
NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.
mercoledì 27 febbraio 2019
Rinnovato impegno dei monarchici sanniti in vista delle elezioni europee
Un fatto è certo: i monarchici di Italia
Reale Stella e Corona non intendono restare a guardare e promettono di
impegnarsi senza tregua in vista delle prossime elezioni europee dove contano
di essere presenti con una loro lista.
Questi
intendimenti sono stati ribaditi in primis dal segretario provinciale prof.
Vincenzo De Luca nel corso di un’affollata assemblea che si è svolta presso il
Circolo Culturale Ponticelli.
De
Luca ha anche precisato che tutta l’azione politica del Movimento sarà in
sintonia con il Centrodestra e fedeltà alla Casa Savoia ed al principe Emanuele
Filiberto.
Ha
presieduto i lavori il presidente nazionale di Italia Reale avv. Massimo
Mallucci de’ Mulucci.
Sono
anche intervenuti il dott. Giorgio Langeni, segretario provinciale della
regione Lazio, e il cav. Elio Santabarbara, segretario regionale di Italia
Reale - Stella e Corona.
martedì 26 febbraio 2019
Intervista al coordinatore provinciale dell’Unione Monarchica, Stefano Papa
Fino al 1946 l’Italia fu una Monarchia costituzionale basata sullo Statuto Albertino. Il Re d’Italia rappresentava il vertice dello stato e la titolarità della Corona si trasmetteva ereditariamente per successione dinastica. In seguito delle conseguenze storiche legate al militarismo del periodo fascista e del coinvolgimento della Monarchia, il referendum del 1946 – ancora oggi discusso e contestato sia da numerosi studiosi sia dai gruppi monarchici – trasformò la forma giuridica dello stato da Monarchia costituzionale a repubblica democratica. Di conseguenza lo Statuto Albertino fu sostituito dalla Costituzione, che ora rappresenta la legge suprema dello stato italiano.
Al contrario di quanto si possa immaginare, in Italia sono in tanti a pensare che la profonda crisi della politica e delle istituzioni sia dovuta prevalentemente alla forma giuridica dello stato. Per costoro la Monarchia costituzionale rappresenta una visione alternativa, ma più efficace, della forma repubblicana dello stato. Insomma, la Monarchia è un modello di stato che ancora oggi piace non soltanto agli ottantenni nostalgici di casa Savoia, ma unisce persone di tutte le generazioni.
Sul tema abbiamo incontrato il giovane coordinatore provinciale di Catania
dell’U.M.I. (Unione
Monarchica Italiana), Stefano Papa, per parlare di Monarchia, di
Costituzione, di associazionismo e relative attività politico-sociali.
Cos’è l’Unione Monarchica Italiana e cosa si
prefigge?
L’Unione
Monarchica Italiana è la più “antica” realtà
associativa monarchica italiana. È stata fondata nel 1944 a Roma, pochi giorni
dopo il ritorno al Quirinale di S.A.R. il Principe Umberto di Savoia, allora
Luogotenente generale del Regno d’Italia. L’U.M.I. rispecchiava allora – come
del resto ancora oggi – l’esigenza di raccogliere gli italiani che si
sentivano e si sentono istituzionalmente monarchici, indipendentemente
dalle singole opinioni politiche o di schieramento elettorale di appartenenza.
Il sodalizio attualmente conta, complessivamente, circa 70.000 iscritti
distribuiti su tutto il territorio nazionale, ognuno con le proprie idee
politiche, ma tutti accomunati nel sostenere democraticamente la forma
monarchica dello stato come alternativa istituzionale alla crisi del sistema
repubblicano. La sede centrale dell’U.M.I. è a Roma, il presidente nazionale è
l’Avv. Alessandro Sacchi, mentre il presidente regionale per la Sicilia è
l’Avv. Michele Pivetti Gagliardi. L’associazione conta tra le proprie fila
illustri esponenti del mondo politico, economico e culturale. In Sicilia ci
fregiamo di annoverare personalità come l’On. Enzo Trantino, l’On. Guido Lo
Porto, il Prof. Tommaso Romano, il Prof. Salvatore Bordonali e tanti altri importanti
rappresentanti della società siciliana.
Cosa ci
prefiggiamo sul piano politico-istituzionale? Proporre un referendum per
l’abrogazione dell’art. 139 della Costituzione: “La forma repubblicana non può
essere oggetto di revisione costituzionale”, che comprime in maniera
decisiva la sovranità popolare sbandierata nell’art. 1.
[...]
https://www.gazzettinonline.it/2019/02/25/intervista-al-coordinatore-provinciale-dellunione-monarchica-stefano-papa_122098.html
lunedì 25 febbraio 2019
Io difendo la Monarchia - cap VII -1

Si entra così nell’anno fatale della
seconda guerra mondiale. Il modo tedesco di rottura dei trattati precipita inesorabile verso
la nuova guerra. A marzo le Potenze europee si trovano poste dinnanzi alla
stessa situazione del settembre, a Monaco. Ma la Germania questa volta non lascia alle Cancellerie il tempo di riflettere. Il Presidente cecoslovacco Hacha, chiamato a Berlino, viene costretto a firmare un
documento nel quale si pone il destino del popolo ceco nelle mani di Hitler.
Dopo poche ore Praga viene occupata. Dopo Praga è la volta di Memel e intanto
comincia l’agitazione per Danzica e il
corridoio polacco. Francia, Inghilterra, Russia e Stati Uniti dichiarano di non
riconoscere il nuovo stato di cose. Siamo alle porte della guerra. Nessun
accordo onorevole è possibile con la Germania che di ogni intesa e di ogni
acquisto si avvale per prepararsi a uno slancio successivo nell’intento di
raggiungere il suo proclamato «spazio vitale». Il Governo italiano, irritato e per l’acquisto tedesco di Praga, compie a sua volta la deplorevole aggressione di Albania (1).
Un mese dopo senza consultare nessuno,
contrariamente a tutte le previsioni, contro il parere del suo ambasciatore a Berlino,
Mussolini, strinse con Hitler, il patto d'acciaio (2). Il conte Ciano si reca a
Milano (6-7 maggio) con il proposito di allentare, se possibile, in vista del
conflitto di Danzica, non di serrare i vincoli dell'Asse e si trova nella notte
tra il sei e il sette ad una intesa diretta tra Roma e Berlino. I due rivali e insieme i due complici, Mussolini e Hitler credono di giuocarsi reciprocamente: il primo vuole costringere l'altro alla
consultazione prima di lanciarsi in imprese come l’Anschluss e l’occupazione della Cecoslovacchia. Il secondo vuole legare l’Italia con un patto rigido e formale per impedirle un improvviso mutamento di rotta. Hitler sa che gli italiani detestano i tedeschi e più che mai l’hitlerismo e il razzismo (3).
consultazione prima di lanciarsi in imprese come l’Anschluss e l’occupazione della Cecoslovacchia. Il secondo vuole legare l’Italia con un patto rigido e formale per impedirle un improvviso mutamento di rotta. Hitler sa che gli italiani detestano i tedeschi e più che mai l’hitlerismo e il razzismo (3).
A questo punto si domanda perché il Re non
è intervenuto per impedire la firma del patto d’acciaio. In primo luogo il patto italo-tedesco doveva evitare le complicazioni belliche non
accelerarle. Sono note le condizioni su cui si basava l’accordo. L’Italia si
era trovata per tre volte consecutive a distanza di pochi mesi, tra il marzo
1938 e il marzo 1939, dinnanzi a una iniziativa tedesca (l’Anschluss, l’acquisto
dei Sudeti e il protettorato sulla Boemia) che poteva portare alla guerra e sempre
era stata tenuta all’oscuro o avvertita all’ultimo momento con un messaggio di
Hitler a Mussolini. Ora, con il patto d’acciaio, veniva stabilito all'art. 1
che « le parti contraenti si mantenevano permanentemente in contatto allo scopo di intendersi su tutte le questioni relative ai loro
interessi comuni e alla situazione generale europea». L’accordo si fondava
infine su alcune precise condizioni: 1) che le Potenze dell’Asse avevano
bisogno di un periodo di almeno tre anni per i loro armamenti; 2) che in tale
periodo non si dovevano sollevare questioni diplomatiche atte a provocare la
guerra; 3) che il Patto veniva stipulato nello spirito del precedente Patto Anticomintern.
Si poteva quindi obiettivamente pensare da
parte nostra alla possibilità di assicurare qualche anno di tregua all’Europa.
Vi è poi un altro ordine di
considerazioni. Il declino della fortuna mussoliniana era stato rapidissimo. Nell’ottobre 1938, dopo
Monaco, egli poteva obiettivamente essere giudicato come il maggiore uomo
politico europeo.
Poi d’improvviso, con l’inconsiderato attacco del conte "Ciano alla Francia del 30 novembre dello stesso anno, quindici giorni dopo la ratifica del patto di Pasqua con Londra; con la spedizione d’Albania e con la violenta sterzata interna verso una politica razziale, autarchica e antiborghese (ricordarsi il divieto della stretta di mano, l'adozione del passo romano di parata, l’imposizione dell’uso del voi invece del lei) la figura di Mussolini aveva molto perduto all’interno come all'estero. Tutto ciò era avvenuto in pochi mesi, ma naturalmente le sfere ufficiali non potevano rendersi conto del mutamento assai lentamente. Infine bisognava considerare che il rapporto fra le forze italiane e quelle tedesche si era pericolosamente modificato a nostro svantaggio dall’estate del 1934, quando Mussolini mobilitò due corpi d'armata al Brennero in seguito all’assassinio di Dolfuss. Nella primavera del 1939 non poteva non tener conto della nuova minaccia che avrebbe pesato sull'Italia nel
caso di una frattura dell'Asse per il ripudio da parte della Monarchia del legame ideologico che univa i due paesi e costituiva la premessa del Patto d'acciaio. Mussolini lo sapeva molto bene. Con la minaccia e con la pressione materiale della forza tedesca egli ricatterà negli ultimi anni la Monarchia, lo Stato Maggiore e il popolo italiano. Ogni settimana, ogni mese fra il giugno 1940 e il luglio 1943 la forza tedesca in Italia verrà aumentando di peso e di proterva insolenza. Nello stesso tempo le divisioni italiane più efficienti saranno consumate in folli spedizioni in Grecia, in Africa, in Russia così come le dotazioni di armi e di vestiario erano state logorate in Etiopia, in Spagna e in Albania nei quattro anni precedenti la grande prova. Mai un uomo di Governo ha commesso tanti errori in così breve tempo; mai un tradimento più nero contro il proprio paese fu compiuto da un Primo Ministro per conservare ad ogni costo il potere. Mussolini sapeva di poter contare su Hitler per un colpo di Stato che avesse avuto il pretesto di rafforzare il patto ideologico e politico «fra i due capi e i due popoli».
Si veda infatti l’annotazione del conte
Ciano nel suo diario in data tre giugno 1939 (undici giorni dopo la firma a Berlino del patto d’acciaio) : « Il duce pronunzia una violenta diatriba contro la Monarchia. È presente anche Starace. Il duce afferma che il Re è un piccolo uomo insipido e infido e che la monarchia con sue idiozie impedisce l’assorbimento
delle dottrine fasciste da parte dell’esercito ». E continuava: « Io sono come un gatto, cauto e prudente, ma
quando mi slancio sono sicuro di cadere dove desidero. Sto studiando ora se non sia il caso di farla finita con Casa Savoia ». Qualche giorno dopo Mussolini sta discutendo con Ciano attorno alle cerimonie che dovranno
accompagnare la visita del generale Franco (4). Mussolini dice: «Questa volta
non desidero interferenze come ve ne sono state in occasione della visita di
Hitler. Se il Re non ha abbastanza buon senso per ritirarsi sono io a volerlo.
È necessario presentare questa situazione paradossale al popolo italiano affinchè
possa scegliere tra me e il Re »!
Se Mussolini si esprimeva con tanta
insolenza di linguaggio all'indirizzo del Sovrano è evidente che questi non approvava e non apprezzava più l’indirizzo politico del Primo Ministro. Ma poteva in quel momento liberarsene? E con l’appoggio di
quale corpo politico? Se almeno il Senato avesse fatto un solo gesto di
allarme se non proprio di opposizione!
Ma qualcuno incalza: « Si poteva per uno
scrupolo costituzionale fare arrivare il popolo alla guerra? ». Non si trattava neppure di questo. Mussolini fingeva di non voler la guerra. Meglio ancora: Mussolini era oscillante ed oscuro: un giorno voleva distruggere la Francia, un giorno voleva salvarla.
Una mattina affermava la sua fedeltà all’alleanza con la Germania e la sera dello stesso giorno, al primo
annuncio sgradevole, bestemmiava contro la Germania e prometteva che a suo
tempo avrebbe saldato anche quel conto. Nell’estate del 1939 era però quasi
costantemente incline alla pace. Si legga nel diario Ciano alla data del 9 agosto: (Erano giunte nei giorni precedenti notizie gravi e allarmanti sui preparativi tedeschi da parte
dell’ambasciatore a Berlino Attolico e dell’addetto militare generale Marras. Ciano aveva domandato di vedere Ribbentrop per discutere con lui un progetto di Mussolini per una conferenza mondiale della pace). Ciano scrive: « 9 agosto — Decido di partire domani sera per Salisburgo. Il duce è ansioso di dimostrare ai tedeschi con
documenti che in questo momento la guerra sarebbe una follia. La nostra
preparazione non è tale da permetterci di essere sicuri della vittoria. Le probabilità
sono del cinquanta per cento pensa il duce Fra tre anni saranno dell’ ottanta
per cento».
(1) Vedi il diario di Ciano nel giornale Il Tempo (luglio agosto 1945). Alla data del 15 marzo Ciano: «Le truppe germaniche hanno iniziato l’occupazione della Boemia. Quale peso si potrà dare in futuro alle dichiarazioni e promesse (di Hitler) che ci interessano più direttamente? Sarebbe futile negare che questo umilia il popolo italiano. Bisogna dargli soddisfazione e un compenso: l’Albania». 19 marzo: «Il duce ha ordinato una concentrazione di forze nel Veneto. Se i tedeschi
cercheranno di fermarci spareremo. Sono più che mai convinto che questo potrebbe verificarsi. Gli avvenimenti di questi ultimi giorni hanno mutato la mia opinione sul Führer e sui tedeschi. Egli è troppo infedele e sleale ».
cercheranno di fermarci spareremo. Sono più che mai convinto che questo potrebbe verificarsi. Gli avvenimenti di questi ultimi giorni hanno mutato la mia opinione sul Führer e sui tedeschi. Egli è troppo infedele e sleale ».
(2) Vedi nella rivista «Politica Estera»: Come si arrivò al Patto d'acciaio (fascicolo di novembre del 1944). Vedi anche: Filippo Giolli : Come fummo condotti alla catastrofe ( « Pactum sceleris », pag. 137).
(3) Nel citato diario, alla data del 6 maggio Ciano scrive: « L’alleanza è stata decisa dopo un pranzo al Continental, sabato sera, in seguito ad una chiamata telefonica da parte del duce. Hitler per telefono ha dato immediatamente la sua approvazione e ha collaborato personalmente alla redazione dell’accordo ».
(4) La visita annunciata per il settembre 1939 non ebbe più luogo a causa
della sopravvenuta guerra mondiale
domenica 24 febbraio 2019
Bra, Giacomo Lino Mollo festeggia mezzo secolo di storia e antichità
Nella sua bottega di antichità il tempo si è fermato.
Ecco che cosa ci ha raccontato
Mentre tutto attorno cambia alla velocità del
digitale, a Bra c’è un luogo in cui il tempo si è fermato. Era il lontano 1964,
quando il signor Giacomo Lino Mollo decise di dedicarsi dapprima alla filatelia
e cinque anni più tardi anche al brocantage di articoli che vanno dalla numismatica
alle stampe, fino all’oggettistica vintage ed alle cose della nonna, facendo
crescere in questo modo diverse generazioni di amanti del genere.
[...]
Forse, per conoscerlo, vale la pena raccontare un
aneddoto. Era a Chambéry, in Francia, la nazione in cui è nata sua moglie,
quando ha incontrato Re Umberto II. Un’esperienza di quelle che restano nel
cuore, non per farsene un vanto.
In quel momento il suo pensiero è corso alle tante
preziosità dei Savoia che la sua bottega ha assortito e conservato nel tempo,
come se quel giorno i cimeli reali si fossero incarnati.
Nelle sue parole si mescolano tempi passati e
presenti. Intorno oggetti e curiosità di rara bellezza a cui manca solo la
parola.
[...]
http://www.targatocn.it/2019/02/23/leggi-notizia/argomenti/attualita/articolo/bra-giacomo-lino-mollo-festeggia-mezzo-secolo-di-storia-e-antichita.html
sabato 23 febbraio 2019
Così i Savoia vissero in Egitto
La coabitazione a casa Ambron

Faruk ne rimase molto contrariato, ma Vittorio lo tolse
rapidamente di pena e d'impaccio facendo sapere al suo giovane amico che non
c'era poi nulla di troppo grave in quel che stava accadendo e che, ormai, ai
rapidi trasferimenti aveva fatto l'abitudine. Egli si reputava, ed era,un
cittadino privato, e di questa improvvisa qualità cominciava a capire, e a
rivendicare, i più elementari e preziosi vantaggi: primo, quello d'abitare una
casa propria, senza intorno contese o discussioni.
Gino Olivieri, una specie di nostromo di Casa Reale, trovò la
casa d'un ricco italiano, da molti anni residente in Egitto, nel
quartiere Moharrem Bey a circa tre chilometri dal centro della città, verso la
marina. Casa Ambron, un nome circondato della maggiore stima e della più grande
simpatia in tutto l'Egitto.
[...]
Il Partito Monarchico fu contro l'ordinamento regionale
Il Presidente Domenico Giglio,
iscritto dal 1952 al 1972, prima al P.N.M. (Partito Nazionale Monarchico), poi P.D.I.
ed infine P.D.I.U.M., ricoprendone incarichi direttivi, ci fa presente, ad
integrazione dell’ importante articolo del prof. Mola, sull’ordinamento regionale,
che la battaglia contraria alle Regioni a Statuto Ordinario, fu condotta in
Parlamento oltre che dai liberali e dai missini, anche dai parlamentari del Partito
Monarchico ( PDIUM), il cui leader, l’on. Covelli pronunziò in tale occasione diversi
importanti discorsi nelle sedute del 14, 23 e 26 gennaio 1970. In queste sedute
del 1970 riprese gli argomenti che aveva già espressi nel 1967, il 12 e 17
ottobre, discutendosi le modalità delle elezioni dei Consigli Regionali,
ricordando la posizione contraria all’ordinamento regionale assunta fin dall’epoca
della Costituente, nel 1946-47, discorsi che andrebbero riletti per l’importanza
delle argomentazioni addotte, più che mai valide. Atteggiamento quindi coerente
nel tempo e presago delle tendenze, oggi trionfanti, di un forte impulso all’autonomia
con accentuazione ulteriore delle differenze tra Nord e Sud.
venerdì 22 febbraio 2019
Il Re smonta gli argomenti fallaci dei separatisti catalani
di Carmen Enriquez
Ancora una volta, doveva essere il Re a mettere i puntini sule “i” e affrontare l'errore di quelli che siedono sul banco degli imputati
del “procés” ripetono senza scrupoli affermando che per loro la democrazia è al
di sopra della legge e del diritto.
Mentre i politici provenienti da diverse forze presenti
in Parlamento sono impegnati scambiarsi accuse e a dirsi in faccia ogni tipo di
infamia - vera o falsa- il che ci fa prevedere la disastrosa campagna
elettorale incombente, Felipe VI
ha usato una grande dose di buon senso con le sue parole al Congresso
Internazionale dei Giuristi tenutosi a Madrid questa settimana
Dire con forza ai più prestigiosi professionisti
nel mondo occidentale che "non è lecito a fare appello a una
presunta democrazia al di sopra della legge e del diritto, perché senza il
rispetto delle leggi non esistono né convivenza né democrazia, ma
l'insicurezza, l'arbitrarietà e, in ultima analisi, il fallimento dei principi
morali e della società civile" significa affrontare senza timore di critiche
l'argomento fallace che i separatisti catalani hanno usato nella Corte Suprema cercando
di giustificare i loro gravi crimini.
Questo è esattamente ciò che ha fatto il Re in modo
inequivocabile, che nessuno possa ingannarsi e sappia con certezza che
l'argomento che hanno usato coloro che sono coinvolti nel referendum il 1 ottobre 2017 è ingiusto e falso.
Ma non finisce qui la necessità per il monarca di
raccogliere una grande dose di
pazienza e integrità contro il movimento indipendentista catalano,
perché dal prossimo fine settimana Don Felipe deve prepararsi ad affrontare di nuovo una
serie di offese e atti di mancanza di rispetto che indubbiamente, i
responsabili della Generalitat
della Catalogna, del Parlamento catalano e del Comune di
Barcellona prepareranno agli atti di apertura del Mobile World
Congress 2019 che inizierà questa domenica nella capitale catalana.
Il presidente Quim Torra, quello del Parlamento, Roger Torrent, e il
sindaco Ada Colau devono
tramare da giorni per chiarire al Re che non sono a favore della Monarchia
parlamentare, ne della subordinazione della Generalitat allo Stato
spagnolo e questo dà loro la luce verde per essere scortesi e irrispettosi
verso la prima autorità della Nazione.
Un atteggiamento imperdonabile e ulteriormente aggravato l'anno precedente, nel caso di Colau dicendo privatamente a Re Filippo che non aveva nulla contro di lui, ma non è d'accordo con l'istituzione della Corona. La tipica ambiguità di qualcuno che tenta futilmente di essere allo stesso tempo buono con Dio e con il diavolo.
Un atteggiamento imperdonabile e ulteriormente aggravato l'anno precedente, nel caso di Colau dicendo privatamente a Re Filippo che non aveva nulla contro di lui, ma non è d'accordo con l'istituzione della Corona. La tipica ambiguità di qualcuno che tenta futilmente di essere allo stesso tempo buono con Dio e con il diavolo.
giovedì 21 febbraio 2019
Conferenza per il Circolo Rex
“il più antico Circolo Culturale
della Capitale”
71° CICLO di CONFERENZE 2018-2019
***
“La Costituzione, già riformata
in peggio dal centrosinistra corre il rischio di ulteriori peggioramenti,
lesivi delle prerogative del Parlamento e dei diritti delle minoranze”
Su questi temi parlerà
Domenica 24 febbraio alle
ore 10.30
IL Professore Avvocato SALVATORE
SFRECOLA
“RIFORMA COSTITUZIONALE : COME, QUANDO E PERCHÉ'”
***
Sala Roma presso
“Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldovrandi 16
(ingresso con le scale),
o 16/B (ingresso con ascensore)
raggiungibile con le linee
tramviarie “3” e “19”
ed autobus, “ 910” ,” 223” ,”52” e “ 53”
***
Ingresso libero
TORNA LA “LINEA GOTICA”? NON CE LO CHIEDE L'EUROPA
di Aldo A. Mola
Centralismo e pluralismo
L'Italia è uno Stato ancora giovane. Dalla
sua unificazione (1861-1918) è dilaniata da opposti egoismi, malattia infantile
vissuta, ma quasi ovunque superata, da tutti i grandi Paesi non solo d'Europa
ma del mondo intero. Non ve n'è uno, dall'Asia alle Americhe, che non abbia
alle spalle conflitti tra potere centrale e realtà particolari, emarginate e
spinte a incattivirsi sino alla ribellione. Altrettanto avvenne nei tempi
andati, segnati dalla contrapposizione spesso violenta tra centralismo
tirannico e sudditi. Per dominare i popoli più riottosi i sultani turchi li
affidarono a “governatori” usi a spolparli e a immiserirli. Avevano per modello
gli onnipotenti satrapi dominanti sulle province dell'impero persiano,
multietnico e plurireligioso, felice un'unica volta nella sua lunga storia con
Ciro il Grande, elevato dagli Illuministi a campione di tolleranza. Solo i
Romani seppero bilanciare la Maestà dell'impero con il pluralismo, concedendo
larghe autonomie vegliate da proconsoli e procuratori. Ma anch'essi ebbero il
famelico Verre in Sicilia e il discusso Ponzio Pilato a Gerusalemme. Plinio il
Giovane, proconsole in Bitinia ai tempi
di Traiano, colto e sensibile anche verso le “minoranze, compresi i cristiani,
fu e rimane esempio inarrivabile.
A conferma di quanto lo Stato italiano sia
ancora adolescente, basti dire che solo l'anno venturo verrà festeggiato (o
almeno ricordato, speriamo) il 150° dell'annessione di Roma, dieci anni prima
proclamata capitale d'Italia per iniziativa di Camillo Cavour (27 marzo 1861).
Le regioni: da Augusto e
Napoleone...
Se lo Stato d'Italia è giovane le sue Regioni
sono invenzione recente e artificiosa. A parte quelle a statuto speciale,
varate nella temperie della sconfitta e nel timore di separatismi armati, dalla
Sicilia alla Valle d'Aosta, le ordinarie hanno appena mezzo secolo. Furono
introdotte nel 1969-1970 contro la strenua opposizione del Partito liberale e
del Movimento sociale che vi intravidero la decomposizione dell'unità e la
“finanza allegra” moltiplicata per venti, quante ormai erano le regioni
d'Italia. Gli studiosi non prevenuti osservano che queste portano molto male i
loro cinquanta-settant'anni anni, anche a causa della polverizzazione della
giustizia amministrativa che ha generato la babele dei “poteri” con i Tribunali
amministrativi regionali, sovrastati dal minossiano TAR del Lazio, e dei
particolarismi, in perenne conflitto. In un Paese perennemente bambino, la
litigiosità fu e viene esaltata come “orgoglio identitario” o persino
“valoriale”, come dicono quelli che parlano difficile e incartano in parole di
stagnola rilucente il vuoto del pensiero.
Poiché in un Paese più incline alle
invenzioni linguistiche che capace di costruire strade, ponti e ferrovie tanto
si discorrerà (forse invano) di regioni “ad autonomia potenziata”, uno sguardo
al passato aiuta a capire di cosa si stia parlando. Alle radici dell'Italia
attuale vi sono i sette Stati preunitari, nessuno dei quali coincideva con le
regioni odierne. La sua prima suddivisione amministrativa risale al 2 avanti
Cristo. Fu Caio Ottaviano Augusto a ripartire l'Italia, finalmente pacificata
dalle Alpi al Faro (Reggio Calabria) in undici regioni, dalla I (Lazio e
Campania) all' XI, la Transpadana (dalla sinistra del Po all'attuale Svizzera,
comprendente Aosta, Torino, Milano e Bergamo, ma non il Piemonte occidentale
odierno). La Liguria, IX Regio, si estendeva dalla destra del Po a Nizza e fino
al confine con l'Emilia e l'Etruria. Questa arrivava alle porte di Roma. La X
Regio andava da Brescia all'Istria. Lasciava fuori il golfo del Carnaro, Fiume
e la Dalmazia, con buona pace dei posteri. Corsica, Sicilia e Sardegna (ove i
prigionieri erano condannati “ad metalla”) non erano Italia.
Dopo vicissitudini inenarrabili, dalla fine
dell'Impero romano in Occidente alla pace di Cateau Cambrésis (1559) ed ai
rivolgimenti del Settecento, l'Italia divenne un mosaico di potentati
(signorie, comuni, staterelli...), parte soggetti agli Asburgo di Vienna,
titolari del Sacro Romano Impero, parte ai Borbone di Spagna. I Savoia, duchi e
poi re di Sardegna, erano giustamente orgogliosi del titolo di Vicari
dell'Imperatore in Italia. L'età franco-napoleonica (1798-1814/15) introdusse
in Italia innovazioni importanti (codici, ammodernamento amministrativo, opere
pubbliche, potenziamento dell'istruzione...) ma rischiò di annientare a tempo
indeterminato ogni sogno di unione o unificazione “nazionale”, perché incorporò
Piemonte e Liguria direttamente nell'Impero dei francesi (che già possedeva la
Corsica), mentre il Regno d'Italia (da Milano e Venezia alle Marche) ebbe per
sovrano Napoleone I e un viceré di sua scelta (Eugenio di Beauharnais, suo
figlio adottivo). Prima il fratello, poi il cognato di Napoleone regnarono a
Napoli, uno Stato nominalmente indipendente, ma di fatto sorvegliato
dall'imperatore dei francesi. Altre terre (come la Toscana e lo Stato
pontificio dopo la deportazione di Papa Pio VII) finirono direttamente sotto
controllo di Parigi. Per chiudere il cerchio e mostrare alla Storia la
soggezione dell'Italia alla Francia, Napoleone conferì a suo figlio, Francesco
Carlo Napoleone, il titolo di Re di Roma. Sicilia (in mano al Borbone) e
Sardegna (estremo fortilizio dei Savoia) rimasero fuori portata. A Napoleone
interessava la Terraferma. Anzi, quella propriamente europea, dall'Atlantico
agli Urali. Perciò non esitò a vendere la Louisiana agli Stati Uniti d'America.
Benché dai confini più ampi rispetto a quelli
del Settecento, gli Stati italiani in età franco-napoleonica non furono
ripartiti in regioni ma in dipartimenti, secondo il modello francese, e presero
nome dalla geografia, prevalentemente dai fiumi: Torino divenne Erìdano,
Vercelli Sesia, Milano Olona... Fu un modo più drastico per rimuovere il
passato, cancellare la memoria, segnare la discontinuità tra la storia “sacra”
(il potere viene da Dio) e quella nuova (viene “dal popolo”, dalla
“rivoluzione”, da una “piattaforma Rousseau”). Di fatto, dipartimenti,
circondari (arrondissements), mandamenti (cantons) e comuni (mairies)
ricalcarono suddivisioni precedenti. Passata la tempesta, con la Restaurazione
del 1814-1815 gli Stati italiani mutarono i nomi delle ripartizioni, che però
rimasero pressoché identiche. Il regno di Sardegna, per esempio, ebbe
intendenti e sotto-intendenti, corrispondenti ai prefetti e sottoprefetti di
età napoleonica. Altrettanto avvenne nel regno delle Due Sicilie. La realtà di
fondo erano e rimasero le “province”. Al Congresso di Vienna (1815) a nessuno
passò in mente di riesumare i micro-stati di cent'anni prima. Altrettanto
accadde in Germania, passata comunque da quasi 400 “stati” ai soli 39 membri
della Confederazione, comprendente l'Austria. Però alcune marchiane dicotomie
sopravvissero. Agli occhi di Vienna, Venezia e Milano continuarono a rimanere
mondi diversi. Ancor più distanti furono Trento e Trieste. L'Emilia tornò a
contare i ducati di Modena e Reggio (asburgico), Parma e Piacenza (a noleggio:
prima a Maria Luisa, moglie subito consolabile di Napoleone relegato a
Sant'Elena) e le legazioni pontificie, da Bologna alle Romagne.
... al Regno d'Italia
Quell'assetto resse sino al 1859-1860 quando
in pochi mesi avvenne il miracolo: l'avvento del regno d'Italia con Vittorio
Emanuele II di Savoia re costituzionale. A differenza della Carta repubblicana
vigente, lo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Sardegna nel 1848 e divenuto
costituzione del nuovo Stato non conferì alcun potere antagonistico alle
amministrazioni locali. L'art. 74 lapidariamente recita: “Le istituzioni
comunali e provinciali e la circoscrizione dei comuni e delle province sono
regolati dalla legge”. L’organizzazione statuale sarebbe stata disciplinata dal
Parlamento. Senza mettere in discussione la “legge fondamentale, perpetua e
irrevocabile” dello Stato, a lungo venne proposto un ordinamento per
“compartimenti”, più o meno rispondenti alle “regioni” oggi esistenti. A
propugnarlo furono Marco Minghetti e altri liberali unitari erroneamente
classificati come “federalisti”, mentre erano solo bene intenzionati fautori di
un assetto amministrativo attento ad appianare gli squilibri esistenti, non a
favorire l'arroccamento su privilegi e a rialzare steccati nello Stato
unitario. È singolare che essi affollassero soprattutto la linea gotica, la
saldatura/cesura indicata da Giuseppe Galasso in l'“Italia come problema storiografico”,
volume introduttivo alla “Storia d'Italia” edita dalla Utet, contrapposta a
quella diretta da Ruggero Romano e Corrado Vivanti per la Einaudi e alla
“Storia sociale d'Italia” edita dalla Teti di Milano: grandi opere nate proprio
in risposta all'avvento delle regioni.
Perché l'Italia non ebbe un assetto regionale
Il regionalismo incappò in tre ostacoli
assolutamente insormontabili. In primo luogo il regno d'Italia faticò a
rendersi credibile dalle grandi potenze. Era preda di spinte sovversive. come
la spedizione garibaldina “Roma o Morte” del 1862, e tardò a essere
riconosciuto dalla Comunità internazionale. Solo nel 1867 sedette “alla pari”
in una conferenza diplomatica. Per anni, e non solo all'estero, in molti
avevano diffidato della sua tenuta. Era nato troppo in fretta. In secondo
luogo, per sette anni il regno dovette fare i conti con il “grande
brigantaggio”, recentemente esaltato da giornalisti spacciantisi per storici
quale guerra civile, come “resistenza” del Mezzogiorno contro il genocidio del
Sud. Libretti intitolati “Terroni” o “Carnefici” hanno montano grilli per la
testa non solo nel Mezzogiorno. In ogni regione una quota di laudatores
temporis acti ha “scoperto” i torti subiti dal Potere centrale e si è tuffata
nell'elogio del passato remoto (in realtà intriso di arretratezza,
sottosviluppo, miseria, malattie, analfabetismo...).
Anni e anni di menzogne hanno alimentato il
rivendicazionismo che nel marzo 2018 si è versato nelle urne, sette anni dopo
la “celebrazione” del 150° della nascita del Regno, “sentita” a Torino e a
Genova, imbandierate di tricolore, molto più che a Venezia e a sud della linea
gotica, in un'Italia culturalmente disarticolata. La terza palla al piede del
regno unitario fu la lacerazione tra i cattolici papisti e i cattolici
italiani. L'elogio di Pio IX (per ora solo beato) quale campione della fede
verace è certo legittimo dal punto della sua religione. Lo è molto meno sotto
il profilo storico, perché quel papa approfondì il solco tra la Chiesa
universale e i cattolici che si riconobbero nello Stato italiano, nelle sue
amministrazioni locali, nel progresso civile di un Paese ancora in tanta parte
arcaico, come documentano gli atti dei congressi degli scienziati e le
inchieste sui diversi ambiti della società e dell'economia.
Quella Nuova Italia aveva bisogno assoluto di
potere centrale per gettare i pilastri portanti dell'unità di un Paese per
secoli frantumato in staterelli ripiegati su sé medesimi in politica estera e
organizzazione militare. Essa puntò quindi sulla valorizzazione dell'unico
istituto rispondente alla storia: le province. Ogni Stato preunitario le aveva
e se ne era valso, perché esse rifrangevano la realtà. Erano organiche
soprattutto negli Stati meno attrezzati di infrastrutture e di istituti di
formazione. Era il caso del regno dei Borbone, che “al di qua del Faro” contava
su una sola Università, quella di Napoli.
Perciò il regno ridisegnò e intese le
“regioni” solo come “compartimenti”, per meri fini statistici, senza alcun
riconoscimento di potere politico-amministrativo. La loro definizione
geografica, tuttavia, non fu affatto irrilevante. Lo si vide quando, uscita di
minorità, l'Italia poté intraprendere con lena l'unificazione effettiva. Fu la
stagione delle “leggi speciali” varate dai governi di primo Novecento, da
Giuseppe Zanardelli a Giovanni Giolitti, a beneficio di Basilicata (per molti
era ancora Lucania), Calabria, Puglia, Sardegna... All'epoca la miseria, la
sottoalimentazione e le pandemie per denutrizione o suoi riflessi (la pellagra
o “mal della rosa”, la malaria, il “cretinismo”... ) affliggevano anche vaste
plaghe dell'Italia settentrionale, dalle valli alpine al Polesine. La
modernizzazione incontrava i maggiori ostacoli nel notabilato locale, arroccato
nella difesa di privilegi e di rendite di posizione, indifferente nei confronti
del “nuovo”, come deplorarono tanti meridionali (Giustino Fortunato, Antonio
Cefaly, Tommaso Senise, Pietro Rosano, Giuseppe Saredo,...) che non avevano
bisogno di proclamarsi meridionalisti. Si sentivano ed erano italiani, come il
fiore della cultura illuministica del Settecento decapitato e afforcato nel 1799 dall'ammiraglio inglese Horatio
Nelson in combutta con Ferdinando IV di Borbone, ripetutamente spergiuro e sua
moglie, Maria Carolina d'Asburgo.
Più senso dello Stato e più Europa
L'Italia aveva e ha bisogno non di “più
Stato” ma di una dirigenza e di cittadini con un più alto “senso dello Stato”:
sentimento razionale che conduce a porre l'interesse generale al di sopra del
particolare, nella consapevolezza che questo è meglio tutelato nell'ambito
dell'altro. Si vince e si perde tutti insieme. Non per caso i Paesi europei il
cui assetto economico-sociale risulta oggi più solido e trainante sono quelli
che da tempo hanno intrapreso la via della semplificazione amministrativa.
Valgono d'esempio Francia e Spagna. Parigi
ha ridotto a 7 le macroregioni (Alsazia, Aquitania, Alvernia, Borgogna,
Linguadoca, Nord e Normandia) puntando sui Dipartimenti e su ciò che avvicina
anziché su contrapposizioni arcaiche. Altrettanto ha fatto la Spagna, ove le
regioni davvero rilevanti sono una manciata (Andalusia, Aragona, Castiglia e
Leòn, Castiglia e la Mancha. Estremadura), altre sono retaggio del passato ma
territorialmente quasi irrilevanti (Asturie, Cantabria, Murcia, Navarra, Rioja,
la stessa Comunidad valenciana ,..). In quel quadro balza evidente l'anomalia
dell'indipendentismo repubblicano della Catalogna: non federalismo, ma
sovversione dello Stato, inconciliabile con l'Europa del Terzo millennio.
Ed è appunto con il quadro europeo che va
misurato ogni ragionamento sulle regioni d'Italia, sia quelle, ormai
antistoriche, a statuto speciale, sia quelle aspiranti alla “autonomia
potenziata”. Tutto è possibile, ma tenendo sotto gli occhi la classifica del
prodotto lordo delle province fornita da Eurostat. Lì si vede che anche le migliori
fra le italiane si piazzano dal 200° posto in poi, mentre molte ne affollano il
fondo. Qualunque accentuazione del divario tra le diverse aree avrebbe
ripercussioni di portata molto prevedibile: la deflagrazione del Paese. Orbene,
non è l'Europa a chiederci di rifare la linea gotica, di compromettere l'unità
nazionale faticosamente raggiunta dopo quindici secoli di dominio straniero e
di forsennate divisioni dell'“itala gente da le molte vite”. Semmai proprio
l'“Europa”, che ancora acquista immobili nell'Italia centro-meridionale e
imprese in quella settentrionale, ha interesse a relegarla in un passato remoto
di cui non si sente alcuna nostalgia. Va comunque esclusa qualsivoglia
tentazione di conferire alle regioni una sorta di “politica estera”, camuffata
da “relazioni internazionali dirette”. La sovranità è una sola: quella dello
Stato d'Italia. Chi la pensa diversamente vada a Redipuglia ad ascoltare la
voce che si leva dai centomila caduti lì sepolti, come negli altri Sacrari dei
caduti nella Grande guerra: “Presente!”. È l'invocazione che arriva dalla
pagina più dolorosa e più alta della storia d'Italia, il sacrificio di giovani
di tutte le classi sociali giunti “alla fronte” (come scriveva Luigi Cadorna)
da ogni provincia del Paese per coronare l'unità nazionale. A quel mònito anche
oggi l'Italia deve rispondere “Presente!”. Non per vuota retorica, ma per
rispetto di sé e della “pax in iure gentium”, interna e internazionale, che da
lì doveva e deve nascere nella Nuova Europa, simboleggiata anche dal sepolcro
di Federico II Staufen a Palermo, dalla statua di Carlo d'Angiò, scolpita da
Arnolfo da Cambio, dalla corona ferrea conservata nel Duomo di Monza,
dall'Emanuele Filiberto, Testa di ferro” che da Torino veglia non solo su
Piazza San Carlo, ma sull'Italia intera e, rivolto alle Alpi, insegna che da lì
non si passa più quali nemici. Si transita da fratelli, come Bernardo di
Chiaravalle,autore della Regola dei sempre attuali Cavalieri Templari.
venerdì 15 febbraio 2019
Sannio, i monarchici si riorganizzano: “L’Italia in crisi tra astensionismo e populismo”
http://www.ntr24.tv/2019/02/13/sannio-i-monarchici-si-riorganizzano-litalia-in-crisi-tra-astensionismo-e-populismo/
I monarchici sanniti si riorganizzano. Lo fanno stringendosi intorno ad “Italia Reale – Stella e Corona”, il movimento politico guidato al livello nazionale dall’avvocato Massimo Mallucci de Mulucci ieri in città per un incontro con gli attivisti locali. Secondo quanto riferito dal referente sannita, Vincenzo De Luca, sarebbero circa 200 i simpatizzanti nel Sannio e nei comuni irpini limitrofi.
Fondato nel 1972 come Alleanza Monarchica, oggi il partito si colloca sulle posizioni della destra tradizionale ed è sceso in campo anche nelle ultime elezioni politiche del 2018 nello schieramento “Blocco Nazionale per le Libertà”, presentando delle liste soltanto in Basilicata, Molise, Lazio1, Friuli e Lombardia2 raccogliendo alcune migliaia di voti. I riferimenti valoriali sono quelli della monarchia costituzionale parlamentare, espressione di Casa Savoia.
“L’obiettivo primario – ha spiegato il presidente nazionale – è quello di riorganizzare il movimento su tutto il territorio e ci stiamo muovendo in questa direzione”.
“L’Italia è un Paese distrutto dalla situazione politica e dalla crisi economica – ha commentato Mallucci -. Questa situazione non è più tollerabile e bisogna intervenire”. Il lavoro e il contrasto alla povertà è il primo punto del programma dei monarchici che rilanciano l’idea di una “destra popolare che sappia rivendicare le sovranità locali”. La forza dei territori d’Italia, secondo Italia Reale, passa attraverso l’istituzione familiare, comunale e provinciale in un crescendo naturale verso un ordinamento statale che si attento e rispettoso delle comunità valorizzando i singoli territori.
La situazione attuale, fatta di astensionismo e populismo secondo il movimento, rappresenta l’opposto del pensiero monarchico. Per questo la proposta è quella dell’elezione di un’Assemblea Costituente. Una richiesta che dovrebbe prevedere la revisione dell’articolo 139 della Costituzione che sancisce l’immutabilità della forma repubblicana.
“La volontà – ha concluso il presidente nazionale – è quella di mantenere viva, nei dibattito culturale e politico del Paese, una questione monarchica. Il Re non ha partito. Per sue natura è ai di sopra delle parti e per questo è il modello al quale guardare per rilanciare il Paese e riavvicinare i giovani alla politica”.
Invito al Circolo di Cultura e di Educazione Politica "REX" domenica 17 Febbraio
CIRCOLO DI CULTURA
E DI EDUCAZIONE POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale
della Capitale”
71° CICLO di CONFERENZE 2018-2019
***
"Mestieri che scompaiono, nuove professionalità, conquiste scientifiche, progressi o
regressi per l’uomo"
Su questi
temi parlerà
Domenica 17
febbraio alle ore 10.30
IL Professore
Avvocato EMMANUELE F.M. EMANUELE
"L’ INTELLIGENZA ARTIFICIALE
E LA ROBOTICA :IL
NUOVO MONDO CHE CI
ASPETTA"
***
Sala Italia presso
“Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldovrandi 16
(ingresso con le scale), o 16/B (ingresso con ascensore)
raggiungibile con
le linee tramviarie
“3” e “19”
ed autobus, “910”, ”223”,”52”
e “53”
***
Ingresso libero
mercoledì 13 febbraio 2019
FIUME ITALIANA PARADIGMA PER LA MEMORIA di Aldo A. Mola
Geografia e storia della sofferenza umana
“Il cielo stellato sopra di me, la legge morale
dentro di me”. È l'epitaffio di Immanuel Kant,
il filosofo della Ragione (1724-1804). Al tempo suo la superficie terrestre non
era ancora conosciuta nella sua interezza. Assetati di sapere e avidi di
possedere, gli europei si stavano
reciprocamente annientando in conflitti belluini, le guerre del 1792-1815 che
esportarono la Rivoluzione francese, con prodotti e sottoprodotti: non meno di cinque
milioni di morti per cause belliche. Ne pronunciò la condanna definitiva Lev
Tolstoj in Guerra e Pace.
Al Grande Architetto dell'Universo dobbiamo la
geografia. Gli ominidi, in gran parte tuttora primordiali, ne fanno scempio. È difficile dire se la sorte peggiore tocchi ai
popoli dai confini appariscenti (come i Pirenei e le Alpi, il canale della
Manica...) o a quelli senza un “limes” fissato nettamente dalla “natura”. Gli
uni e gli altri sono stati travolti da scorrerie, invasioni e dominazioni.
Chiusi nell'autocontemplazione del presente gli europei deplorano tragedie
recenti. Fanno bene, se però comprendono che queste sono l'epifenomeno di
millenni.
È bene ricordare. Ma va ricordato tutto,
non solo quanto di volta in volta vien comodo.
Forse la sorte peggiore è toccata nel tempo
alle genti comunque “di confine”. Con un'avvertenza, però: a segnare i confini
non sono solo terre, mari, monti e fiumi. Sono soprattutto gli uomini: gli
imperi, gli stati, i potentati, grandi o piccoli, con le loro articolazioni.
Sono le religioni ingessate in chiese (con i loro tribunali, le scomuniche, le
persecuzioni di eretici e non credenti), i fanatismi, le ideologie, l'anarchia
del potere finanziario, il terrorismo dalle “centrali” insondabili e dai
tentacoli occulti. Nulla è nuovo sotto il sole. Il sacro romano imperatore
affidò al banchiere Fuegger la vendita delle indulgenze che spostò il consenso
popolare dal Papato a Martin Lutero.
Fiume, emblema dell'Adriatico Amaro
Tristissima è la sorte di lande dai confini
apparentemente sin troppo precisi ma al tempo stesso incerti per la
conflittualità degli interessi che vi convergono. È il
caso dell'Adriatico Amaro. Per esempio di Fiume, oggi rigogliosa città della
Croazia. La sua vicenda è emblematica. Va ricordata con quella delle città
dalmatiche, dell'Istria e del Goriziano sottratte allo Stato d'Italia dal 1945:
una sanguinosa spoliazione, suggellata dal Trattato di pace del 10 febbraio
1947 e resa definitiva dall'intempestivo Trattato di Osimo del 1975, quando
ormai l'Unione Sovietica e l'usurpatrice Jugoslavia erano tarlate e condannate
dalla storia.
Sappiamo da decenni quali e quante atrocità
furono perpetrate ai danni degli italiani, sopraffatti da odio alimentato da
“razza”, lingua, classe, ideologia politica e dalla barbarie che impregnò un
conflitto enfiato da belluinità codificate con direttive politiche e militari.
ordini del giorno, circolari e misure sbrigative. La seconda guerra mondiale
registrò nella penisola balcanica alcune tra le sue pagine più allucinanti, con
rappresaglie spinte all'esecuzione di cinquanta “nemici” (popolazione civile)
per ogni militare abbattuto, spesso martirizzato con efferatezza spietata. Dal
maggio 1945 Fiume fu teatro di feroce pulizia etnica ai danni degli italiani.
Vennero trucidati fascisti, antifascisti, autonomisti, socialisti e comunisti
non graditi a Tito. Furono ammazzati o infoibati talora semivivi anche persone
senza alcuna opinione politica, solo perché italiani, solo per il piacere
sadico di umiliare e annientare. Previo stupro, nel caso di donne, di qualsiasi
età, vittime sacrificali come Norma Cossetto, il cui dramma è finalmente
approdato alla televisione pubblica con la proiezione di “Red Land. Rossi
Istria” del regista Maxilimiano Hernando Bruno. Era costume ancestrale. Quanto
avvenne nel 1943-1948 è orrendo, ma ancora peggiore fu la carneficina scatenata
in molte plaghe dell'ex Jugoslavia dopo il suo collasso, con la spettrale
“assistenza” dell'Europa occidentale, della Nato, dell'Onu. Le macerie sono
ancora lì. Non sempre nei muri, sempre nei cuori.
Un calvario di secoli
Fra le tante tragedie vissute nei secoli, forse
la peggiore per Fiume fu quella del 1509, quando venne saccheggiata per ordine
di Angelo Trevisan, doge di Venezia. La Serenissima non ne tollerava la
concorrenza. Più perdeva dominio nel Mediterraneo (Marcantonio Bragadin venne
vinto e suppliziato a Famagosta dai turchi sessant'anni dopo) più la Repubblica
del Maggior Consiglio si arroccava nell'Adriatico. Non era “Italia”. Era
Venezia. Non prestiamo al passato remoto “idee” e “sentimenti” dei secoli
successivi.
Dal 1779 “autonoma” con Maria Teresa d'Asburgo,
Fiume conobbe una prima prosperità come porto franco nell'ambito del Sacro
Romano Impero, che nel corso di un secolo, tra il 1728 e il 1803 la collegò al
retroterra con la strada “carolina” e con la via “ludoviciana”, a conferma di
quanto le infrastrutture, ieri come oggi, facciano bene all'umanità.
Dopo vicissitudini troppo aggrovigliate da
poter essere ripercorse in poche righe (l'occupazione napoleonica, la
restituzione all'Ungheria, sempre nel contesto dell'impero d'Austria,
l'irruzione dei croati nel 1848...), Fiume divenne approdo normale del traffico
dall'Europa centrale all'Adriatico. Ne scrisse a lungo Leo Valiani, che vi
nacque e bene ne conosceva la
complessità.
Porto fiorente dell'Europa centrale
Dopo il 1866-1870 (guerra italo-prussiana
contro l'impero d'Austria e annessione di Roma) l'Italia ebbe motivo di
imboccare una politica estera di raccoglimento. Persa l'ingombrante amicizia di
Napoleone III, essa aveva poco da attendersi
dalla Francia, sia conservatrice (e filoclericale) sia incline a esportare la
repubblica per indebolire gli Imperi centrali e i suoi sodali, inclusa l'Italia
inclusa dal 20 maggio 1882 alleata con Berlino e Vienna. Nel volgere di un
quarantennio, tra apertura del Canale di Suez (il cui
150° è passato inosservato nella miope
Italia) e colonizzazione accelerata degli
spazi afro-asiatici il commercio ebbe la meglio sulle ideologie politiche. Il
benessere normalizzava e univa. I contatti diretti tra ceti dirigenti culturali
e imprenditoriali relegò rapidamente ai margini le pulsioni nazionali e gli
irredentismi. Dalle relazioni pacifiche e dallo sviluppo all'interno dei
singoli Stati si poteva ottenere più che dalle tensioni ideologiche e dai miti
tardo romantici. L'incremento demografico ed economico della città di Fiume ne
fu esempio lampante. Dopo la costruzione di Porto Baross (dal nome del ministro
ungherese che lo volle) in pochi decenni la città liburnica divenne il 10°
porto d'Europa per volume e valore di merci che vi transitavano.
La politica estera italiana: di
Stato, non di governo
Nel 1910 Francesco Guicciardini, ministro degli
Esteri dell'ultimo effimero governo presieduto da Sidney Sonnino, dichiarò alla
Camera che ormai la politica estera dell'Italia non era solo “di governo” ma
“di Stato”: la fedeltà alle alleanze pattuite apriva spazio a iniziative
italo-centriche, accolte con benevola comprensione se non mettevano in
discussione i grandi equilibri e la pace europea. Fu il caso della guerra del
1911-1912 per la sovranità dell'Italia su Tripolitania e Cirenaica. Purtroppo
(a conferma dell'opacità degli studi storici nostrani) la serie dei Documenti
diplomatici italiani continua a mancare di volumi sugli anni “nevralgici”:
dalla crisi bosniaca all'incontro di Racconigi tra Vittorio Emanuele III e lo
zar Nicola II (24 ottobre 1909), osteggiata dai repubblicani. In quegli anni
anche nelle file dei nazionalisti italiani l'imperialismo prevalse
sull'irredentismo. Esso mirava a un governo più “forte”, all'incremento delle
armi, alla repressione dei nemici interni quale premessa indispensabile per
audaci ingrandimenti territoriali oltremare se non ai confini. Venne messa la
sordina alle rivendicazioni vent'anni prima campeggiate da Lemmi, Crispi e
Carducci: Trento, Trieste, Nizza, la Corsica e la perla italiana nel
Mediterraneo, Malta. Quel programma che avrebbe comportato tensioni e conflitti
non solo contro l'Austria di Francesco Giuseppe, l'“imperatore degli
impiccati”, ma anche contro Parigi e Londra. Una follia. Perciò la frangia
ideologicamente più attrezzata dei nazionalisti mirò semmai a duplicare in
Italia il modello tedesco: somma della casta aristocratico-militare prussiana
(o borussica, studiata a fondo da Sergio Pistone) e socialismo nazionale
bismarckiano, positivamente volgente dalla rivoluzione alla socialdemocrazia.
Imperialismo di coccio tra imperialismi di
acciaio
Quel realismo nel 1915 ispirò i compensi
elencati nel memorandum avanzato dal governo Salandra-Sonnino come
contropartita per l'adesione di Roma alla Triplice Intesa anglo-franco-russa.
Roma chiese il confine dal Brennero a Monte Nevoso, passando per Trieste e
l'Istria, approdi strategici e isole della costa dalmatica, ma non Fiume,
assegnata dall'articolo 5 dell'"engagement" di Londra alla Croazia, ai danni
dell'Ungheria, ma pur sempre nell'ambito dell'impero austro-ungarico che in
quel momento nessuno (men che meno Roma) metteva in discussione. La
dissoluzione della monarchia austro-ungarica non fu prospettata né dal
Congresso massonico parigino del 28-30 giugno 1917 (che propose l'indipendenza
della Polonia e della Boemia e la demarcazione sulla base di plebisciti dei
confini nelle zone mistilingue) né dai quattordici punti enunciati dal
presidente degli USA Wilson nel gennaio 1918, incardinati
sull'“autodeterminazione” dei popoli. Solo nella primavera di quell'anno si
aprì la gara fra gli imperialismi ai danni degli ormai probabili vinti. La
“liberazione dei popoli oppressi” evocata da Francesco Leoncini in “Alternativa
Mazziniana” (Ed. Castelvecchi) fu il paravento ideologico e sentimentale dietro
il quale si scatenarono gli appetiti di Parigi sull'Europa orientale e
balcanica e della Gran Bretagna nel Mediterraneo orientale profittando del
collasso della Russia e dell'impero turco. Da mezzo secolo l'obiettivo vero
erano il controllo degli Stretti, il libero accesso al Mar Nero e quella Crimea
che nel 1853-56 era stata teatro della guerra anglo-franco-turca con l'aggiunta
del regno di Sardegna contro la Russia zarista.
Nella fase terminale della Grande Guerra mutò
anche la prospettiva postbellica dell'Italia, a sua volta abbacinata dalla
talassocrazia. Per sostituire l'impero asburgico nel dominio sull'Adriatico
(come sin dal 1914-1915 ventilato da propositi riservatamente enunciati da
Paolo Thaon di Revel, futuro Duca del Mare) l'Italia doveva però entrare in
rotta di collisione con il nascente Stato serbo-croato-sloveno, che non si
affacciò affatto improvvisamente nel 1918 ma era in nuce dal patto di Corfù,
immediatamente seguente il citato congresso massonico di Parigi: un disegno
completato con l'invenzione della
Cecoslovacchia, che non nacque per partenogenesi ma fu preparata a tavolino
dalla somma tra Grande Oriente di Francia, Gran Loggia di Francia e Quai
d'Orsay, con il benestare di Londra.
Indebitata sino al collo per il costo della
guerra, squassata dal crollo del potere d'acquisto della moneta e dal dilagare
di movimenti repubblicani (quali furono, all'inizio, i mussoliniani Fasci di
combattimento) e dei socialrivoluzionari, infiltrati dai bolscevichi, l'Italia
non aveva i mezzi per sorreggere né macro né microimperialismo. Aveva assoluto
bisogno di stabilità ai confini e all'interno per passare dalla produzione di
guerra a quella di pace e riprendersi dal peso del conflitto. La pretesa di
ottenere comunque Fiume, agitata al congresso della pace di Parigi nella
primavera del 1919, alla vigilia e anche oltre la firma del Trattato di Pace
(28 giugno) fece figurare l'Italia quale capofila del revisionismo mentre erano
ancora aperte le trattative poi approdate alle paci di Saint-Germain (con l'Austria),
Trianon (Ungheria), Neuilly (Bulgaria) e Sèvres (Turchia).
Dall'impresa sediziosa di d'Annunzio
all'annessione all'Italia
La Marcia di Ronchi e l'irruzione di Gabriele
d'Annunzio in Fiume il 12 settembre 1919 palesò quella sedizione nell'Esercito
che era sempre stata scongiurata dal 1861 e nelle fasi più drammatiche della
Grande Guerra, quando il governo di Roma si spinse a organizzare una sorta di
guerra parallela in Albania, ruvidamente deprecata dal Comandante Supremo,
Luigi Cadorna, generale del Risorgimento, secondo il quale solo vincendo sul
Carso l'Italia avrebbe riconquistato la Libia e affermato ogni altra sua
legittima aspirazione.
La lunga impresa di d'Annunzio a Fiume,
inizialmente caldeggiata dal Grande Oriente d''Italia anche tramite Giacomo
Treves, fondatore della loggia “Oberdan” di Trieste e fiduciario di Domizio
Torrigiani, fu ora osteggiata e ora corteggiata dal presidente del Consiglio
Francesco Saverio Nitti. Venne chiusa dal suo successore, Giovanni Giolitti,
con i colloqui italo-jugoslavi di Pallanza e di Spa e con il trattato di
Rapallo del 12 novembre 1920, che costituì Fiume in Corpus Separatum,
territorialmente collegato con il regno d'Italia. L'8 settembre 1920 “Ariel” d'Annunzio aveva intanto proclamato la
Reggenza di Fiume, forte della Carta del Carnaro, frutto dei molti “fraterni”
suggerimenti di Alceste De Ambris: una forzatura destinata a risolversi
tragicamente, con la proclamazione dello stato di guerra (21 dicembre), il
governo provvisorio dell'altalenante Antonio Grossich, il cannoneggiamento del
Palazzo della Reggenza, la partenza del Vate e la vittoria dell'“autonomista”
Riccardo Zanetta alle elezioni comunali del 21 aprile 1921.
Le turbolente elezioni politiche del maggio
1921, quasi immediatamente seguite dalle dimissioni di Giolitti a cospetto di
una Camera politicamente caotica, riaprirono la partita sulla sorte di Fiume
sino al colpo di mano di fascisti, legionari e repubblicani (3 marzo 1922), la
rinuncia di Giovanni Giuriati a presiedere un comitato di difesa nazionale, la
convenzione di Santa Margherita (23 ottobre 1922: canto del cigno del governo
Facta, come documentato da GianPaolo Ferraioli) e, in un quadro completamente
diverso, il Patto di Roma che il 27 gennaio 1924 assegnò Fiume all'Italia e
Porto Baross alla Jugoslavia.
La tragedia del 1945
Quel caos prolungato giovò poco a Fiume, che
nel 1931 contava appena 3.000 abitanti in più rispetto al 1910. Alla sua
effettiva ripresa concorse la riapertura ai traffici con l'Europa centrale,
dettata dalla ritrovata armonia tra la geografia, la politica e la cultura.
Tra i suoi maggiori interpreti fu Riccardo
Gigante, podestà, senatore, prefetto della provincia di Fiume dal 21 settembre
al 29 ottobre 1943, proditoriamente sequestrato dall'Ozna (terroristi comunisti)
e assassinato il 4 maggio 1945: una delle tante, troppe nefandezze perpetrate
dal IX corpus di Tito, avanzante con il beneplacito degli inglesi e
tardivamente fermato dagli Stati Uniti
d'America.
Chi contempli dall'alto la tersa avvincente
costa liburnica vede un tratto di quella che Dante Alighieri definì l'“aiola
che ci fa tanto feroci” e bene comprende che per l'Italia odierna,
economicamente fragile, priva di coerente governo politico, sull'orlo di un
conflitto istituzionale senza precedenti e dagli sbocchi imprevedibili, l'unica
garanzia di progresso è la Pax Europea, contro fatui nazionalismi, salti
all'indietro, il ritorno alla “guerra per
bande” e al conflitto tra Stati, tutti comunque superatissimi e impotenti
dinnanzi alle vere sfide del Terzo Millennio.
Solo in quel contesto potranno essere
definitivamente ricucite le “lingue tagliate” e risorgeranno liberamente gli
“italiani dimenticati”, meritoriamente studiati e riproposti in opere
pionieristiche da Giulio Vignoli, Giuseppe Parlato e da Luciano Monzali,
finalista del Premio Acqui Storia che, su iniziativa del suo presidente,
Alessandra Terzolo, propone ad Acqui il Giorno
del Ricordo (10 febbraio, dalle 10 alle 17) su “d'Annunzio, uomo dai mille
volti” e su “Fiume attraverso secoli di occupazioni” con interventi di Marco
Cimmino e di Ruggero Bradicich.
Per non dimenticare e per far memoria, ma a
tutto tondo.
Aldo A. Mola
Iscriviti a:
Post (Atom)