di Aldo A. Mola
Centralismo e pluralismo
L'Italia è uno Stato ancora giovane. Dalla
sua unificazione (1861-1918) è dilaniata da opposti egoismi, malattia infantile
vissuta, ma quasi ovunque superata, da tutti i grandi Paesi non solo d'Europa
ma del mondo intero. Non ve n'è uno, dall'Asia alle Americhe, che non abbia
alle spalle conflitti tra potere centrale e realtà particolari, emarginate e
spinte a incattivirsi sino alla ribellione. Altrettanto avvenne nei tempi
andati, segnati dalla contrapposizione spesso violenta tra centralismo
tirannico e sudditi. Per dominare i popoli più riottosi i sultani turchi li
affidarono a “governatori” usi a spolparli e a immiserirli. Avevano per modello
gli onnipotenti satrapi dominanti sulle province dell'impero persiano,
multietnico e plurireligioso, felice un'unica volta nella sua lunga storia con
Ciro il Grande, elevato dagli Illuministi a campione di tolleranza. Solo i
Romani seppero bilanciare la Maestà dell'impero con il pluralismo, concedendo
larghe autonomie vegliate da proconsoli e procuratori. Ma anch'essi ebbero il
famelico Verre in Sicilia e il discusso Ponzio Pilato a Gerusalemme. Plinio il
Giovane, proconsole in Bitinia ai tempi
di Traiano, colto e sensibile anche verso le “minoranze, compresi i cristiani,
fu e rimane esempio inarrivabile.
A conferma di quanto lo Stato italiano sia
ancora adolescente, basti dire che solo l'anno venturo verrà festeggiato (o
almeno ricordato, speriamo) il 150° dell'annessione di Roma, dieci anni prima
proclamata capitale d'Italia per iniziativa di Camillo Cavour (27 marzo 1861).
Le regioni: da Augusto e
Napoleone...
Se lo Stato d'Italia è giovane le sue Regioni
sono invenzione recente e artificiosa. A parte quelle a statuto speciale,
varate nella temperie della sconfitta e nel timore di separatismi armati, dalla
Sicilia alla Valle d'Aosta, le ordinarie hanno appena mezzo secolo. Furono
introdotte nel 1969-1970 contro la strenua opposizione del Partito liberale e
del Movimento sociale che vi intravidero la decomposizione dell'unità e la
“finanza allegra” moltiplicata per venti, quante ormai erano le regioni
d'Italia. Gli studiosi non prevenuti osservano che queste portano molto male i
loro cinquanta-settant'anni anni, anche a causa della polverizzazione della
giustizia amministrativa che ha generato la babele dei “poteri” con i Tribunali
amministrativi regionali, sovrastati dal minossiano TAR del Lazio, e dei
particolarismi, in perenne conflitto. In un Paese perennemente bambino, la
litigiosità fu e viene esaltata come “orgoglio identitario” o persino
“valoriale”, come dicono quelli che parlano difficile e incartano in parole di
stagnola rilucente il vuoto del pensiero.
Poiché in un Paese più incline alle
invenzioni linguistiche che capace di costruire strade, ponti e ferrovie tanto
si discorrerà (forse invano) di regioni “ad autonomia potenziata”, uno sguardo
al passato aiuta a capire di cosa si stia parlando. Alle radici dell'Italia
attuale vi sono i sette Stati preunitari, nessuno dei quali coincideva con le
regioni odierne. La sua prima suddivisione amministrativa risale al 2 avanti
Cristo. Fu Caio Ottaviano Augusto a ripartire l'Italia, finalmente pacificata
dalle Alpi al Faro (Reggio Calabria) in undici regioni, dalla I (Lazio e
Campania) all' XI, la Transpadana (dalla sinistra del Po all'attuale Svizzera,
comprendente Aosta, Torino, Milano e Bergamo, ma non il Piemonte occidentale
odierno). La Liguria, IX Regio, si estendeva dalla destra del Po a Nizza e fino
al confine con l'Emilia e l'Etruria. Questa arrivava alle porte di Roma. La X
Regio andava da Brescia all'Istria. Lasciava fuori il golfo del Carnaro, Fiume
e la Dalmazia, con buona pace dei posteri. Corsica, Sicilia e Sardegna (ove i
prigionieri erano condannati “ad metalla”) non erano Italia.
Dopo vicissitudini inenarrabili, dalla fine
dell'Impero romano in Occidente alla pace di Cateau Cambrésis (1559) ed ai
rivolgimenti del Settecento, l'Italia divenne un mosaico di potentati
(signorie, comuni, staterelli...), parte soggetti agli Asburgo di Vienna,
titolari del Sacro Romano Impero, parte ai Borbone di Spagna. I Savoia, duchi e
poi re di Sardegna, erano giustamente orgogliosi del titolo di Vicari
dell'Imperatore in Italia. L'età franco-napoleonica (1798-1814/15) introdusse
in Italia innovazioni importanti (codici, ammodernamento amministrativo, opere
pubbliche, potenziamento dell'istruzione...) ma rischiò di annientare a tempo
indeterminato ogni sogno di unione o unificazione “nazionale”, perché incorporò
Piemonte e Liguria direttamente nell'Impero dei francesi (che già possedeva la
Corsica), mentre il Regno d'Italia (da Milano e Venezia alle Marche) ebbe per
sovrano Napoleone I e un viceré di sua scelta (Eugenio di Beauharnais, suo
figlio adottivo). Prima il fratello, poi il cognato di Napoleone regnarono a
Napoli, uno Stato nominalmente indipendente, ma di fatto sorvegliato
dall'imperatore dei francesi. Altre terre (come la Toscana e lo Stato
pontificio dopo la deportazione di Papa Pio VII) finirono direttamente sotto
controllo di Parigi. Per chiudere il cerchio e mostrare alla Storia la
soggezione dell'Italia alla Francia, Napoleone conferì a suo figlio, Francesco
Carlo Napoleone, il titolo di Re di Roma. Sicilia (in mano al Borbone) e
Sardegna (estremo fortilizio dei Savoia) rimasero fuori portata. A Napoleone
interessava la Terraferma. Anzi, quella propriamente europea, dall'Atlantico
agli Urali. Perciò non esitò a vendere la Louisiana agli Stati Uniti d'America.
Benché dai confini più ampi rispetto a quelli
del Settecento, gli Stati italiani in età franco-napoleonica non furono
ripartiti in regioni ma in dipartimenti, secondo il modello francese, e presero
nome dalla geografia, prevalentemente dai fiumi: Torino divenne Erìdano,
Vercelli Sesia, Milano Olona... Fu un modo più drastico per rimuovere il
passato, cancellare la memoria, segnare la discontinuità tra la storia “sacra”
(il potere viene da Dio) e quella nuova (viene “dal popolo”, dalla
“rivoluzione”, da una “piattaforma Rousseau”). Di fatto, dipartimenti,
circondari (arrondissements), mandamenti (cantons) e comuni (mairies)
ricalcarono suddivisioni precedenti. Passata la tempesta, con la Restaurazione
del 1814-1815 gli Stati italiani mutarono i nomi delle ripartizioni, che però
rimasero pressoché identiche. Il regno di Sardegna, per esempio, ebbe
intendenti e sotto-intendenti, corrispondenti ai prefetti e sottoprefetti di
età napoleonica. Altrettanto avvenne nel regno delle Due Sicilie. La realtà di
fondo erano e rimasero le “province”. Al Congresso di Vienna (1815) a nessuno
passò in mente di riesumare i micro-stati di cent'anni prima. Altrettanto
accadde in Germania, passata comunque da quasi 400 “stati” ai soli 39 membri
della Confederazione, comprendente l'Austria. Però alcune marchiane dicotomie
sopravvissero. Agli occhi di Vienna, Venezia e Milano continuarono a rimanere
mondi diversi. Ancor più distanti furono Trento e Trieste. L'Emilia tornò a
contare i ducati di Modena e Reggio (asburgico), Parma e Piacenza (a noleggio:
prima a Maria Luisa, moglie subito consolabile di Napoleone relegato a
Sant'Elena) e le legazioni pontificie, da Bologna alle Romagne.
... al Regno d'Italia
Quell'assetto resse sino al 1859-1860 quando
in pochi mesi avvenne il miracolo: l'avvento del regno d'Italia con Vittorio
Emanuele II di Savoia re costituzionale. A differenza della Carta repubblicana
vigente, lo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Sardegna nel 1848 e divenuto
costituzione del nuovo Stato non conferì alcun potere antagonistico alle
amministrazioni locali. L'art. 74 lapidariamente recita: “Le istituzioni
comunali e provinciali e la circoscrizione dei comuni e delle province sono
regolati dalla legge”. L’organizzazione statuale sarebbe stata disciplinata dal
Parlamento. Senza mettere in discussione la “legge fondamentale, perpetua e
irrevocabile” dello Stato, a lungo venne proposto un ordinamento per
“compartimenti”, più o meno rispondenti alle “regioni” oggi esistenti. A
propugnarlo furono Marco Minghetti e altri liberali unitari erroneamente
classificati come “federalisti”, mentre erano solo bene intenzionati fautori di
un assetto amministrativo attento ad appianare gli squilibri esistenti, non a
favorire l'arroccamento su privilegi e a rialzare steccati nello Stato
unitario. È singolare che essi affollassero soprattutto la linea gotica, la
saldatura/cesura indicata da Giuseppe Galasso in l'“Italia come problema storiografico”,
volume introduttivo alla “Storia d'Italia” edita dalla Utet, contrapposta a
quella diretta da Ruggero Romano e Corrado Vivanti per la Einaudi e alla
“Storia sociale d'Italia” edita dalla Teti di Milano: grandi opere nate proprio
in risposta all'avvento delle regioni.
Perché l'Italia non ebbe un assetto regionale
Il regionalismo incappò in tre ostacoli
assolutamente insormontabili. In primo luogo il regno d'Italia faticò a
rendersi credibile dalle grandi potenze. Era preda di spinte sovversive. come
la spedizione garibaldina “Roma o Morte” del 1862, e tardò a essere
riconosciuto dalla Comunità internazionale. Solo nel 1867 sedette “alla pari”
in una conferenza diplomatica. Per anni, e non solo all'estero, in molti
avevano diffidato della sua tenuta. Era nato troppo in fretta. In secondo
luogo, per sette anni il regno dovette fare i conti con il “grande
brigantaggio”, recentemente esaltato da giornalisti spacciantisi per storici
quale guerra civile, come “resistenza” del Mezzogiorno contro il genocidio del
Sud. Libretti intitolati “Terroni” o “Carnefici” hanno montano grilli per la
testa non solo nel Mezzogiorno. In ogni regione una quota di laudatores
temporis acti ha “scoperto” i torti subiti dal Potere centrale e si è tuffata
nell'elogio del passato remoto (in realtà intriso di arretratezza,
sottosviluppo, miseria, malattie, analfabetismo...).
Anni e anni di menzogne hanno alimentato il
rivendicazionismo che nel marzo 2018 si è versato nelle urne, sette anni dopo
la “celebrazione” del 150° della nascita del Regno, “sentita” a Torino e a
Genova, imbandierate di tricolore, molto più che a Venezia e a sud della linea
gotica, in un'Italia culturalmente disarticolata. La terza palla al piede del
regno unitario fu la lacerazione tra i cattolici papisti e i cattolici
italiani. L'elogio di Pio IX (per ora solo beato) quale campione della fede
verace è certo legittimo dal punto della sua religione. Lo è molto meno sotto
il profilo storico, perché quel papa approfondì il solco tra la Chiesa
universale e i cattolici che si riconobbero nello Stato italiano, nelle sue
amministrazioni locali, nel progresso civile di un Paese ancora in tanta parte
arcaico, come documentano gli atti dei congressi degli scienziati e le
inchieste sui diversi ambiti della società e dell'economia.
Quella Nuova Italia aveva bisogno assoluto di
potere centrale per gettare i pilastri portanti dell'unità di un Paese per
secoli frantumato in staterelli ripiegati su sé medesimi in politica estera e
organizzazione militare. Essa puntò quindi sulla valorizzazione dell'unico
istituto rispondente alla storia: le province. Ogni Stato preunitario le aveva
e se ne era valso, perché esse rifrangevano la realtà. Erano organiche
soprattutto negli Stati meno attrezzati di infrastrutture e di istituti di
formazione. Era il caso del regno dei Borbone, che “al di qua del Faro” contava
su una sola Università, quella di Napoli.
Perciò il regno ridisegnò e intese le
“regioni” solo come “compartimenti”, per meri fini statistici, senza alcun
riconoscimento di potere politico-amministrativo. La loro definizione
geografica, tuttavia, non fu affatto irrilevante. Lo si vide quando, uscita di
minorità, l'Italia poté intraprendere con lena l'unificazione effettiva. Fu la
stagione delle “leggi speciali” varate dai governi di primo Novecento, da
Giuseppe Zanardelli a Giovanni Giolitti, a beneficio di Basilicata (per molti
era ancora Lucania), Calabria, Puglia, Sardegna... All'epoca la miseria, la
sottoalimentazione e le pandemie per denutrizione o suoi riflessi (la pellagra
o “mal della rosa”, la malaria, il “cretinismo”... ) affliggevano anche vaste
plaghe dell'Italia settentrionale, dalle valli alpine al Polesine. La
modernizzazione incontrava i maggiori ostacoli nel notabilato locale, arroccato
nella difesa di privilegi e di rendite di posizione, indifferente nei confronti
del “nuovo”, come deplorarono tanti meridionali (Giustino Fortunato, Antonio
Cefaly, Tommaso Senise, Pietro Rosano, Giuseppe Saredo,...) che non avevano
bisogno di proclamarsi meridionalisti. Si sentivano ed erano italiani, come il
fiore della cultura illuministica del Settecento decapitato e afforcato nel 1799 dall'ammiraglio inglese Horatio
Nelson in combutta con Ferdinando IV di Borbone, ripetutamente spergiuro e sua
moglie, Maria Carolina d'Asburgo.
Più senso dello Stato e più Europa
L'Italia aveva e ha bisogno non di “più
Stato” ma di una dirigenza e di cittadini con un più alto “senso dello Stato”:
sentimento razionale che conduce a porre l'interesse generale al di sopra del
particolare, nella consapevolezza che questo è meglio tutelato nell'ambito
dell'altro. Si vince e si perde tutti insieme. Non per caso i Paesi europei il
cui assetto economico-sociale risulta oggi più solido e trainante sono quelli
che da tempo hanno intrapreso la via della semplificazione amministrativa.
Valgono d'esempio Francia e Spagna. Parigi
ha ridotto a 7 le macroregioni (Alsazia, Aquitania, Alvernia, Borgogna,
Linguadoca, Nord e Normandia) puntando sui Dipartimenti e su ciò che avvicina
anziché su contrapposizioni arcaiche. Altrettanto ha fatto la Spagna, ove le
regioni davvero rilevanti sono una manciata (Andalusia, Aragona, Castiglia e
Leòn, Castiglia e la Mancha. Estremadura), altre sono retaggio del passato ma
territorialmente quasi irrilevanti (Asturie, Cantabria, Murcia, Navarra, Rioja,
la stessa Comunidad valenciana ,..). In quel quadro balza evidente l'anomalia
dell'indipendentismo repubblicano della Catalogna: non federalismo, ma
sovversione dello Stato, inconciliabile con l'Europa del Terzo millennio.
Ed è appunto con il quadro europeo che va
misurato ogni ragionamento sulle regioni d'Italia, sia quelle, ormai
antistoriche, a statuto speciale, sia quelle aspiranti alla “autonomia
potenziata”. Tutto è possibile, ma tenendo sotto gli occhi la classifica del
prodotto lordo delle province fornita da Eurostat. Lì si vede che anche le migliori
fra le italiane si piazzano dal 200° posto in poi, mentre molte ne affollano il
fondo. Qualunque accentuazione del divario tra le diverse aree avrebbe
ripercussioni di portata molto prevedibile: la deflagrazione del Paese. Orbene,
non è l'Europa a chiederci di rifare la linea gotica, di compromettere l'unità
nazionale faticosamente raggiunta dopo quindici secoli di dominio straniero e
di forsennate divisioni dell'“itala gente da le molte vite”. Semmai proprio
l'“Europa”, che ancora acquista immobili nell'Italia centro-meridionale e
imprese in quella settentrionale, ha interesse a relegarla in un passato remoto
di cui non si sente alcuna nostalgia. Va comunque esclusa qualsivoglia
tentazione di conferire alle regioni una sorta di “politica estera”, camuffata
da “relazioni internazionali dirette”. La sovranità è una sola: quella dello
Stato d'Italia. Chi la pensa diversamente vada a Redipuglia ad ascoltare la
voce che si leva dai centomila caduti lì sepolti, come negli altri Sacrari dei
caduti nella Grande guerra: “Presente!”. È l'invocazione che arriva dalla
pagina più dolorosa e più alta della storia d'Italia, il sacrificio di giovani
di tutte le classi sociali giunti “alla fronte” (come scriveva Luigi Cadorna)
da ogni provincia del Paese per coronare l'unità nazionale. A quel mònito anche
oggi l'Italia deve rispondere “Presente!”. Non per vuota retorica, ma per
rispetto di sé e della “pax in iure gentium”, interna e internazionale, che da
lì doveva e deve nascere nella Nuova Europa, simboleggiata anche dal sepolcro
di Federico II Staufen a Palermo, dalla statua di Carlo d'Angiò, scolpita da
Arnolfo da Cambio, dalla corona ferrea conservata nel Duomo di Monza,
dall'Emanuele Filiberto, Testa di ferro” che da Torino veglia non solo su
Piazza San Carlo, ma sull'Italia intera e, rivolto alle Alpi, insegna che da lì
non si passa più quali nemici. Si transita da fratelli, come Bernardo di
Chiaravalle,autore della Regola dei sempre attuali Cavalieri Templari.
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