Articolo di Giuseppe Lombardo, pubblicato sul suo blog, Controcorrente, il 28 Ottobre 2012, nell'anniversario della Marcia su Roma.
L'autore, cortesemente, ci autorizza alla ripubblicazione sul nostro blog e di questo lo ringraziamo vivamente oltre a fargli i nostri complimenti.
Come spesso accade, quando un opinionista si interessa di storia e pretende di scrivere tesi che abbiano una validità scientifica, sovente questi incede in giudizi che hanno una particolare peculiarità: quella di essere frutto di un’elaborazione molto parziale, di un conformismo asfissiante, di una sorta di cappa anacronistica che si rovescia, fra l'altro con costante puntualità, in una eterogenesi dei fini. Come era ampiamente prevedibile, in tale prospettiva è stata affrontata e rivisitata la ricorrenza storica dell'anniversario della marcia su Roma. Nel denunciare il “golpe autorizzato”, sulle colonne del Fatto Quotidiano, Angelo d’Orsi ha scritto: «L’ascesa al potere di Mussolini fu effetto non della capacità militare dei fascisti, quanto del tradimento dei suoi doveri costituzionali perpetrato dal capo dello Stato, il re Vittorio Emanuele III, complice l’inettitudine della classe politica, pronta all’abbraccio, rivelatosi poi mortale, con i fascisti, oppure convinta che si trattasse di un fenomeno transitorio e trascurabile. Fu dunque un atto eversivo, ma con il consenso dell’autorità, dai più alti gradi, fino alle sedi periferiche del potere civile e militare, largamente occupate dagli squadristi, senza incontrare resistenza» (Sabato 27 Ottobre, p. 22). Vero solo in parte. Tento di replicare sulle colonne di questo blog, nell’attesa che la grande stampa interpelli esimi ordinari di prestigiosi atenei, affinché possano portare un contributo al dibattito sicuramente più autorevole di quello espresso dal sottoscritto.
Le ragioni che hanno portato all’esilio del monarca, alla fine del secondo conflitto bellico mondiale, sono perlopiù legate all’epilogo della guerra, per l’appunto, e non, come spesso si sostiene, al ruolo e alla contiguità di Casa Savoia con il golpe mussoliniano. La genesi del fascismo ha una storia costituzionale profondamente diversa e parte dalla crisi degli strumenti di difesa dello Stato messi a disposizione dallo Statuto albertino. Facciamo un passo indietro e poniamoci un quesito: in quale clima Benito Mussolini organizzò la prova di forza delle camicie nere, prova di forza che avrebbe spianato la strada alla dittatura prima ed al Ventennio poi? Ebbene, all’alba dell’ottobre del 1922 tre questioni si presentavano all’ordine del giorno nell’agenda di governo: il caro pane, la questione adriatica di Fiume e della Dalmazia ed il rischio di un’incombente sedizione militare che cavalcasse il facile slogan della vittoria mutilata. Quest’ultimo punto, in particolare, suscitava il malumore ed i brontolii degli ex combattenti. A fronte dei paventati scioperi del biennio rosso, si diffuse sempre più una crescente preoccupazione fra gli industriali, gli agrari ed i ceti medi, una preoccupazione che poteva essere domata soltanto da un’energica direzione al governo dello Stato. Questo era un elemento riconosciuto dai quadri dirigenti dell’allora Parlamento e ciononostante nessun esponente politico di primo piano sembrava sfiorato dall’idea che fosse ormai giunto il momento di varare provvedimenti ad hoc.
Nel contesto di straordinaria difficoltà e di generale impasse innescata dalle dimissioni di Bonomi, Giolitti – eminenza grigia della politica italiana pre-fascista – suggerì per la guida del Gabinetto il nome di Luigi Facta, che coniugava una modestissima esperienza ministeriale con una riconosciuta incapacità politica. Posto alla guida di un esecutivo fragile, frazionato in molteplici componenti e da forze in antitesi fra loro, Facta non lesinò lusinghe al rampante Benito Mussolini, premendo insistentemente affinché potesse accettare la carica di Ministro degli Interni. Attorno al leader dei fasci di combattimento si era composto un composito accorpamento di tre gruppi sociali: gli ex combattenti, gli agitatori futuristi e i lettori “trasversali” del Popolo d’Italia. Ne sarebbe venuto fuori un movimento antipolitico di massa, ma forse sarebbe più corretto esprimersi secondo la dizione dell’antiparlamentarismo. In questo spazio quanti erano stati in trincea cercarono il sostegno per un difficile reinserimento nella vita civile di un paese ancora agricolo, che non prometteva loro nulla di buono, neanche il miraggio del riscatto sociale. Come ha giustamente sottolineato Roberto Martucci, questa enorme massa non poteva sentirsi rappresentata dalla vecchia classe dirigente liberale, responsabile di una guerra mai voluta e combattuta senza un fine.
Ora, sarebbe stato plausibile che il capo supremo delle forze armante, punto di riferimento dei combattenti smobilitati, prendesse posizione contro quella che per lui era l’Italia del Vittorio Veneto per togliere le castagne dal fuoco ad un ceto politico rivelatosi incapace? Di più: il futuro Duce, allorquando millantava un’efficiente organizzazione militare, utilizzava la retorica bellicista per trattare in segreto con Giolitti, Facta e Nitti, chiedendo dai quattro ai cinque portafogli ministeriali. Vittorio Emanuele III era a conoscenza degli scambi.
Perché allora il sovrano non firmò il decreto che avrebbe sancito lo Stato d’assedio ed avrebbe impedito all’Italia di cadere nelle mani di un governo autoritario e nazionalista? Innanzitutto lo Stato d’assedio rappresentava, a norma di Statuo, uno strumento d’intervento eccezionale, deciso dal Governo a tutela dell’ordine pubblico in situazioni di estrema emergenza. La dichiarazione implicava l’immediata nomina di generali quali Regi Commissari: essi sarebbero dovuti subentrare ai prefetti divenendo superiori nel rango ad ogni sindaco. Inoltre si sarebbe dovuta sospendere l’amministrazione della giustizia penale ordinaria, con divieto assoluto per l’Autorità giudiziaria di procedere nell’espletamento di qualunque atto, esautorata nelle proprie funzioni da appositi Tribunali militari. Questi avrebbero potuto ricorrere alle immediate fucilazioni qualora avessero avuto anche il vago sospetto di una minaccia posta all’ordine pubblico. I criteri erano decisamente elastici: la passata per le armi poteva essere sancita anche per quanti fossero stati trovati dalla forza pubblica in assenza di documenti d’identità personale in zone considerate pericolose. A corollario vi era la chiusura di scuole ed università, oltre la censura sulla stampa.
A questo punto è legittimo chiedersi: 1) perché Vittorio Emanuele avrebbe dovuto ricorrere a misure così onerose quando Benito Mussolini era considerato un papabile alleato di governo da parte di tutte le forze liberali presenti nel quadro sistemico? 2) Quale governo avrebbe dovuto gestire un simile scenario, posta la conclamata incapacità della classe dirigente nell’ordinaria amministrazione? 3) Come si sarebbe potuto poi arginare lo strapotere dei militari in seguito alla revoca dello Stato d’assedio?
http://giuslom.blogspot.it/2012/10/non-fu-una-marcia-dei-savoia.html
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