Il “vecio alpin” che vestì in grigioverde l'Esercito Italiano
di Aldo A. Mola
Dal blu al grigioverde: sempre “Avanti Savoia” e viva l'Italia.
Con la visita all'Altare della Patria e a Vittorio Veneto, il Milite Ignoto e la città sacra alla Vittoria del IV novembre 1918, ancora una volta il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha indicato, col linguaggio dei simboli e dei luoghi memoriali, la parabola della vera storia d'Italia nel giorno convenzionale della liberazione dalla guerra e dell'inizio della Ricostruzione. Questa voleva, doveva e dovrebbe essere l'unità Stato-Nazione e della fratellanza tra i popoli nella giustizia internazionale: “pax in iure gentium”, la divisa della “Corda Fratres”. A un mese dall’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo il mònito del Presidente giunge puntuale. Ricorda l'abissale differenza tra l'Europa attuale, da quasi 75 anni in pace (sia pure “armata”) dall'Atlantico a Vladivostok, e quella del 1919-1920, gli anni delle paci sbagliate, o quella del 1945-1946, che videro l'inizio della guerra fredda, greve e opprimente negli Stati sotto giogo dell'URSS, ma sempre meglio che sotto le bombe atomiche.
Nei cento anni dalla Grande Guerra a oggi lo “strumento militare” è profondamente mutato in ogni suo aspetto, come ricordano la “Storia dell'esercito italiano” del generale Oreste Bovio e il succoso “Esercito italiano. Storia e Tradizioni” editi dall'Ufficio Storico dello SME (Roma, via Etruria 23). Per secoli gli eserciti sono andati in battaglia con abiti e vessilli sgargianti. I colori facevano la differenza. Distinguevano dai nemici e mostravano la superiorità dei corpi organizzati rispetto alle truppe raccogliticce. Sull'esempio delle legioni romane (con labari e aquile), Napoleone I coniugò arte militare e genio politico e dedicò massima cura alle divise perché, contrariamente a quanto solitamente si dice, esse fanno il guerriero, proprio come la tonaca fa il monaco nelle parti consacrate (la testa e le mani). Gli ussari dell'Impero napoleonico rimangono i cavalieri più eleganti della storia di Francia. Sicuramente costosi, furono anche i più valorosi. Un'élite nell'ambito dell'immensa Armata giunta a contare 600.000 uomini su 30 milioni di abitanti. Per stare alla pari, l'Italia odierna dovrebbe avere in linea un esercito di circa 1.200.000 effettivi. Invece la sua politica estera (che è anche militare) tragicamente annaspa. Né vale obiettare che oggi ogni soldato è un concentrato di tecnologia bellica d'avanguardia. Lo erano anche i militari di allora, bardati e armati di tutto punto, nei confronti della forza dei “civili”. Il perfezionamento delle armi da fuoco mutò lo scenario dei campi di battaglia. Un tiratore scelto di primo Ottocento non sempre centrava un albero a cinquanta metri. Le bombarde facevano più rumore che danni. Poi la canna rigata, i cannoni a retrocarica e a tiro rapido e, infine, la mitragliatrice cambiarono tutto. All'avanguardia fu la guerra di secessione degli USA: il primo grande massacro con “ferri nuovi”. Per la maggior parte degli eserciti europei la svolta venne con la conflagrazione del luglio-agosto 1914. Andare all'assalto o anche solo appostarsi ai margini di un bosco o sul ciglio di una trincea indossando pantaloni rossi, bianchi o giallini e giubbe azzurre o scarlatte significava far da bersaglio al fuoco nemico. Bisognò cambiare, e in fretta. Molto prima che s’imponesse la severa lezione della grande guerra, a voltar pagina in Italia ci aveva pensato un ufficiale degli alpini, Donato Etna. D'intesa con il presidente della sezione milanese del Club Alpino Italiano, Luigi Brioschi, egli propose di passare almeno per gli alpini dal “blu”, comune a tutta la fanteria, al grigio, il colore delle rocce. In molti ambienti la proposta non fu affatto gradita. Non era facile separarsi dai colori consegnati alla memoria dai celebri quadri di Fattori, Induno, Segantini e narrati dalla sterminata memorialistica e narrativa delle guerre risorgimentali.
I primi a vestire il nuovo colore furono 40 alpini della brigata Morbegno, comandata da Etna. Il “Plotone Grigio” nell'ottobre 1906 montò la guardia al Palazzo Reale di Milano in occasione di una visita di Vittorio Emanuele III. Pensoso e riflessivo, il Re lo passò in rivista. Poco più di un anno dopo, il 4 dicembre 1908, con la disposizione 458 fu ordinata l'adozione del grigioverde per l'intero Regio Esercito Italiano. Presidente del Consiglio era Giovanni Giolitti (Mondovì, 1842-Cavour, 1928), che fondeva senso dello Stato e buon senso antico e col Re parlava in piemontese. Ministro della Guerra, per la prima volta dall'unità nazionale, era un borghese: Severino Casana, ingegnere torinese, poi sostituito dall'alessandrino Paolo Spingardi, già comandante generale dei carabinieri.
Il “cambio” non riguardò solo l'abito. Dieci anni dopo la repressione delle “insurrezioni” a Milano, Pavia e in Toscana, seguite di sei anni ai “fasci siciliani”, e dopo il suo ricorrente impiego nel ripristino dell'ordine pubblico messo in forse da scioperi politici sovversivi, l'esercito doveva non solo essere ma sentirsi tutt'uno con il Paese, come lo avevano vaticinato Francesco De Sanctis, Edmondo De Amicis, Giosue Carducci e capi di stato maggiore che arrivavano dalle file del volontariato garibaldino, come Enrico Cosenz, già allievo della “Nunziatella” di Napoli. Avanzava una generazione di ufficiali di volitivi, studiosi, attenti a quanto avveniva non solo oltralpe ma anche in terre lontane: dalla feroce guerra anglo-boera in Sud-Africa (Churchill vi fece la sua “prova del fuoco”) a quella russo-giapponese del 1904-1905. Il ruolo delle forze armate come espressione della Nazione era nelle prime pagine dei quotidiani all'epoca più diffusi.
Donato Etna di sangue reale
Donato Etna ebbe più influenza di quanto generalmente si sappia. Nel 1906, a quarantotto anni, venne promosso colonnello. Aveva alle spalle un lungo servizio. Volontario con ferma permanente dal 1877, quando aveva 19 anni, sottotenente degli Alpini dal 1880, temporaneamente assegnato al corpo di stato maggiore, nel 1898, dopo la sconfitta subita dagli italiani ad Adua (1 marzo 1896) era andato alpino in Eritrea, la terra ove erano caduti i piemontesi Pietro Toselli, di Peveragno, Giuseppe Galliano, di Vicoforte, Giuseppe Arimondi, di Savigliano... Come lui, partì una legione di militari italiani (lo fece anche il giovane Pietro Badoglio) sulla traccia del cardinal Massaia. Visionari? Colonialisti? Imperialisti? Altrettanto facevano da molto più tempo i loro coetanei inglesi, francesi, olandesi e da poco anche belgi e tedeschi nei rispettivi possedimenti. Altri Stati europei non avevano colonie ma dominavano con altri mezzi non meno convincenti degli “scarponi sulla terra”: la finanza e la bilancia commerciale. Gli Stati Uniti erano il modello. Difficile stabilire se il commercio seguiva la bandiera o viceversa.
Al di là del grado nell'Esercito, Donato Etna aveva una carta in più per risultare convincente. Alla nascita, in Mondovì, il 15 giugno 1858, fu registrato figlio di genitori ignoti. Nel suo caso, però, mentre della “madre” si vociferò fosse una “maestra di Frabosa” (non si sa se Soprana o Sottana) il “pater” fu subito certo, come riferisce un appunto nell’archivio storico dello Stato Maggiore. Era Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, che se ne occupò con discrezione e affetto. Il nome e il cognome furono un riconoscimento e un programma. Donato nacque poche settimane prima degli accordi di Plombières tra Napoleone III e Camillo Cavour, premessa sostanziale e poi formale dell'alleanza tra impero francese e regno di Sardegna contro l'Austria per l'ingrandimento sabaudo nell'Italia settentrionale. Sin dal 1713 la Sicilia aveva recato la corona regale a Vittorio Amedeo II, come narra Tommaso Romano, componente della Consulta dei senatori del regno: una decisione ribadita nel 1848. A Torino il possesso del Vulcano dell'Isola del Sole più che una speranza era e rimaneva un programma.
La famiglia “allargata” di Vittorio Emanuele II
Re Vittorio aveva una vita privata più lineare, persino monocorde, di quella solitamente narrata. La Consorte, Adelaide, era morta nel 1855 nel travagliato ottavo parto in soli 11 anni dalle nozze. Dei figli maschi le sopravvissero Umberto, principe di Piemonte, duca di Savoia e poi Re di Sardegna e d'Italia; Amedeo, duca di Aosta e poi Re di Spagna; e Oddone, duca di Monferrato (1846-1866). Duca di Savoia, dal 1847 Vittorio Emanuele aveva instaurato un rapporto uxorio con la quattordicenne Rosa Vercellana. A suo modo le rimase fedele “usque ad mortem” al di là degli “incontri casuali”, all'epoca consueti non solo per sovrani ma per militari di terra e di mare, commercianti, esploratori e anche per politici, sia stanziali (Cavour ne è un esempio) sia erratici (come Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi e Francesco Crispi...).
Dalla “Bella Rosina” (dall'11 aprile 1859 contessa di Mirafiori e di Fontanafredda) Re Vittorio ebbe Vittoria ed Emanuele Alberto Guerrieri (che lo seguì nella campagna del 1866 contro l'Austria). In pericolo di vita, il 7 novembre 1869 il Re sposò Rosa con rito religioso e il 7 novembre 1877 con rito civile: matrimonio morganatico, cioè senza senza effetti dinastici, benché la sposa avesse titolo di “Altezza”. Esclusa dal Pantheon (“tomba” provvisoria del Re, come poi di suo figlio, Umberto assassinato a Monza a soli 56 anni) Rosa venne poi deposta nel “piccolo Pantheon” appositamente fatto edificare dai suoi eredi a Mirafiori (16 metri di diametro). Molti trovarono curiosa l'insegna scritta sul suo frontone, “Dio, Patria, Famiglia”, sia poiché essa era cara a Mazzini, sia perché Re Vittorio, come Cavour, era stato scomunicato per la “debellatio” dello Stato Pontificio e la sua famiglia era un po' “allargata”. La figlia, Vittoria, sposò il primo aiutante di campo del Re. Alberto impalmò la figlia del dovizioso conte di Larderel e si affermò come enologo di fama europea, come già il marchese Tancredi Falletti di Barolo. Sulla sua traccia proseguì Gastone Guerrieri di Mirafiori, deputato nazionalista e senatore.
Il “vecio” Etna a Carzano, dopo Caporetto...
Già decorato durante l'“impresa di Libia”, asceso a generale Donato Etna si condusse con valore nel corso della Grande Guerra. Legò il nome a due sue battaglie, una azzardata (rimasta nell'oblio), l'altra (la ritirata dall'Isonzo al Piave), ove nel disastro generale rifulse il suo valore. La prima fu il “sogno di Carzano”, più volte narrato come possibile “sfondamento in Trentino” un mese prima di Caporetto, “occasione perduta” secondo il “memoriale” di Cesare Pettorelli Lalatta. In sintesi, per quanti già non conoscano la vicenda, dall'agosto 1917 un militare sloveno prese contato con Pettorelli per informare sui piani austro-ungarici e caldeggiare un'offensiva italiana in quello che era ritenuto settore debole della difesa austro-ungarica. Dopo ulteriori contatti e tergiversazioni, il piano venne proposto al Comandante Supremo, Luigi Cadorna, che ci rifletté e infine autorizzò l'azzardo. La filiera fece capo proprio al generale Etna, comandante della XVIII Divisione, che però ebbe al seguito ufficiali nominati da poco nei rispettivi ruoli. Mancò un vero progetto. A ben vedere su quel tratto non si sfondava proprio nulla per due motivi chiarissimi a Cadorna: in primo luogo lì l'Austria poteva essere ferita ma non penetrata e vinta. In secondo luogo ormai si era esaurita l'offensiva generale d'agosto sulla Bainsizza. Lo sforzo era stato enorme. Come l'anno prima, anche nel 1917 l'Italia era stato l'unico Paese ad avanzare in territorio nemico. L'Austria-Ungheria fu sull’orlo del collasso. A salvare gli Imperi Centrali fu il crollo della Russia, in preda alla rivoluzione bolscevica innescata da Lenin trasferito dai tedeschi in vagone piombato dalla Svizzera, con le trame del “Grande Parvus”.
Cadorna, stratega autentico come ha documentato suo nipote Carlo in “Caporetto. Risponde Cadorna” (ed. BCSMedia), aveva una visione europea della guerra. La “missione Carzano” finì come prevedibile. Il primo a non crederci fu proprio Etna, che appesantì le truppe con i “fardelli” per attestarsi quale eventuale “testa di ponte” in attesa di rinforzi che però il Comando Supremo non poteva inviare perché li avrebbe distolti dal fronte principale. A conclusione la VI Armata venne sciolta e fusa con la I. Il “Capo” aveva ragione. Proprio sull'alto Isonzo alle 2 del mattino del 24 ottobre 1917 si scatenò l'inferno che costrinse all'arretramento del fronte come narrò Luigi Cadorna in “La guerra alla fronte italiana” (BastogiLibri, 2019). Tra i migliori comandanti nella lunga sanguinosa e spesso eroica battaglia di arresto del nemico vi fu proprio Donato Etna, molto apprezzato dal nipote, Vittorio Emanuele III, che stimava quello “zio”, gli era sinceramente affezionato e gli conferì decorazioni e riconoscimenti. Del resto proprio Etna era stato tra i migliori nell'organizzazione delle difese del Monte Grappa, fulcro della difesa italiana contro l'avanzata nemica e della riscossa del 1918.
Il 14 ottobre il sessantenne generale Etna guidò l'avanguardia dell'Esercito italiano nella battaglia finale di Vittorio Veneto e meritò la medaglia d'argento. Poi al comando del corpo di armata di Torino, nel 1919 fu esonerato perché intimò perentoriamente il rilascio degli ufficiali che si erano dichiarati favorevoli all'impresa di d'Annunzio a Fiume. Candidato alla Camera senza successo per la Lista della Vittoria nelle elezioni del novembre di quell’anno, il “Vecio Etna” guadagnò ampio seguito tra gli alpini e quanti temevano la rivoluzione rossa, che non era una fiaba ma una minaccia vera, come si vide con l'attacco della Russia di Lenin e Stalin alla Polonia in coincidenza con l'occupazione delle fabbriche nel triangolo industriale Torino-Milano-Genova. Prefetto ad Alessandria (febbraio-luglio 1923), piazza strategica sull'asse Torino-Genova all'avvento del governo Mussolini (31 ottobre 1922), e commissario al Comune di Torino nel 1925, nel 1933 Etna fu creato senatore del Regno. Così raggiunse alla Camera Alta i Principi del sangue e tanti generali, ammiragli, politici e imprenditori che avevano avuto ruolo protagonistico dall'intervento alla Vittoria.
...e per fermare lo spopolamento delle aree montane
Al centro della sua attenzione rimasero le ripercussioni negative dello spopolamento delle montagne sull’efficienza delle truppe alpine e sulla difesa della frontiera montana. Nel 1930 ne parlò al I congresso piemontese di “economia montana”: un assillo che non è né di destra né di sinistra. Era ed è un problema vero e serio. Lo divenne ancor più dopo la guerra del 1940-1945 quando le valli furono teatro di tanti conflitti: quello italo-francese del 1940-1943, il franco-italiano del 1944-1945, il germano-francese del 1943-1945 e, non ultimo, quello fratricida tra italiani dal 1943 al 1945. Un groviglio che richiede pazienza e pacatezza per essere districato in tutte le sue implicazioni e conseguenze. Gli “americani”, pochi ma in posizione chiave, stavano a guardare.
Scrivere di storia è facile trincerati fra libri. Altra cosa è farla. Costa lacrime e sangue. Perciò chi scrive deve sentire rispetto per le Persone di cui scrive. A distanza di tanto tempo si possono indicare tra gli eredi morali di Donato Etna uomini che si batterono per la liberazione del Piemonte da invasori di ogni genere e per la restaurazione dello Stato. In Piemonte la “nazione” esisteva da secoli, proprio grazie a Casa Savoia che aveva inoculato il senso di appartenenza e di condivisione. Le sue antiche insegne vennero rialzate dall'eroico generale Mario Perotti, fucilato al Martinetto di Torino, da Enrico Martini “Mauri”, Icilio della Rocca, Edgardo Sogno, Alessandro Trabucchi e da Aldone Quaranta, comandante militare della I Divisione “Giustizia e Libertà”, massone, figlio e nipote di illustri “Fratelli”. Fu lui a scrivere l'ordine di scioglimento della IV Armata dettato dal generale Mario Vercellino, grazie al quale i subordinati non poterono essere accusati di diserzione.
A differenza dei conti di Mirafiori, Donato Etna, non prese moglie. Sposò l'esercito. Dopo la caduta della monarchia, non ebbe neppure “eredi morali”. La sua Italia, grande e generosa, andava dimenticata. Motivo in più per ricordarlo ottant'anni dopo la morte. Fu il “vecio” che vestì gli alpini di verde, poi mutato nel grigioverde. Col suo vulcanico cognome insegnò la continuità montana dell'Italia, dalle valli dell'Italia settentrionale alla dorsale appenninica, dagli Abruzzi e Molise, bacino storico di truppe alpine, ai monti siciliani. Donato Etna, figlio di Vittorio Emanuele II e della “maestrina di Frabosa”, insegna che l'unità orografica della “Saturnia Tellus” è tutt'uno con quella morale della “itala gente da le molte vite”.
Aldo A. Mola
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