Geografia e storia della sofferenza umana
“Il cielo stellato sopra di me, la legge morale
dentro di me”. È l'epitaffio di Immanuel Kant,
il filosofo della Ragione (1724-1804). Al tempo suo la superficie terrestre non
era ancora conosciuta nella sua interezza. Assetati di sapere e avidi di
possedere, gli europei si stavano
reciprocamente annientando in conflitti belluini, le guerre del 1792-1815 che
esportarono la Rivoluzione francese, con prodotti e sottoprodotti: non meno di cinque
milioni di morti per cause belliche. Ne pronunciò la condanna definitiva Lev
Tolstoj in Guerra e Pace.
Al Grande Architetto dell'Universo dobbiamo la
geografia. Gli ominidi, in gran parte tuttora primordiali, ne fanno scempio. È difficile dire se la sorte peggiore tocchi ai
popoli dai confini appariscenti (come i Pirenei e le Alpi, il canale della
Manica...) o a quelli senza un “limes” fissato nettamente dalla “natura”. Gli
uni e gli altri sono stati travolti da scorrerie, invasioni e dominazioni.
Chiusi nell'autocontemplazione del presente gli europei deplorano tragedie
recenti. Fanno bene, se però comprendono che queste sono l'epifenomeno di
millenni.
È bene ricordare. Ma va ricordato tutto,
non solo quanto di volta in volta vien comodo.
Forse la sorte peggiore è toccata nel tempo
alle genti comunque “di confine”. Con un'avvertenza, però: a segnare i confini
non sono solo terre, mari, monti e fiumi. Sono soprattutto gli uomini: gli
imperi, gli stati, i potentati, grandi o piccoli, con le loro articolazioni.
Sono le religioni ingessate in chiese (con i loro tribunali, le scomuniche, le
persecuzioni di eretici e non credenti), i fanatismi, le ideologie, l'anarchia
del potere finanziario, il terrorismo dalle “centrali” insondabili e dai
tentacoli occulti. Nulla è nuovo sotto il sole. Il sacro romano imperatore
affidò al banchiere Fuegger la vendita delle indulgenze che spostò il consenso
popolare dal Papato a Martin Lutero.
Fiume, emblema dell'Adriatico Amaro
Tristissima è la sorte di lande dai confini
apparentemente sin troppo precisi ma al tempo stesso incerti per la
conflittualità degli interessi che vi convergono. È il
caso dell'Adriatico Amaro. Per esempio di Fiume, oggi rigogliosa città della
Croazia. La sua vicenda è emblematica. Va ricordata con quella delle città
dalmatiche, dell'Istria e del Goriziano sottratte allo Stato d'Italia dal 1945:
una sanguinosa spoliazione, suggellata dal Trattato di pace del 10 febbraio
1947 e resa definitiva dall'intempestivo Trattato di Osimo del 1975, quando
ormai l'Unione Sovietica e l'usurpatrice Jugoslavia erano tarlate e condannate
dalla storia.
Sappiamo da decenni quali e quante atrocità
furono perpetrate ai danni degli italiani, sopraffatti da odio alimentato da
“razza”, lingua, classe, ideologia politica e dalla barbarie che impregnò un
conflitto enfiato da belluinità codificate con direttive politiche e militari.
ordini del giorno, circolari e misure sbrigative. La seconda guerra mondiale
registrò nella penisola balcanica alcune tra le sue pagine più allucinanti, con
rappresaglie spinte all'esecuzione di cinquanta “nemici” (popolazione civile)
per ogni militare abbattuto, spesso martirizzato con efferatezza spietata. Dal
maggio 1945 Fiume fu teatro di feroce pulizia etnica ai danni degli italiani.
Vennero trucidati fascisti, antifascisti, autonomisti, socialisti e comunisti
non graditi a Tito. Furono ammazzati o infoibati talora semivivi anche persone
senza alcuna opinione politica, solo perché italiani, solo per il piacere
sadico di umiliare e annientare. Previo stupro, nel caso di donne, di qualsiasi
età, vittime sacrificali come Norma Cossetto, il cui dramma è finalmente
approdato alla televisione pubblica con la proiezione di “Red Land. Rossi
Istria” del regista Maxilimiano Hernando Bruno. Era costume ancestrale. Quanto
avvenne nel 1943-1948 è orrendo, ma ancora peggiore fu la carneficina scatenata
in molte plaghe dell'ex Jugoslavia dopo il suo collasso, con la spettrale
“assistenza” dell'Europa occidentale, della Nato, dell'Onu. Le macerie sono
ancora lì. Non sempre nei muri, sempre nei cuori.
Un calvario di secoli
Fra le tante tragedie vissute nei secoli, forse
la peggiore per Fiume fu quella del 1509, quando venne saccheggiata per ordine
di Angelo Trevisan, doge di Venezia. La Serenissima non ne tollerava la
concorrenza. Più perdeva dominio nel Mediterraneo (Marcantonio Bragadin venne
vinto e suppliziato a Famagosta dai turchi sessant'anni dopo) più la Repubblica
del Maggior Consiglio si arroccava nell'Adriatico. Non era “Italia”. Era
Venezia. Non prestiamo al passato remoto “idee” e “sentimenti” dei secoli
successivi.
Dal 1779 “autonoma” con Maria Teresa d'Asburgo,
Fiume conobbe una prima prosperità come porto franco nell'ambito del Sacro
Romano Impero, che nel corso di un secolo, tra il 1728 e il 1803 la collegò al
retroterra con la strada “carolina” e con la via “ludoviciana”, a conferma di
quanto le infrastrutture, ieri come oggi, facciano bene all'umanità.
Dopo vicissitudini troppo aggrovigliate da
poter essere ripercorse in poche righe (l'occupazione napoleonica, la
restituzione all'Ungheria, sempre nel contesto dell'impero d'Austria,
l'irruzione dei croati nel 1848...), Fiume divenne approdo normale del traffico
dall'Europa centrale all'Adriatico. Ne scrisse a lungo Leo Valiani, che vi
nacque e bene ne conosceva la
complessità.
Porto fiorente dell'Europa centrale
Dopo il 1866-1870 (guerra italo-prussiana
contro l'impero d'Austria e annessione di Roma) l'Italia ebbe motivo di
imboccare una politica estera di raccoglimento. Persa l'ingombrante amicizia di
Napoleone III, essa aveva poco da attendersi
dalla Francia, sia conservatrice (e filoclericale) sia incline a esportare la
repubblica per indebolire gli Imperi centrali e i suoi sodali, inclusa l'Italia
inclusa dal 20 maggio 1882 alleata con Berlino e Vienna. Nel volgere di un
quarantennio, tra apertura del Canale di Suez (il cui
150° è passato inosservato nella miope
Italia) e colonizzazione accelerata degli
spazi afro-asiatici il commercio ebbe la meglio sulle ideologie politiche. Il
benessere normalizzava e univa. I contatti diretti tra ceti dirigenti culturali
e imprenditoriali relegò rapidamente ai margini le pulsioni nazionali e gli
irredentismi. Dalle relazioni pacifiche e dallo sviluppo all'interno dei
singoli Stati si poteva ottenere più che dalle tensioni ideologiche e dai miti
tardo romantici. L'incremento demografico ed economico della città di Fiume ne
fu esempio lampante. Dopo la costruzione di Porto Baross (dal nome del ministro
ungherese che lo volle) in pochi decenni la città liburnica divenne il 10°
porto d'Europa per volume e valore di merci che vi transitavano.
La politica estera italiana: di
Stato, non di governo
Nel 1910 Francesco Guicciardini, ministro degli
Esteri dell'ultimo effimero governo presieduto da Sidney Sonnino, dichiarò alla
Camera che ormai la politica estera dell'Italia non era solo “di governo” ma
“di Stato”: la fedeltà alle alleanze pattuite apriva spazio a iniziative
italo-centriche, accolte con benevola comprensione se non mettevano in
discussione i grandi equilibri e la pace europea. Fu il caso della guerra del
1911-1912 per la sovranità dell'Italia su Tripolitania e Cirenaica. Purtroppo
(a conferma dell'opacità degli studi storici nostrani) la serie dei Documenti
diplomatici italiani continua a mancare di volumi sugli anni “nevralgici”:
dalla crisi bosniaca all'incontro di Racconigi tra Vittorio Emanuele III e lo
zar Nicola II (24 ottobre 1909), osteggiata dai repubblicani. In quegli anni
anche nelle file dei nazionalisti italiani l'imperialismo prevalse
sull'irredentismo. Esso mirava a un governo più “forte”, all'incremento delle
armi, alla repressione dei nemici interni quale premessa indispensabile per
audaci ingrandimenti territoriali oltremare se non ai confini. Venne messa la
sordina alle rivendicazioni vent'anni prima campeggiate da Lemmi, Crispi e
Carducci: Trento, Trieste, Nizza, la Corsica e la perla italiana nel
Mediterraneo, Malta. Quel programma che avrebbe comportato tensioni e conflitti
non solo contro l'Austria di Francesco Giuseppe, l'“imperatore degli
impiccati”, ma anche contro Parigi e Londra. Una follia. Perciò la frangia
ideologicamente più attrezzata dei nazionalisti mirò semmai a duplicare in
Italia il modello tedesco: somma della casta aristocratico-militare prussiana
(o borussica, studiata a fondo da Sergio Pistone) e socialismo nazionale
bismarckiano, positivamente volgente dalla rivoluzione alla socialdemocrazia.
Imperialismo di coccio tra imperialismi di
acciaio
Quel realismo nel 1915 ispirò i compensi
elencati nel memorandum avanzato dal governo Salandra-Sonnino come
contropartita per l'adesione di Roma alla Triplice Intesa anglo-franco-russa.
Roma chiese il confine dal Brennero a Monte Nevoso, passando per Trieste e
l'Istria, approdi strategici e isole della costa dalmatica, ma non Fiume,
assegnata dall'articolo 5 dell'"engagement" di Londra alla Croazia, ai danni
dell'Ungheria, ma pur sempre nell'ambito dell'impero austro-ungarico che in
quel momento nessuno (men che meno Roma) metteva in discussione. La
dissoluzione della monarchia austro-ungarica non fu prospettata né dal
Congresso massonico parigino del 28-30 giugno 1917 (che propose l'indipendenza
della Polonia e della Boemia e la demarcazione sulla base di plebisciti dei
confini nelle zone mistilingue) né dai quattordici punti enunciati dal
presidente degli USA Wilson nel gennaio 1918, incardinati
sull'“autodeterminazione” dei popoli. Solo nella primavera di quell'anno si
aprì la gara fra gli imperialismi ai danni degli ormai probabili vinti. La
“liberazione dei popoli oppressi” evocata da Francesco Leoncini in “Alternativa
Mazziniana” (Ed. Castelvecchi) fu il paravento ideologico e sentimentale dietro
il quale si scatenarono gli appetiti di Parigi sull'Europa orientale e
balcanica e della Gran Bretagna nel Mediterraneo orientale profittando del
collasso della Russia e dell'impero turco. Da mezzo secolo l'obiettivo vero
erano il controllo degli Stretti, il libero accesso al Mar Nero e quella Crimea
che nel 1853-56 era stata teatro della guerra anglo-franco-turca con l'aggiunta
del regno di Sardegna contro la Russia zarista.
Nella fase terminale della Grande Guerra mutò
anche la prospettiva postbellica dell'Italia, a sua volta abbacinata dalla
talassocrazia. Per sostituire l'impero asburgico nel dominio sull'Adriatico
(come sin dal 1914-1915 ventilato da propositi riservatamente enunciati da
Paolo Thaon di Revel, futuro Duca del Mare) l'Italia doveva però entrare in
rotta di collisione con il nascente Stato serbo-croato-sloveno, che non si
affacciò affatto improvvisamente nel 1918 ma era in nuce dal patto di Corfù,
immediatamente seguente il citato congresso massonico di Parigi: un disegno
completato con l'invenzione della
Cecoslovacchia, che non nacque per partenogenesi ma fu preparata a tavolino
dalla somma tra Grande Oriente di Francia, Gran Loggia di Francia e Quai
d'Orsay, con il benestare di Londra.
Indebitata sino al collo per il costo della
guerra, squassata dal crollo del potere d'acquisto della moneta e dal dilagare
di movimenti repubblicani (quali furono, all'inizio, i mussoliniani Fasci di
combattimento) e dei socialrivoluzionari, infiltrati dai bolscevichi, l'Italia
non aveva i mezzi per sorreggere né macro né microimperialismo. Aveva assoluto
bisogno di stabilità ai confini e all'interno per passare dalla produzione di
guerra a quella di pace e riprendersi dal peso del conflitto. La pretesa di
ottenere comunque Fiume, agitata al congresso della pace di Parigi nella
primavera del 1919, alla vigilia e anche oltre la firma del Trattato di Pace
(28 giugno) fece figurare l'Italia quale capofila del revisionismo mentre erano
ancora aperte le trattative poi approdate alle paci di Saint-Germain (con l'Austria),
Trianon (Ungheria), Neuilly (Bulgaria) e Sèvres (Turchia).
Dall'impresa sediziosa di d'Annunzio
all'annessione all'Italia
La Marcia di Ronchi e l'irruzione di Gabriele
d'Annunzio in Fiume il 12 settembre 1919 palesò quella sedizione nell'Esercito
che era sempre stata scongiurata dal 1861 e nelle fasi più drammatiche della
Grande Guerra, quando il governo di Roma si spinse a organizzare una sorta di
guerra parallela in Albania, ruvidamente deprecata dal Comandante Supremo,
Luigi Cadorna, generale del Risorgimento, secondo il quale solo vincendo sul
Carso l'Italia avrebbe riconquistato la Libia e affermato ogni altra sua
legittima aspirazione.
La lunga impresa di d'Annunzio a Fiume,
inizialmente caldeggiata dal Grande Oriente d''Italia anche tramite Giacomo
Treves, fondatore della loggia “Oberdan” di Trieste e fiduciario di Domizio
Torrigiani, fu ora osteggiata e ora corteggiata dal presidente del Consiglio
Francesco Saverio Nitti. Venne chiusa dal suo successore, Giovanni Giolitti,
con i colloqui italo-jugoslavi di Pallanza e di Spa e con il trattato di
Rapallo del 12 novembre 1920, che costituì Fiume in Corpus Separatum,
territorialmente collegato con il regno d'Italia. L'8 settembre 1920 “Ariel” d'Annunzio aveva intanto proclamato la
Reggenza di Fiume, forte della Carta del Carnaro, frutto dei molti “fraterni”
suggerimenti di Alceste De Ambris: una forzatura destinata a risolversi
tragicamente, con la proclamazione dello stato di guerra (21 dicembre), il
governo provvisorio dell'altalenante Antonio Grossich, il cannoneggiamento del
Palazzo della Reggenza, la partenza del Vate e la vittoria dell'“autonomista”
Riccardo Zanetta alle elezioni comunali del 21 aprile 1921.
Le turbolente elezioni politiche del maggio
1921, quasi immediatamente seguite dalle dimissioni di Giolitti a cospetto di
una Camera politicamente caotica, riaprirono la partita sulla sorte di Fiume
sino al colpo di mano di fascisti, legionari e repubblicani (3 marzo 1922), la
rinuncia di Giovanni Giuriati a presiedere un comitato di difesa nazionale, la
convenzione di Santa Margherita (23 ottobre 1922: canto del cigno del governo
Facta, come documentato da GianPaolo Ferraioli) e, in un quadro completamente
diverso, il Patto di Roma che il 27 gennaio 1924 assegnò Fiume all'Italia e
Porto Baross alla Jugoslavia.
La tragedia del 1945
Quel caos prolungato giovò poco a Fiume, che
nel 1931 contava appena 3.000 abitanti in più rispetto al 1910. Alla sua
effettiva ripresa concorse la riapertura ai traffici con l'Europa centrale,
dettata dalla ritrovata armonia tra la geografia, la politica e la cultura.
Tra i suoi maggiori interpreti fu Riccardo
Gigante, podestà, senatore, prefetto della provincia di Fiume dal 21 settembre
al 29 ottobre 1943, proditoriamente sequestrato dall'Ozna (terroristi comunisti)
e assassinato il 4 maggio 1945: una delle tante, troppe nefandezze perpetrate
dal IX corpus di Tito, avanzante con il beneplacito degli inglesi e
tardivamente fermato dagli Stati Uniti
d'America.
Chi contempli dall'alto la tersa avvincente
costa liburnica vede un tratto di quella che Dante Alighieri definì l'“aiola
che ci fa tanto feroci” e bene comprende che per l'Italia odierna,
economicamente fragile, priva di coerente governo politico, sull'orlo di un
conflitto istituzionale senza precedenti e dagli sbocchi imprevedibili, l'unica
garanzia di progresso è la Pax Europea, contro fatui nazionalismi, salti
all'indietro, il ritorno alla “guerra per
bande” e al conflitto tra Stati, tutti comunque superatissimi e impotenti
dinnanzi alle vere sfide del Terzo Millennio.
Solo in quel contesto potranno essere
definitivamente ricucite le “lingue tagliate” e risorgeranno liberamente gli
“italiani dimenticati”, meritoriamente studiati e riproposti in opere
pionieristiche da Giulio Vignoli, Giuseppe Parlato e da Luciano Monzali,
finalista del Premio Acqui Storia che, su iniziativa del suo presidente,
Alessandra Terzolo, propone ad Acqui il Giorno
del Ricordo (10 febbraio, dalle 10 alle 17) su “d'Annunzio, uomo dai mille
volti” e su “Fiume attraverso secoli di occupazioni” con interventi di Marco
Cimmino e di Ruggero Bradicich.
Per non dimenticare e per far memoria, ma a
tutto tondo.
Aldo A. Mola
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