NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 31 maggio 2019

Vittorio Emanuele II


Il recente breve articolo pubblicato su "Il Giornale" e da noi ripreso è stata l'occasione per un nostro caro amico per tirare fuori dagli archivi un vecchio articolo del professor Salvatorelli, di ben altro spessore, comparso su “La Stampa” e pubblicato sul bollettino dell’Unione Monarchica Italiana del 1961 con la premessa che segue.


Anche questo articolo è breve,  di agevole lettura ma restituisce al Re la sua dimensione umana e politica di Padre della Patria.

Cosa che in questo periodo di obbrobri storiografici è quanto mai  necessaria.


Lo staff

Nella fioritura di studi riguardanti il Centenario della proclamazione del Regno è di preminente importanza il seguente sintetico articolo del Prof. Luigi Salvatorelli, apparso su «La Stampa» di Torino l’11 gennaio scorso. Specie considerando che il dotto autore non ha certo preferenze monarchiche, lo studio sembra perciò nel modo migliore celebrare nel rispetto della verità storica, non solo la figura del Padre della Patria come massimo artefice dell'unità, ma con l’accenno che vi si fa alla benemerenza del Re nel 1876 « per aver assicurato il passaggio pacifico del governo dalla destra alla sinistra consacrando definitivamente il regime parlamentare », diventa di particolare attualità politica mettendo in evidenza quale garanzia offra sempre l’Istituto monarchico, con il contrappeso della forza della tradizione, alla continua e travagliata aspirazione dei popoli verso più estese ”aperture” sociali.

 di Luigi Salvatorelli

E’ di dominio comune il detto, che la grandezza di Vittorio Emanuele II consisté essenzialmente nel comprendere che per lui si poneva necessariamente la scelta fra il salire a Re d’Italia, o il discendere a monsù Savoia: espressioni che risalgono a lui stesso.

Possiamo anche oggi, nel primo centenario dello Stato italiano unitario, ripetere il detto, ma con una modificazioni importante: la soppressione dell’avverbio « necessariamente ». La storia umana non è fatalità; e non lo fu neanche in questo caso. Quella scelta consapevole di Vittorio Emanuele II, fu atto di volontà libera, in risposta a una situazione non escludente per sé stessa una terza via: che egli rimanesse

La scelta libera ci fu: ma sarebbe errato considerarla come effettuata « ab origine » e perpetuamente rimasta senza modificazione. Il politico riuscito si distingue dal fallito — opportunista, o fazioso, o dottrinario, o moralista — innanzi tutto per questo: che non svolge un programma prestabilito in articoli e

paragrafi, come un progetto di legge o un regolamento amministrativo; bensì pone innanzi a sé certe finalità generali, certi obbiettivi d’insieme, e cammina verso di essi con una continuità d’indirizzo includente ogni inflessione, in un senso o in un altro, richiesta dalle circostanze.

Vittorio Emanuele II, la sera di Novara, non disse certamente a nessuno, e neanche a se stesso: voglio divenire Re d’Italia, a rischio di finire come un privato qualunque. Si propose invece — mentre la notte calava sul terreno della disfatta, e Carlo Alberto abdicatario si avviava verso l’esilio, e vicino al nuovo Re c’era appena un ministro — due obbiettivi, ch’egli vedeva indissolubilmente connessi fra loro: mantenere e consolidare il regno costituzionale di Piemonte; mantenere e consolidare la rappresentanza e il promovimento, per parte del regno medesimo, della causa nazionale italiana.

Vittorio Emanuele II fu politico autentico, di prima grandezza, secondo — nel campo governativo — solamente a Cavour, della cui superiorità ebbe sempre un certo fastidio e contro la quale egli recalcitrò talvolta; ma pur fastidìendo e recalcitrando; fornì all’opera di lui il fondamento necessario, con lo sprone o il freno (più il primo che il secondo) opportuno.

Nel quadro storico che conosciamo, è altrettanto inconcepibile una creazione dello Stato unitario senza l’uno, come senza l’altro.

Ambizioso certamente, Vittorio Emanuele II, e autoritario; e perfino, talora, millantatore. Ma in lui meglio che in altri si vede bene come il fattore personale sia indissociabile da quello politico-etico. Esso è il sale della vivanda, il motore della macchina. Stimolato dal desiderio di grandezza, dall’autocoscienza

di capacità, il politico crea la sua opera, che non sorgerebbe, o riuscirebbe diversa e inferiore, senza quello stimolo personale. La differenza in ciò, da un politico autentico all’altro si ritrova nel dissimulare più o meno, meglio o peggio, lo stimolo: affare di gusto, di estetica, piuttostochè portata storica e di giudizio morale.


La prima vocazione di Vittorio Emanuele II (rimasta poi sempre in fondo al suo animo) fu quella militare, bellica, colorata di romanticismo ottocentesco. Giova qui richiamare l’episodio del Duca dì Savoia (questo era il titolo dell’erede al trono), che la sera del 23 marzo 1848 affronta a notte per via, imbacuccato in un mantello coprenteglì la faccia, il presidente del primo Gabinetto costituzionale, Cesare Balbo, per chiedergli istantaneamente di non essere dimenticato nel formare i quadri dell’esercito che varcherà il Ticino.

Ma già dopo Custoza, nel periodo dell’armistizio, il suo interesse politico si sviluppò. Al generale Dabormida, suo familiare, domanda di essere messo al corrente sullo stato della mediazione franco-inglese, come sulla situazione ministeriale, lagnandosi di essere «perfettamente al buio degli avvenimenti politici del nostro paese ». Indubbiamente, il suo interesse finale è quello di sapere se e quando ci sarà la ripresa della guerra; ma è caratteristica la connessione accentuata da lui fra situazione politica e militare. Ed è anche caratteristico che la sua preoccupazione per una rigida disciplina militare sia accompagnata da uno schietto umorismo: « Dobbiamo ciecamente obbedire a coloro che ciecamente ci comandano »; « Fatti soldato di cavalleria in tempo di guerra, se vuoi vivere lungamente su questa terra».

Il suo primo proclama del 27 marzo 1849 (senza controfirma dei ministri) delinea concisamente tutto il programma necessario in quel primo momento: mantener salvo l’onore, rimarginare le ferite, consolidare le istituzioni costituzionali. La sua veduta freddamente realistica della situazione è scolpita nelle parole quasi beffarde al deputato Menabrea. per poco non rimasto accoppato dalla caduta di un pezzo di volta a Palazzo Madama (il Re andava a prestare il giuramento): «Ch’a i fassa nen attension, i’ n’a vedroma ben d’autre».

Nonostante qualche incertezza iniziale, qualche momentaneo scoraggiamento, i primi anni del regno sono una testimonianza di equilibrio, di consapevolezza, di tatto. Fra le pressioni di destra (a cominciare da quelle della madre) e le provocazioni di sinistra,la linea costituzionale è seguita con autorità, con fermezza, con lealtà, a cominciare dalla scelta del nuovo presidente del Consiglio, Massimo d’Azeglio, dopo il provvisorio Delaunay indicatogli dal padre. Nel primo proclama di Moncalieri, del 3 luglio, è troppo colorita la frase (rispondente, peraltro, agli umori dei dirigenti europei): «L’Europa, minacciata nella sua esistenza sodale, è costretta oramai a scegliere, fra questa e la libertà». Ma essa serve di rafforzamento all’ammonizione: « Sta in voi, nel vostro senno, preservarvi da questi estremi ,non rendere la libertà impossibile, nè impraticabile lo Statuto ». Motivo ripreso nel secondo e più noto proclama per il nuovo scioglimento della Camera: ma ripresa dietro cui c’è qualche motivo di ritenere che non si nascondesse nessun disegno di soppressione, o sospensione, dello statuto ma semplicemente una messa in vigore del trattato di pace con l’Austria per sola autorità regia.

I reazionari in attesa di colpi di Stato, o almeno di leggi severamente restrittive, rimasero delusi. Nè riuscirono più fortunate le pressioni di cui sarebbe ora di fare (in tanto diluvio di pubblicazioni documentarie) una analitica e sintetica storia.

Già l’anno seguente, 1850, per l’abolizione del Foro ecclesiastico, il Re si trovò a dover affermare la sua costituzionalità e insieme con essa quella dello Stato, di fronte ai tradizionali privilegi ecclesiastici, e Vittorio Emanuele l’affermò, superando personali, forti sentimenti dì devozione alla Chiesa e al papa Pio IX.

Prima fase di una battaglia che durerà sino alla fine della vita, sempre più ardua, ma anche più vittoriosa battaglia che allora concorse, quanto « più di quelle militari, alla fondazione dello Stato italiano, e che nell'insieme conserva ancora oggi valore esemplare.

Un valore analogo possiamo assegnare al comportamento di Vittorio Emanuele II rispetto al «connubio» Cavour-Rattazzi, e alla conseguente ascesa e

lunga permanenza di Cavour al potere, di necessità e utilità politica somma, ma non facile sempre a ingranare con quella funzione direttiva che il Re riteneva suo diritto e dovere.

Impossibile, per mancanza di spazio, rievocare qui le singole fasi del decennio di collaborazione fra i due, con gli episodi di accordo e di contrasto; diciamo qui che, a parte gli urti personali (con la ordinaria mescolanza di diritto e di torto), l’accordo fini per prevalere sempre sulla linea migliore per la patria italiana. ^ Con Cavour, e forse prima ancora di lui, Vittorio Emanuele II volle la spedizione di Crimea; dietro Cavour egli fu, con tutta la propria risolutezza e audacia, per il congresso di Parigi e la successiva sempre più ardita esplicazione della missione italiana del Piemonte; e non tanto «dietro» quanto a fianco, o addirittura avanti (grazie alla responsabilità costituzionale del grande ministro), stette di fronte a Napoleone III e al resto d’Europa, per la tutela dell’indipendenza e dignità delio Stato, per il promovimento dell’alleanza e della guerra, per la riunione dell’Italia centrale e meridionale. Al momento della spedizione dei Mille, è Vittorio Emanuele II a strappare il consenso di Cavour, reluttante per gravissime ragioni Ma è soprattutto di fronte a Garibaldi che la funzione di Re Vittorio si rivelò benefica, e anzi decisiva.

Fu il fascino della personalità regia, insieme col buon senso del grande condottiero, a rendere possibile la opera decisiva dì Garibaldi, mantenendola al tempo stesso nel quadro interno e internazionale unico possibile. L’anticavouriano Vittorio Emanuele seppe dir «no» senza esitazione alla richiesta di Garibaldi del licenziamento di Cavour; il Re «ultimo dei conquistatori» (secondo il detto di Sella) seppe imporre il suo veto all’avanzata di Garibaldi da Napoli su Roma.



Dopo la morte di Cavour, Vittorio Emanuele fu fortemente aiutato dall’alto sentimento di sè, dalla sua spregiudicatezza di azione, e al tempo stesso dalla veduta realistica interna e internazionale, a mantenere la continuità e a stimolare e controllare l’avanzamento dell’opera nazionale. Ricordiamo, come particolarmente caratteristica, la trattativa segreta con Mazzini; come particolarmente meritoria, l’accettazione del trasporto della capitale da Torino a Firenze, fatta preferire a Napoli, con la considerazione di buon senso, che sarebbe stato molto più facile venir via dalla prima che dalla seconda; come altamente significativa, la relazione al « jamais » di Rouher dopo Mentana, che costrinse questo a rimangiarselo.

Anche dopo il 20 settembre 1870 la funzione direttiva superiore del «Padre della Patria» non cessò; e trovò applicazione, sia nella risoluta affermazione del diritto nazionale su Roma, accompagnata dai doverosi riguardi al Pontefice, sia nella cura di buone relazioni internazionali con la Francia da una parte, con gli imperi centrali dall’altra. (E’ rimasta famosa la franchezza con cui egli disse all’imperatore Guglielmo I di essere stato lì li, nel 1870, per fargli la guerra). Ma il fatto maggiore del Re, in questi ultimi anni, fu di aver assicurato il passaggio pacifico del governo dalla destra alla sinistra, consacrando definitamente il regime parlamentare. Scomparendo precocemente, in mezzo al compianto profondo e unanime della nazione, egli avrebbe potuto ripetere: « Cursum consummavi, fìdem servavi ».

In questo centenario non solo dell’unità italiana, ma di Roma acclamata capitale, non si può meglio chiudere la rievocazione del primo Re d’Italia, se non ripetendo le parole dette da lui alla deputazione romana che gli presentava il plebiscito del 2 ottobre: «L’ardua impresa è compiuta, e la, patria ricostituita. Il nome di Roma, il più grande che suoni sulle bocche degli uomini, si ricongiunge oggi a quello dell’Italia, il nome più caro al mio cuore ».


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