NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 22 agosto 2013

«Via le bandiere rosse! » Una pagina di storia oscurata

Recensione tratta da "Il Borghese", anno XIII, numero 7, Luglio 2013

Il nuovo libro del giornalista e storico Luciano Garibaldi Gli eroi di Montecassino (Oscar Storia Mondadori, 178 pagine, I I euro), dedicato al 2° Corpo d'armata polacco del generale Anders, racconta una delle pagine più importanti della campagna d'Italia nella Seconda Guerra Mondiale. Una pagina, tuttavia, misconosciuta dalla storiografia ufficiale, e, leggendo la ricostruzione storica di Luciano Garibaldi, si può comprenderne il perché. Quegli oltre centomila eroi polacchi, infatti, si batterono sì, e vittoriosamente, contro i Tedeschi, ma continuando a pensare alla loro patria sottomessa e razziata dai bolscevichi e sognando di poterla liberare dalla schiavitù imposta da Stalin. Quasi tutti, infatti, avevano dovuto abbandonare case e averi nelle mani dei Russi, e non pochi avevano parenti e amici tra le schiere di ufficiali polacchi sterminati dai bolscevichi con il colpo alla nuca nelle foreste di Katyn. Ciò spiega benissimo perché, dopo la Liberazione, e per molti mesi, si verificarono durissimi scontri tra gli eroi di Montecassino e i partigiani comunisti che sfilavano per le strade con le bandiere rosse e la falce e martello. La sola vista di quelle bandiere rosse richiamava alla mente dei soldati polacchi il vile comportamento dell'Armata Rossa che aveva rifiutato di intervenire in aiuto degli insorti durante l'insurrezione di Varsavia, e, anzi, aveva fatto morire decine di aviatori polacchi impedendo loro di atterrare nelle zone da essi occupate. Ma ecco il racconto degli scontri tra i polacchi e i comunisti italiani.

[v.d.l.]

Il 14 maggio 1945, a San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno), i Polacchi sfondarono a calci la porta delle sede provvisoria dell'ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d'Italia) prendendo a pugni chi stava all'interno. Sei gion-ii dopo, a Mercato Saraceno (Forli), quattro militari polacchi su una jeep bloccarono un corteo di partigiani comunisti sequestrando le bandiere rosse. Ne nacque un conflitto a fuoco che si concluse con la morte del caporale Tadeus Suovik e il ferimento di altri due sottufficiali. Il 21 giugno, a Imola, dodici soldati polacchi fecero irruzione nella Casa del Popolo dopo aver intimato ai comunisti di ammainare la bandiera rossa: cinque comunisti finirono all'ospedale. Tre giorni dopo, a Lugo di Romagna, nel corso di una rissa presso la Casa del Partigiano, una pallottola uccise il sergente Stanislaw Polj. Il 5 agosto, a Potenza Picena (Macerata), nel corso di uno scontro a fuoco tra polacchi e comunisti, restarono sul terreno tre attivisti del PCI. Il Partito fece affiggere manifesti in tutte le città delle Marche con la scritta: «Polacchi assassini / tornate a casa!». I manifesti ebbero l'effetto di fare infuriare i Polacchi che, in quel bollente agosto 1945, assaltarono e devastarono numerose sezioni del PCI in tutte le Marche. Il settimanale del PCI Bandiera Rossa dell'8 settembre 1945 uscì con un titolo a tutta pagina: «Polacchi fascisti fuori dall'Italia! Il popolo è stanco di sopportarvi!». Nell'articolo, i soldati polacchi che erano venuti a morire per liberare l'Italia, venivano definiti «briganti mercenari» e accusati di avere compiuto «assassinii premeditati a scopo di rapina». Seguiva un'aperta sfida al governo: i Polacchi siano immediatamente cacciati dall'Italia perché «il popolo è stanco» ed è pronto a «stroncare qualsiasi tentativo di sopraffazione polacco-fascista». Il giornale era stato appena distribuito nelle edicole, quando, a Cusercoli di Forlì, un camion polacco cadde in un'imboscata comunista, un soldato fu ucciso a raffiche di mitra e due rimasero gravemente feriti.

(...) Non mancarono scontri tra militari polacchi e la polizia, nel cui Corpo erano stati collocati a migliaia, dopo il 25 aprile 1945, ex partigiani comunisti per dare loro un lavoro e uno stipendio. Di questa decisione, imposta dal Partito comunista e fatta propria dai governi democristiani, fecero le spese i giovani monarchici napoletani che, dopo il referendum del 2 giugno 1946 per decidere tra Monarchia e Repubblica, in segno di protesta contro i brogli operati nella consultazione, erano scesi in piazza improvvisando una manifestazione davanti alla federazione del Partito comunista di Napoli. Era I'11 giugno 1946. La polizia aprì il fuoco e nove dimostranti restarono sul terreno. In quelle giornate di fuoco, il Re Umberto Il fu sollecitato dai suoi più stretti collaboratori a ristabilire l'ordine ricorrendo alle maniere forti. I partiti filo-repubblicani, tra cui la Democrazia Cristiana, avevano attuato un vero e proprio colpo di Stato, nominando il leader cattolico Alcide De Gasperi «capo provvisorio dello Stato» in attesa della proclamazione ufficiale dei risultati della consultazione elettorale. Sarebbe bastato un ordine dei Re per mobilitare i pochi reparti dell'Esercito e l'Arma dei Carabinieri. Fu in quell'occasione, che il generale Anders offrì ad Umberto Il la piena disponibilità sua e dei suoi soldati per fare piazza pulita dei comunisti. Ma sta di fatto che non accadde nulla. «Non una goccia di sangue per me e la mia Casa», disse il Re ai suoi fedelissimi, accingendosi a partire per l'esilio in Portogallo.

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