NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 21 febbraio 2019

TORNA LA “LINEA GOTICA”? NON CE LO CHIEDE L'EUROPA


                                          
di Aldo A. Mola

Centralismo e pluralismo
L'Italia è uno Stato ancora giovane. Dalla sua unificazione (1861-1918) è dilaniata da opposti egoismi, malattia infantile vissuta, ma quasi ovunque superata, da tutti i grandi Paesi non solo d'Europa ma del mondo intero. Non ve n'è uno, dall'Asia alle Americhe, che non abbia alle spalle conflitti tra potere centrale e realtà particolari, emarginate e spinte a incattivirsi sino alla ribellione. Altrettanto avvenne nei tempi andati, segnati dalla contrapposizione spesso violenta tra centralismo tirannico e sudditi. Per dominare i popoli più riottosi i sultani turchi li affidarono a “governatori” usi a spolparli e a immiserirli. Avevano per modello gli onnipotenti satrapi dominanti sulle province dell'impero persiano, multietnico e plurireligioso, felice un'unica volta nella sua lunga storia con Ciro il Grande, elevato dagli Illuministi a campione di tolleranza. Solo i Romani seppero bilanciare la Maestà dell'impero con il pluralismo, concedendo larghe autonomie vegliate da proconsoli e procuratori. Ma anch'essi ebbero il famelico Verre in Sicilia e il discusso Ponzio Pilato a Gerusalemme. Plinio il Giovane, proconsole  in Bitinia ai tempi di Traiano, colto e sensibile anche verso le “minoranze, compresi i cristiani, fu e rimane esempio inarrivabile. 
A conferma di quanto lo Stato italiano sia ancora adolescente, basti dire che solo l'anno venturo verrà festeggiato (o almeno ricordato, speriamo) il 150° dell'annessione di Roma, dieci anni prima proclamata capitale d'Italia per iniziativa di Camillo Cavour (27 marzo 1861).

Le regioni: da Augusto e Napoleone...
Se lo Stato d'Italia è giovane le sue Regioni sono invenzione recente e artificiosa. A parte quelle a statuto speciale, varate nella temperie della sconfitta e nel timore di separatismi armati, dalla Sicilia alla Valle d'Aosta, le ordinarie hanno appena mezzo secolo. Furono introdotte nel 1969-1970 contro la strenua opposizione del Partito liberale e del Movimento sociale che vi intravidero la decomposizione dell'unità e la “finanza allegra” moltiplicata per venti, quante ormai erano le regioni d'Italia. Gli studiosi non prevenuti osservano che queste portano molto male i loro cinquanta-settant'anni anni, anche a causa della polverizzazione della giustizia amministrativa che ha generato la babele dei “poteri” con i Tribunali amministrativi regionali, sovrastati dal minossiano TAR del Lazio, e dei particolarismi, in perenne conflitto. In un Paese perennemente bambino, la litigiosità fu e viene esaltata come “orgoglio identitario” o persino “valoriale”, come dicono quelli che parlano difficile e incartano in parole di stagnola rilucente il vuoto del pensiero. 
Poiché in un Paese più incline alle invenzioni linguistiche che capace di costruire strade, ponti e ferrovie tanto si discorrerà (forse invano) di regioni “ad autonomia potenziata”, uno sguardo al passato aiuta a capire di cosa si stia parlando. Alle radici dell'Italia attuale vi sono i sette Stati preunitari, nessuno dei quali coincideva con le regioni odierne. La sua prima suddivisione amministrativa risale al 2 avanti Cristo. Fu Caio Ottaviano Augusto a ripartire l'Italia, finalmente pacificata dalle Alpi al Faro (Reggio Calabria) in undici regioni, dalla I (Lazio e Campania) all' XI, la Transpadana (dalla sinistra del Po all'attuale Svizzera, comprendente Aosta, Torino, Milano e Bergamo, ma non il Piemonte occidentale odierno). La Liguria, IX Regio, si estendeva dalla destra del Po a Nizza e fino al confine con l'Emilia e l'Etruria. Questa arrivava alle porte di Roma. La X Regio andava da Brescia all'Istria. Lasciava fuori il golfo del Carnaro, Fiume e la Dalmazia, con buona pace dei posteri. Corsica, Sicilia e Sardegna (ove i prigionieri erano condannati “ad metalla”) non erano Italia.  
Dopo vicissitudini inenarrabili, dalla fine dell'Impero romano in Occidente alla pace di Cateau Cambrésis (1559) ed ai rivolgimenti del Settecento, l'Italia divenne un mosaico di potentati (signorie, comuni, staterelli...), parte soggetti agli Asburgo di Vienna, titolari del Sacro Romano Impero, parte ai Borbone di Spagna. I Savoia, duchi e poi re di Sardegna, erano giustamente orgogliosi del titolo di Vicari dell'Imperatore in Italia. L'età franco-napoleonica (1798-1814/15) introdusse in Italia innovazioni importanti (codici, ammodernamento amministrativo, opere pubbliche, potenziamento dell'istruzione...) ma rischiò di annientare a tempo indeterminato ogni sogno di unione o unificazione “nazionale”, perché incorporò Piemonte e Liguria direttamente nell'Impero dei francesi (che già possedeva la Corsica), mentre il Regno d'Italia (da Milano e Venezia alle Marche) ebbe per sovrano Napoleone I e un viceré di sua scelta (Eugenio di Beauharnais, suo figlio adottivo). Prima il fratello, poi il cognato di Napoleone regnarono a Napoli, uno Stato nominalmente indipendente, ma di fatto sorvegliato dall'imperatore dei francesi. Altre terre (come la Toscana e lo Stato pontificio dopo la deportazione di Papa Pio VII) finirono direttamente sotto controllo di Parigi. Per chiudere il cerchio e mostrare alla Storia la soggezione dell'Italia alla Francia, Napoleone conferì a suo figlio, Francesco Carlo Napoleone, il titolo di Re di Roma. Sicilia (in mano al Borbone) e Sardegna (estremo fortilizio dei Savoia) rimasero fuori portata. A Napoleone interessava la Terraferma. Anzi, quella propriamente europea, dall'Atlantico agli Urali. Perciò non esitò a vendere la Louisiana agli Stati Uniti d'America.    
Benché dai confini più ampi rispetto a quelli del Settecento, gli Stati italiani in età franco-napoleonica non furono ripartiti in regioni ma in dipartimenti, secondo il modello francese, e presero nome dalla geografia, prevalentemente dai fiumi: Torino divenne Erìdano, Vercelli Sesia, Milano Olona... Fu un modo più drastico per rimuovere il passato, cancellare la memoria, segnare la discontinuità tra la storia “sacra” (il potere viene da Dio) e quella nuova (viene “dal popolo”, dalla “rivoluzione”, da una “piattaforma Rousseau”). Di fatto, dipartimenti, circondari (arrondissements), mandamenti (cantons) e comuni (mairies) ricalcarono suddivisioni precedenti. Passata la tempesta, con la Restaurazione del 1814-1815 gli Stati italiani mutarono i nomi delle ripartizioni, che però rimasero pressoché identiche. Il regno di Sardegna, per esempio, ebbe intendenti e sotto-intendenti, corrispondenti ai prefetti e sottoprefetti di età napoleonica. Altrettanto avvenne nel regno delle Due Sicilie. La realtà di fondo erano e rimasero le “province”. Al Congresso di Vienna (1815) a nessuno passò in mente di riesumare i micro-stati di cent'anni prima. Altrettanto accadde in Germania, passata comunque da quasi 400 “stati” ai soli 39 membri della Confederazione, comprendente l'Austria. Però alcune marchiane dicotomie sopravvissero. Agli occhi di Vienna, Venezia e Milano continuarono a rimanere mondi diversi. Ancor più distanti furono Trento e Trieste. L'Emilia tornò a contare i ducati di Modena e Reggio (asburgico), Parma e Piacenza (a noleggio: prima a Maria Luisa, moglie subito consolabile di Napoleone relegato a Sant'Elena) e le legazioni pontificie, da Bologna alle Romagne.

... al Regno d'Italia
Quell'assetto resse sino al 1859-1860 quando in pochi mesi avvenne il miracolo: l'avvento del regno d'Italia con Vittorio Emanuele II di Savoia re costituzionale. A differenza della Carta repubblicana vigente, lo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Sardegna nel 1848 e divenuto costituzione del nuovo Stato non conferì alcun potere antagonistico alle amministrazioni locali. L'art. 74 lapidariamente recita: “Le istituzioni comunali e provinciali e la circoscrizione dei comuni e delle province sono regolati dalla legge”. L’organizzazione statuale sarebbe stata disciplinata dal Parlamento. Senza mettere in discussione la “legge fondamentale, perpetua e irrevocabile” dello Stato, a lungo venne proposto un ordinamento per “compartimenti”, più o meno rispondenti alle “regioni” oggi esistenti. A propugnarlo furono Marco Minghetti e altri liberali unitari erroneamente classificati come “federalisti”, mentre erano solo bene intenzionati fautori di un assetto amministrativo attento ad appianare gli squilibri esistenti, non a favorire l'arroccamento su privilegi e a rialzare steccati nello Stato unitario. È singolare che essi affollassero soprattutto la linea gotica, la saldatura/cesura indicata da Giuseppe Galasso in  l'“Italia come problema storiografico”, volume introduttivo alla “Storia d'Italia” edita dalla Utet, contrapposta a quella diretta da Ruggero Romano e Corrado Vivanti per la Einaudi e alla “Storia sociale d'Italia” edita dalla Teti di Milano: grandi opere nate proprio in risposta all'avvento delle regioni.

Perché l'Italia non ebbe un assetto regionale
Il regionalismo incappò in tre ostacoli assolutamente insormontabili. In primo luogo il regno d'Italia faticò a rendersi credibile dalle grandi potenze. Era preda di spinte sovversive. come la spedizione garibaldina “Roma o Morte” del 1862, e tardò a essere riconosciuto dalla Comunità internazionale. Solo nel 1867 sedette “alla pari” in una conferenza diplomatica. Per anni, e non solo all'estero, in molti avevano diffidato della sua tenuta. Era nato troppo in fretta. In secondo luogo, per sette anni il regno dovette fare i conti con il “grande brigantaggio”, recentemente esaltato da giornalisti spacciantisi per storici quale guerra civile, come “resistenza” del Mezzogiorno contro il genocidio del Sud. Libretti intitolati “Terroni” o “Carnefici” hanno montano grilli per la testa non solo nel Mezzogiorno. In ogni regione una quota di laudatores temporis acti ha “scoperto” i torti subiti dal Potere centrale e si è tuffata nell'elogio del passato remoto (in realtà intriso di arretratezza, sottosviluppo, miseria, malattie, analfabetismo...).
Anni e anni di menzogne hanno alimentato il rivendicazionismo che nel marzo 2018 si è versato nelle urne, sette anni dopo la “celebrazione” del 150° della nascita del Regno, “sentita” a Torino e a Genova, imbandierate di tricolore, molto più che a Venezia e a sud della linea gotica, in un'Italia culturalmente disarticolata. La terza palla al piede del regno unitario fu la lacerazione tra i cattolici papisti e i cattolici italiani. L'elogio di Pio IX (per ora solo beato) quale campione della fede verace è certo legittimo dal punto della sua religione. Lo è molto meno sotto il profilo storico, perché quel papa approfondì il solco tra la Chiesa universale e i cattolici che si riconobbero nello Stato italiano, nelle sue amministrazioni locali, nel progresso civile di un Paese ancora in tanta parte arcaico, come documentano gli atti dei congressi degli scienziati e le inchieste sui diversi ambiti della società e dell'economia.
Quella Nuova Italia aveva bisogno assoluto di potere centrale per gettare i pilastri portanti dell'unità di un Paese per secoli frantumato in staterelli ripiegati su sé medesimi in politica estera e organizzazione militare. Essa puntò quindi sulla valorizzazione dell'unico istituto rispondente alla storia: le province. Ogni Stato preunitario le aveva e se ne era valso, perché esse rifrangevano la realtà. Erano organiche soprattutto negli Stati meno attrezzati di infrastrutture e di istituti di formazione. Era il caso del regno dei Borbone, che “al di qua del Faro” contava su una sola Università, quella di Napoli.
Perciò il regno ridisegnò e intese le “regioni” solo come “compartimenti”, per meri fini statistici, senza alcun riconoscimento di potere politico-amministrativo. La loro definizione geografica, tuttavia, non fu affatto irrilevante. Lo si vide quando, uscita di minorità, l'Italia poté intraprendere con lena l'unificazione effettiva. Fu la stagione delle “leggi speciali” varate dai governi di primo Novecento, da Giuseppe Zanardelli a Giovanni Giolitti, a beneficio di Basilicata (per molti era ancora Lucania), Calabria, Puglia, Sardegna... All'epoca la miseria, la sottoalimentazione e le pandemie per denutrizione o suoi riflessi (la pellagra o “mal della rosa”, la malaria, il “cretinismo”... ) affliggevano anche vaste plaghe dell'Italia settentrionale, dalle valli alpine al Polesine. La modernizzazione incontrava i maggiori ostacoli nel notabilato locale, arroccato nella difesa di privilegi e di rendite di posizione, indifferente nei confronti del “nuovo”, come deplorarono tanti meridionali (Giustino Fortunato, Antonio Cefaly, Tommaso Senise, Pietro Rosano, Giuseppe Saredo,...) che non avevano bisogno di proclamarsi meridionalisti. Si sentivano ed erano italiani, come il fiore della cultura illuministica del Settecento decapitato e afforcato  nel 1799 dall'ammiraglio inglese Horatio Nelson in combutta con Ferdinando IV di Borbone, ripetutamente spergiuro e sua moglie, Maria Carolina d'Asburgo.

Più senso dello Stato e più Europa
L'Italia aveva e ha bisogno non di “più Stato” ma di una dirigenza e di cittadini con un più alto “senso dello Stato”: sentimento razionale che conduce a porre l'interesse generale al di sopra del particolare, nella consapevolezza che questo è meglio tutelato nell'ambito dell'altro. Si vince e si perde tutti insieme. Non per caso i Paesi europei il cui assetto economico-sociale risulta oggi più solido e trainante sono quelli che da tempo hanno intrapreso la via della semplificazione amministrativa. Valgono d'esempio Francia e Spagna. Parigi  ha ridotto a 7 le macroregioni (Alsazia, Aquitania, Alvernia, Borgogna, Linguadoca, Nord e Normandia) puntando sui Dipartimenti e su ciò che avvicina anziché su contrapposizioni arcaiche. Altrettanto ha fatto la Spagna, ove le regioni davvero rilevanti sono una manciata (Andalusia, Aragona, Castiglia e Leòn, Castiglia e la Mancha. Estremadura), altre sono retaggio del passato ma territorialmente quasi irrilevanti (Asturie, Cantabria, Murcia, Navarra, Rioja, la stessa Comunidad valenciana ,..). In quel quadro balza evidente l'anomalia dell'indipendentismo repubblicano della Catalogna: non federalismo, ma sovversione dello Stato, inconciliabile con l'Europa del Terzo millennio.
Ed è appunto con il quadro europeo che va misurato ogni ragionamento sulle regioni d'Italia, sia quelle, ormai antistoriche, a statuto speciale, sia quelle aspiranti alla “autonomia potenziata”. Tutto è possibile, ma tenendo sotto gli occhi la classifica del prodotto lordo delle province fornita da Eurostat. Lì si vede che anche le migliori fra le italiane si piazzano dal 200° posto in poi, mentre molte ne affollano il fondo. Qualunque accentuazione del divario tra le diverse aree avrebbe ripercussioni di portata molto prevedibile: la deflagrazione del Paese. Orbene, non è l'Europa a chiederci di rifare la linea gotica, di compromettere l'unità nazionale faticosamente raggiunta dopo quindici secoli di dominio straniero e di forsennate divisioni dell'“itala gente da le molte vite”. Semmai proprio l'“Europa”, che ancora acquista immobili nell'Italia centro-meridionale e imprese in quella settentrionale, ha interesse a relegarla in un passato remoto di cui non si sente alcuna nostalgia. Va comunque esclusa qualsivoglia tentazione di conferire alle regioni una sorta di “politica estera”, camuffata da “relazioni internazionali dirette”. La sovranità è una sola: quella dello Stato d'Italia. Chi la pensa diversamente vada a Redipuglia ad ascoltare la voce che si leva dai centomila caduti lì sepolti, come negli altri Sacrari dei caduti nella Grande guerra: “Presente!”. È l'invocazione che arriva dalla pagina più dolorosa e più alta della storia d'Italia, il sacrificio di giovani di tutte le classi sociali giunti “alla fronte” (come scriveva Luigi Cadorna) da ogni provincia del Paese per coronare l'unità nazionale. A quel mònito anche oggi l'Italia deve rispondere “Presente!”. Non per vuota retorica, ma per rispetto di sé e della “pax in iure gentium”, interna e internazionale, che da lì doveva e deve nascere nella Nuova Europa, simboleggiata anche dal sepolcro di Federico II Staufen a Palermo, dalla statua di Carlo d'Angiò, scolpita da Arnolfo da Cambio, dalla corona ferrea conservata nel Duomo di Monza, dall'Emanuele Filiberto, Testa di ferro” che da Torino veglia non solo su Piazza San Carlo, ma sull'Italia intera e, rivolto alle Alpi, insegna che da lì non si passa più quali nemici. Si transita da fratelli, come Bernardo di Chiaravalle,autore della Regola dei sempre attuali Cavalieri Templari.


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