigi Einaudi:
“era mancato un Cavour”. Colui che aveva preparato il piccolo Piemonte alla
occorrenza, potenziando l’esercito, l’industria militare e le comunicazioni,
senza trascurare l’intera economia del Regno di Sardegna e il benessere delle
popolazioni.
Infatti, l’economia di guerra, quella strategia
economico-finanziaria che prende in considerazione tanto il finanziamento delle
spese militari quanto le esigenze della popolazione civile, è parte
dell’economia generale e assume il complesso delle iniziative occorrenti in un
difficile, ma necessario, impegno di un’intera Nazione. Anzi immagina per tempo
ogni tipo di esigenza, anche curando l’industria di più agevole adeguamento
alle esigenze dell’impegno militare, così preparando un intero paese a
soddisfare i bisogni delle sue forze armate mediante la loro organizzazione
secondo le esigenze di tempo e di luogo, dal vestiario all’armamento, avendo
presenti le tecniche di combattimento note e quelle prevedibili sulla base
della evoluzione dell’industria degli armamenti e meccanica. Tenendo presente
che prevedibilmente la guerra avrebbe richiesto importanti innovazioni
tecnologiche e l’uso di mezzi di trasporto nuovi. Sia per le truppe che per il
traino dei cannoni. Anche le ferrovie entreranno, dunque, nel conflitto per le
esigenze degli approvvigionamenti di materiale bellico, di sostentamento delle
truppe e assistenza (si pensi ai treni ospedale) e della popolazione civile.
Economia di guerra
significa, infatti, “preparare animi e mezzi, fin dal tempo della pace” (G.
Stammati), immaginando ed adottando all’occorrenza e con i tempi utili un complesso di misure volte a finanziare l’impegno militare
attraverso prestiti, interni ed internazionali, ed imposte, per acquisire
risorse e regolare i consumi privati, in alcuni casi attraverso calmieri in
relazione alle esigenze delle popolazioni cittadine e delle campagne.
Nulla, invece, era stato
pianificato, pur essendo già allora evidente che era tramontato per sempre il
tempo nel quale le guerre si sostenevano con limitate risorse materiali,
finanziate prevalentemente con le entrate fiscali.
Pesarono sui ritardi
nella preparazione alla guerra la debolezza del governi e l’incertezza delle
maggioranze parlamentari.
Illuminanti, in proposito, le parole di Antonio Salandra, il
Presidente del Consiglio che preparò l’ingresso dell’Italia in guerra (nel suo
libro L’intervento) il quale descrive,
con accurato puntiglio, l’affannosa ricerca del necessario al momento della
mobilitazione. La insufficiente dotazione di mezzi di ogni genere, dal
vestiario agli armamenti, in una condizione dell’industria italiana di grande
arretratezza. In particolare, l’Italia era dipendente dall’estero per
l’artiglieria, che veniva fornita dalla tedesca Krupp, ma anche per bende e
medicinali per il Servizio Sanitario, oltre che per il frumento. Mancavano
medici e infermieri, esigenze in parte soddisfatte dalla Croce Rossa Italiana e
dalle unità del Sovrano Militare Ordine di Malta. Mancavano ingegneri ed
architetti per l’artiglieria da fortezza, per il genio e per gli stabilimenti
di costruzioni e riparazioni. Mancavano i cavalli per la cavalleria e per il
trasporto dei cannoni. Dovemmo comprarli negli Stati Uniti, con non poche
difficoltà nel trasporto.
Tuttavia va dato atto che
il Paese si è poi mobilitato con grande impegno, attuando un’enorme
riconversione industriale (nel 1917 la produzione dell’Italia in alcune categorie
di armi era già diventata imponente scrive D. Stevenson, La Grande Guerra, Corriere
della Sera, 2014, Vol. I, 392). In quel contesto emersero “uomini politici,
alti burocrati e imprenditori in grado di trovare soluzioni per problemi del
tutto nuovi” (La Banca d’Italia e
l’economia di guerra 1914-1919).
La guerra ha avuto da
subito un costo elevato. Per ogni arma, per ogni pallottola o bomba. Il soldato
doveva essere pagato, anche se poco, vestito e nutrito e trasportato avanti e
indietro dal fronte; curato, se ferito o malato. Alle famiglie dei soldati
erano assegnate indennità, gli invalidi e le vedove avevano bisogno di
sostentamento, come le migliaia di rifugiati. Poiché per fortuna gran parte
della popolazione viveva sopra il livello minimo di sussistenza poté essere
dirottata dagli scopi civili a quelli militari una maggiore percentuale delle
entrate pubbliche rispetto alle guerre precedenti.
Il costo della guerra non ebbe un andamento uniforme durante i
quattro anni del conflitto. Nel 1915 le spese belliche furono pari, grosso
modo, all’aumento del prodotto interno lordo. Il 32 nel 1916, il 40 nel 1917,
il 46 nel 1918.
Il totale delle spese
raggiunse, dall’esercizio 1914-15 al 1918-19, 75.707 milioni di lire a prezzi
correnti e il debito 51.471 milioni (68,0 per cento del totale dell’incremento
delle risorse finanziarie), a fronte di 12.312 milioni di lire per le entrate
tributarie pari al 16,3 per cento delle risorse finanziarie. Il 15,8 per cento
ha riguardato la circolazione di Stato e la circolazione bancaria a favore
dello Stato.
L’indebitamento interno
ed estero fornì circa i due terzi delle nuove risorse necessarie. Si ricorse
per la sottoscrizione anche a sollecitazioni morali. Einaudi si chiedeva “chi,
tra i risparmiatori italiani, vorrà più tardi incorrere nel muto rimprovero che
i suoi figli gli muoveranno di non aver compiuto ogni sforzo possibile,
nell’ora solenne, per fare cosa utile ad essi ed insieme alla patria?” Fu
convogliato sui prestiti circa il 30% del reddito nazionale.
L’Italia chiese un
prestito di 50 milioni di sterline sulla piazza di Londra, una somma limitata,
perché il Governo non voleva che si indebolisse il nostro potere contrattuale
nei negoziati territoriali che, definiti nel memorandum di Londra, dovevano essere confermati al momento della
pace.
“Troppi furono gli errori
inutili e le improvvisazioni”, è il lapidario giudizio di Einaudi, in materia
economica e finanziaria. Tardive e a volte confuse, soprattutto le scelte
fiscali, spesso con effetti nulli o contrari a quelli programmati. Come per le
imposte sui sovraprofitti di guerra, che favorirono la creazione di impianti
inutili e spese superflue allo scopo di sottrarre legalmente al tesoro la
materia imponibile.
Non si ebbe il coraggio
di aumentare le imposte e si dovette perciò ricorrere all’emissione di carta
moneta, il metodo più semplice. Una scelta che apparentemente non costa nulla,
almeno immediatamente, allo Stato. Ma fu la causa del deprezzamento della lira.
La circolazione passò, infatti, dal 1914 al 1918 da 2 a 12 miliardi, con un
tasso di inflazione che fu tra i più alti dei paesi belligeranti.
Altre misure furono
azzardate. Come il dazio sul frumento, inutile dovendosi utilizzare in farina.
E fu abolito. Poi il governo, con calmieri, requisizioni e tesseramento per il
frumento ritenne di dover mantenere il prezzo del pane ad un livello politico,
con perdita per l’erario.
Dalla
parte della domanda le spese ingenti dello Stato determinarono una maggiore
offerta di beni necessari alla guerra, che si traducessero in maggiori salari e
maggiori profitti dei produttori e in maggiori interessi dei risparmiatori, e
maggiori prezzi.
Ne
risentirono le condizioni di vita delle popolazioni che peggiorarono
progressivamente, per l’inflazione che falcidiava stipendi e salari e innalzava
il costo della vita (già alla fine del 1916 i prezzi dei generi alimentari di
prima necessità erano cresciuti del 50%). Le condizioni materiali differivano a
seconda che la popolazione risiedesse nelle città o nelle campagne, dove, a
prezzo di non pochi sacrifici, i membri delle famiglie contadine riuscirono a
supplire ai vuoti lasciati da coloro che erano partiti per il fronte ed a non
far diminuire di molto il precedente tenore di vita, anche se i calmieri e le
requisizioni a prezzi non remunerativi produssero ingenti danni ai produttori.
La situazione era comunque diversa da regione a regione. Nel Sud le condizioni
peggiorarono nettamente-anche per effetto dell’emigrazione
Nelle città il livello di
vita era assai più basso a causa della carenza di prodotti e dell’aumento dei
prezzi, per cui i consumi crollarono drasticamente, soprattutto a partire dal
secondo anno di guerra. Tra il 1917 e il 1918 in alcune città le quantità di
pane furono ridotte anche sotto il 200 grammi al giorno. Aumentarono la
mortalità infantile e le malattie polmonari. Diminuì la natalità. Le condizioni
di vita si avvicinarono pertanto più a quelle degli imperi centrali, ridotti
quasi alla fame dal blocco navale della flotta britannica, che non a quella dei
paesi alleati occidentali.
Delle difficili
condizioni di vita nelle città risentirono fortemente anche le classi medie il
cui tenore di vita si livellò verso il basso, per avvicinarsi sempre più a
quello di alcuni settori specializzati della classe operaia. Peggiorarono le
condizioni dei professionisti, molti dei quali videro fortemente ridotta la
propria attività, e le cui famiglie, in caso di richiamo al fronte, dovevano
accontentarsi di una retribuzione il cui livello, per gli ufficiali di
complemento, rimase sempre assai basso. Furono, invece, favoriti dall’economia
di guerra industriali e commercianti che si giovarono del repentino aumento dei
prezzi (oltre che, non di rado, delle opportunità di guadagno attraverso il
mercato nero). Naturalmente non mancarono gli illeciti arricchimenti di
industriali senza scrupoli, frodi e corruzione.
Quanto alla condizione
della classe operaia, sebbene l’accresciuta richiesta di lavoro avesse
assicurato un salario certo, le retribuzioni rimasero sempre molto basse e
falcidiate nel potere d’acquisto.
La necessità di
manodopera portò nelle fabbriche e nei servizi le donne che alla fine della
guerra raggiunsero quasi le 200.000 unità. È famosa nell’iconografia di quegli
anni la guidatrice tram. Importante, altresì, l’opera di assistenza attuata
nelle città dai comitati femminili.
L’atteggiamento popolare
verso la guerra, dopo un primo periodo di tranquillità grazie al riassorbimento
totale della disoccupazione, mutò con l’approssimarsi dell’inverno 1916. Tutta
la penisola fu interessata da una serie di manifestazioni popolari, a
cominciare dalle campagne, protagonisti le donne, i vecchi ed i ragazzi, quasi
sempre per motivi contingenti, dal ritardo nella devoluzione del contributo
statale alla mancanza di pane, più tardi alle requisizioni. Alcune
manifestazioni furono violente: scontri con le forze dell’ordine, saccheggio di
forni o altre forme di ostilità nei confronti del governo, come aggressioni
alle case dei notabili e invasioni di municipi.
Dopo Caporetto ed un primo
smarrimento il Paese reagì con grande impegno. La “cura Diaz” ristabilì fiducia
tra soldati e popolo e l’effetto fu evidente ben presto. L’esercito riprese i
territori abbandonati sotto la spinta degli austro-tedeschi e giunse Vittorio
Veneto.
15 febbraio 2016
· Dalla conferenza tenuta al Circolo di cultura ed educazione politica Rex
il 14 febbraio 2016
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