Il recente breve articolo pubblicato su "Il Giornale" e
da noi ripreso è stata l'occasione per un nostro caro amico per tirare fuori
dagli archivi un vecchio articolo del professor Salvatorelli, di ben altro spessore, comparso su “La Stampa” e pubblicato sul bollettino dell’Unione Monarchica
Italiana del 1961 con la premessa che segue.
Anche questo articolo è breve, di
agevole lettura ma restituisce al Re la sua dimensione umana e politica di
Padre della Patria.
Cosa che in questo periodo di obbrobri storiografici è quanto mai necessaria.
Lo staff
Nella fioritura di studi riguardanti il
Centenario della proclamazione del Regno è di preminente importanza il seguente
sintetico articolo del Prof. Luigi Salvatorelli, apparso su «La Stampa» di
Torino l’11 gennaio scorso. Specie considerando che il dotto autore non ha certo
preferenze monarchiche, lo studio sembra perciò nel modo migliore celebrare nel
rispetto della verità storica, non solo la figura del Padre della Patria come massimo artefice dell'unità, ma con l’accenno che vi si
fa alla benemerenza del Re nel 1876 « per aver assicurato il passaggio pacifico del governo dalla
destra alla sinistra consacrando definitivamente il regime parlamentare »,
diventa di particolare attualità politica mettendo in evidenza quale garanzia
offra sempre l’Istituto monarchico, con il contrappeso della forza della
tradizione, alla continua e travagliata aspirazione dei popoli verso più estese ”aperture”
sociali.
E’ di dominio comune il detto, che la grandezza di Vittorio Emanuele II consisté
essenzialmente nel comprendere che per lui si poneva necessariamente la scelta
fra il salire a Re d’Italia, o il discendere a monsù Savoia: espressioni che risalgono a lui stesso.
Possiamo anche oggi, nel primo centenario dello Stato italiano unitario,
ripetere il detto, ma con una modificazioni importante: la soppressione dell’avverbio « necessariamente ». La
storia umana non è fatalità; e non lo fu neanche in questo caso. Quella scelta consapevole
di Vittorio Emanuele II, fu atto di volontà libera, in risposta a una
situazione non escludente per sé stessa una terza via: che egli rimanesse
La scelta libera ci fu: ma sarebbe errato considerarla come effettuata « ab
origine » e perpetuamente rimasta senza modificazione. Il politico riuscito si distingue dal fallito —
opportunista, o fazioso, o dottrinario, o moralista — innanzi tutto per questo:
che non svolge un programma prestabilito in articoli e
paragrafi, come un progetto di legge o un regolamento amministrativo; bensì
pone innanzi a sé certe finalità generali, certi obbiettivi d’insieme, e cammina verso di essi con una
continuità d’indirizzo includente ogni inflessione, in un senso o in un altro, richiesta dalle circostanze.
Vittorio Emanuele II, la sera di Novara, non disse certamente a nessuno, e
neanche a se stesso: voglio divenire Re d’Italia, a rischio di finire come un privato qualunque. Si propose
invece — mentre la notte calava sul terreno della disfatta, e Carlo Alberto abdicatario si avviava verso
l’esilio, e vicino al nuovo Re c’era appena un ministro — due obbiettivi, ch’egli vedeva indissolubilmente
connessi fra loro: mantenere e consolidare il regno costituzionale di Piemonte;
mantenere e consolidare la rappresentanza e il promovimento, per parte del regno medesimo, della causa nazionale italiana.
Vittorio Emanuele II fu politico autentico, di prima grandezza, secondo —
nel campo governativo — solamente a Cavour, della cui superiorità ebbe sempre un certo fastidio e
contro la quale egli recalcitrò talvolta; ma pur fastidìendo e recalcitrando; fornì all’opera di lui il
fondamento necessario, con lo sprone o il freno (più il primo che il secondo) opportuno.
Nel quadro storico che conosciamo, è altrettanto inconcepibile una
creazione dello Stato unitario senza l’uno, come senza l’altro.
Ambizioso certamente, Vittorio Emanuele II, e autoritario; e perfino,
talora, millantatore. Ma in lui meglio che in altri si vede bene come il fattore personale sia indissociabile
da quello politico-etico. Esso è il sale della vivanda, il motore della macchina. Stimolato dal desiderio di
grandezza, dall’autocoscienza
di capacità, il politico crea la sua opera, che non sorgerebbe, o riuscirebbe
diversa e inferiore, senza quello stimolo personale. La differenza in ciò, da un politico autentico all’altro si ritrova nel dissimulare più o meno, meglio o peggio, lo
stimolo: affare di gusto, di estetica, piuttostochè portata storica e di giudizio morale.
La prima vocazione di Vittorio Emanuele II (rimasta poi sempre in fondo al
suo animo) fu quella militare, bellica, colorata di romanticismo ottocentesco. Giova qui richiamare
l’episodio del Duca dì Savoia (questo era il titolo dell’erede al trono), che
la sera del 23 marzo 1848 affronta a notte per via, imbacuccato in un mantello
coprenteglì la faccia, il presidente del primo Gabinetto costituzionale, Cesare
Balbo, per chiedergli istantaneamente di non essere dimenticato nel formare i
quadri dell’esercito che varcherà il Ticino.
Ma già dopo Custoza, nel periodo dell’armistizio, il suo interesse politico
si sviluppò. Al generale Dabormida, suo familiare, domanda di essere messo al corrente
sullo stato della mediazione franco-inglese, come sulla situazione ministeriale, lagnandosi di essere «perfettamente al buio
degli avvenimenti politici del nostro paese ». Indubbiamente, il suo interesse finale
è quello di sapere se e quando ci sarà la ripresa della guerra; ma è caratteristica la connessione accentuata da lui fra
situazione politica e militare. Ed è anche caratteristico che la sua preoccupazione per una rigida disciplina
militare sia accompagnata da uno schietto umorismo: « Dobbiamo ciecamente obbedire a coloro che ciecamente
ci comandano »; « Fatti soldato di cavalleria in tempo di guerra, se vuoi vivere
lungamente su questa terra».
Il suo primo proclama del 27 marzo 1849 (senza controfirma dei ministri)
delinea concisamente tutto il programma necessario in quel primo momento: mantener salvo l’onore,
rimarginare le ferite, consolidare le istituzioni costituzionali. La sua veduta freddamente realistica della
situazione è scolpita nelle parole quasi beffarde al deputato Menabrea. per poco non rimasto accoppato dalla
caduta di un pezzo di volta a Palazzo Madama (il Re andava a prestare il giuramento): «Ch’a i fassa nen
attension, i’ n’a vedroma ben d’autre».
Nonostante qualche incertezza iniziale, qualche momentaneo scoraggiamento,
i primi anni del regno sono una testimonianza di equilibrio, di consapevolezza, di tatto. Fra le
pressioni di destra (a cominciare da quelle della madre) e le provocazioni di sinistra,la linea costituzionale
è seguita con autorità, con fermezza, con lealtà, a cominciare dalla scelta del nuovo presidente del
Consiglio, Massimo d’Azeglio, dopo il provvisorio Delaunay indicatogli dal padre. Nel primo proclama di
Moncalieri, del 3 luglio, è troppo colorita la frase (rispondente, peraltro, agli umori dei dirigenti europei):
«L’Europa, minacciata nella sua esistenza sodale, è costretta oramai a scegliere, fra questa e la libertà». Ma
essa serve di rafforzamento all’ammonizione: « Sta in voi, nel vostro senno, preservarvi da questi estremi
,non rendere la libertà impossibile, nè impraticabile lo Statuto ». Motivo ripreso nel secondo e più
noto proclama per il nuovo scioglimento della Camera: ma ripresa dietro cui c’è qualche motivo di ritenere che
non si nascondesse nessun disegno di soppressione, o sospensione, dello statuto ma semplicemente
una messa in vigore del trattato di pace con l’Austria per sola autorità regia.
I reazionari in attesa di colpi di Stato, o almeno di leggi severamente
restrittive, rimasero delusi. Nè riuscirono più fortunate le pressioni di cui sarebbe ora di fare (in tanto diluvio
di pubblicazioni documentarie) una analitica e sintetica storia.
Già l’anno seguente, 1850, per l’abolizione del Foro ecclesiastico, il Re
si trovò a dover affermare la sua costituzionalità e insieme con essa quella dello Stato, di fronte ai
tradizionali privilegi ecclesiastici, e Vittorio Emanuele l’affermò, superando
personali, forti sentimenti dì devozione alla Chiesa e al papa Pio IX.
Prima fase di una battaglia che durerà sino alla fine della vita, sempre più
ardua, ma anche più vittoriosa battaglia che allora concorse, quanto « più di quelle militari, alla fondazione
dello Stato italiano, e che nell'insieme conserva ancora oggi valore esemplare.
Un valore analogo possiamo assegnare al comportamento di Vittorio Emanuele
II rispetto al «connubio» Cavour-Rattazzi, e alla conseguente ascesa e
lunga permanenza di Cavour al potere, di necessità e utilità politica somma, ma non facile sempre a ingranare con quella funzione
direttiva che il Re riteneva suo diritto e dovere.
Impossibile, per mancanza di spazio, rievocare qui le
singole fasi del decennio di collaborazione fra i due, con gli episodi di accordo e di contrasto; diciamo qui che, a parte gli
urti personali (con la ordinaria mescolanza di diritto e di torto), l’accordo fini per prevalere sempre sulla
linea migliore per la patria italiana. ^ Con Cavour, e forse prima ancora di lui, Vittorio Emanuele II volle
la spedizione di Crimea; dietro Cavour egli fu, con tutta la propria risolutezza e audacia, per il
congresso di Parigi e la successiva sempre più ardita esplicazione della missione italiana del Piemonte; e non
tanto «dietro» quanto a fianco, o addirittura avanti (grazie alla responsabilità costituzionale del grande
ministro), stette di fronte a Napoleone III e al resto d’Europa, per la tutela
dell’indipendenza e dignità delio Stato, per il promovimento dell’alleanza e
della guerra, per la riunione dell’Italia centrale e meridionale. Al momento
della spedizione dei Mille, è Vittorio Emanuele II a strappare il consenso di
Cavour, reluttante per gravissime ragioni Ma è soprattutto di fronte a Garibaldi
che la funzione di Re Vittorio si rivelò benefica, e anzi decisiva.
Fu il fascino della personalità regia, insieme col buon senso del grande
condottiero, a rendere possibile la opera decisiva dì Garibaldi, mantenendola al tempo stesso nel quadro interno e internazionale
unico possibile. L’anticavouriano Vittorio Emanuele seppe dir «no» senza
esitazione alla richiesta di Garibaldi del licenziamento di Cavour; il Re «ultimo dei conquistatori» (secondo il detto di
Sella) seppe imporre il suo veto all’avanzata di Garibaldi da Napoli su Roma.
Dopo la morte di Cavour, Vittorio Emanuele fu fortemente aiutato dall’alto
sentimento di sè, dalla sua spregiudicatezza di azione, e al tempo stesso dalla veduta realistica interna e
internazionale, a mantenere la continuità e a stimolare e controllare l’avanzamento
dell’opera nazionale. Ricordiamo, come particolarmente caratteristica, la trattativa
segreta con Mazzini; come particolarmente meritoria, l’accettazione del
trasporto della capitale da Torino a Firenze, fatta preferire a Napoli, con la
considerazione di buon senso, che sarebbe stato molto più facile venir via dalla
prima che dalla seconda; come altamente significativa, la relazione al « jamais
» di Rouher dopo Mentana, che costrinse questo a rimangiarselo.
Anche dopo il 20 settembre 1870 la funzione direttiva superiore del «Padre
della Patria» non cessò; e trovò applicazione, sia nella risoluta affermazione del diritto nazionale su
Roma, accompagnata dai doverosi riguardi al Pontefice, sia nella cura di buone
relazioni internazionali con la Francia da una parte, con gli imperi centrali dall’altra. (E’ rimasta famosa la franchezza con cui
egli disse all’imperatore Guglielmo I di essere stato lì li, nel 1870, per
fargli la guerra). Ma il fatto maggiore del Re, in questi ultimi anni, fu di
aver assicurato il passaggio pacifico del governo dalla destra alla sinistra,
consacrando definitamente il regime parlamentare. Scomparendo precocemente, in
mezzo al compianto profondo e unanime della nazione, egli avrebbe potuto
ripetere: « Cursum consummavi, fìdem servavi ».
In questo centenario non solo dell’unità italiana, ma di Roma acclamata
capitale, non si può meglio chiudere la rievocazione del primo Re d’Italia, se non ripetendo le parole dette
da lui alla deputazione romana che gli presentava il plebiscito del 2 ottobre: «L’ardua
impresa è compiuta, e la, patria ricostituita. Il nome di Roma, il più grande che suoni sulle bocche degli uomini, si
ricongiunge oggi a quello dell’Italia, il nome più caro al mio cuore ».
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