NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 22 dicembre 2012

Il Partito Nazionale Monarchico - XIV parte



FORZE CENTRIFUGHE E DEBOLEZZA CENTRIPETA

Nell'aprile del 1957 un intervento del Capo dello Stato presso i presidenti della Camera e del Senato relativamente alla elezione di membri dell'Alta Corte siciliana rivelò a molti italiani, che la ignoravano, l'esistenza di codesta Corte e la possibilità di conflitti ardui a risolversi tra essa e l'Alta Corte Costituzionale.

A facile immaginare cosa accadrebbe qualora l'autonomismo regionale venisse esteso a tutto il paese e avessimo, oltre a una ventina di parlamentini, altrettante Alte Corti regionali in perpetua collisione con la Corte Costituzionale, da cui il presidente on.le De Nicola volle in quello stesso torno di tempo separare il proprio destino.

A dimostrare negli artefici della Costituzione l'assenza di spirito nazionale basterebbe il progetto del regionalismo concepito dai democristiani in funzione di un federalismo neoguelfo abbandonato dallo stesso Gioberti che n'era stato il teorico, e favorito dai social comunisti fiduciosi di creare qua e là nel paese piccole repubbliche sovietiche e miranti alla disintegrazione dello Stato come preludio alla sovietizzazione totale.

Tutto era presente negli uomini della Costituente, salvo la nazione italiana, lo Stato unitario italiano. Mancava tra essi una Destra crede del Risorgimento e capace di difenderne l'opera. Nella preoccupazione (li garantirsi contro la possibilità di nuove dittature, si minavano a cuor leggero le stesse fondamenta dello Stato.


il regionalismo è una spada di Damocle che rimane sospesa sull'Italia, un pericolo che ci minaccia tutti ma del quale pochi fra noi si danno pensiero, perché la nuova classe di governo è riuscita a inoculare nel gran numero la sua stessa insensibilità per gli interessi generali e costanti del paese.

Dalla fine della guerra la nostra piú grave infermità risiede in ciò, che gli interessi particolari sono rumorosi e armati, gli interessi generali sono muti e inermi. Le ragioni del tutto operano sui singoli a lunga scadenza e indirettamente, non fruiscono di popolarità demagogiche, per riconoscerle occorrono preveggenza e senso di patriottica abnegazione, e all'infuori della Destra raramente esse trovano chi se ne faccia portavoce; le ragioni della parte sono stimoli immediati e diretti, ricchi di riflessi elettorali, e trovano nella Sinistra e nel Centro difensori a non finire.

Se è vero che la funzione sviluppa l'organo, dovremmo attendere una larga convergenza di opinione verso gli ideali di una Destra capace di assumere la continuità del moto risorgimentale come superamento dei particolarismi di ogni specie nel primato unitario della nazione.

Nel presente la deficienza d'intima coesione, che si estende a tutto l'organismo dalla base al vertice e rende evanescente lo Stato medesimo, deriva dalle particolari circostanze nelle quali presso di noi la libertà politica venne ripristinata dalle armi straniere, e dalla interpretazione che di essa, in conseguenza di ciò, è stata comunemente data come antitesi di disciplina civile e nazionale.

Il fascismo portava l'accento sui doveri del cittadino: nel radicale rovesciamento operato dalla sconfitta, la democrazia è stata intesa come un sistema nel quale per il cittadino non esistono più doveri ma soltanto diritti; e d'altronde la stessa parola dovere suona falso sulla bocca d'uomini che a quel rovescia

mento devono la loro ascesa al potere. Un sempre maggiore benessere (che è poi un "male essere" perché deserto di contenuto spirituale) è la meta a cui ciascuno ambisce di giungere in una perpetua tensione agonistica tra gruppi e attraverso il più spregiudicato impiego di scioperi ricattatori che sono delitti di sabotaggio contro l'economia nazionale.

Senso della misura, concordia civile, solidarietà nel sacrificio sono divenute formule risibili. Ognuno si sente principio e fine del divenire cosmico e pretende che l'universo ruoti intorno al suo ombelico personale o di gruppo, classe, partito.

Sta bene che democratico sia lo Stato che « serve il cittadino »: ma resta a vedere se codesto servizio debba estendersi anche agli egoismi del cittadino.

Il  ministro Tambroni il 26 settembre 1957 nella sua relazione parlamentare sul bilancio degli Interni scoperse che quello dello Stato democratico « non è soltanto un problema di vertice ma anche un problema di base. All'opera dello Stato - osservò il Ministro - occorre che faccia riscontro un'educazione sociale di sempre più alto livello, perché accade che ciascuno voglia lo Stato al servizio dei suoi particolarismi e dei suoi egoismi, si preoccupi soltanto delle proprie esigenze anche quando non costituiscono diritti tutelabili né interessi meritevoli di protezione.
E ciò avviene perché lontani dallo Stato, senza fiducia in esso, il cittadino o la categoria, invece di tendere a migliorarlo, tendono a deviarlo, sicché lo Stato, anziché punto d'incontro, diventa per tutti il punto dove i contrastanti interessi sembrano non trovare il necessario riconoscimento e coordinamento.
Ecco allora che ne derivano anche contrasti tra gli uomini singoli e le categorie, in gara tra loro, in lotta tra loro, dimentichi dell'interesse generale. Così nascono la ricerca del privilegio e il disordine sociale ».

Parole d'oro, anche se tardive, dalle quali discende che la nostra democrazia è, di fatto, l'hobbesiano bellum omnium contra omnes, se pur contenuto in forme approssimativamente civili, guerra a cui lo Stato assiste imparzialmente in attesa che i cittadini divengano onesti temperanti giusti generosi. A dodici anni dalla instaurazione del novus ordo si scopre che l'educazione sociale - e potremmo anche dire civile o nazionale - è una necessità; ma ove i governanti ne prendessero direttamente cura si cadrebbe nell'aborrito Stato etico, e al contrario l'agnosticismo democratico impone di attendere la spontanea conversione degli uomini alla virtù. Intanto, affinché essi fossero interamente liberi, si sono soppresse tutte le suggestioni alla virtù sperimentate e consacrate nel corso dei secoli, prima delle quali il patriottismo, che e sempre stato il più efficace antidoto dell'egoismo individuale.

Abolendo la Monarchia si è inferto un colpo mortale al patriottismo.

La nostra maggiore necessità è di consentire in ciò che noi italiani tutti abbiamo in comune: e in un paese di tradizioni particolaristiche e di recente formazione in Stato solo l'Istituto Monarchico ha questo potere di armonizzare la volontà almeno nelle'cose essenziali.

Patriottismo significa vigile senso degli interessi generali e costanti all'interno e all'estero e prontezza a subordinare a quelli i propri interessi personali o di categoria. Monarchia e patriottismo sono termini convergenti, nel senso che non si può essere monarchici senza essere patrioti e che se esistono patrioti non monarchici la loro posizione sorge da cause transeunti.

Siamo come il quadrante di una bussola smagnetizzata, ove ogni settore si considera il polo in quanto l'ago praticamente non esiste. Anche durante il Risorgimento avevamo i partiti: unitari e unionisti, federalisti neoguelfi e federalisti neoghibellini, moderati e partito d'azione, ma la bussola italiana aveva il suo ago calamitato che indicò a tutti la via da seguire per creare il nuovo Stato.

Il secondo Risorgimento non è quello vantato dai faziosi e fondato sull'equivoco di una libertà dei cittadini da conseguire a prezzo dell'indipendenza della Nazione: il secondo Risorgimento ha ancora da compiersi e non potrà attuarsi se non nel solco del primo.

Il principio monarchico può recare grandi benefici anche dopo le limitazioni che ha consentite, come l'oro d'un monile rimane oro anche nel suoi frammenti. Un presidente non possiede il potere unificatore e moderatore proprio d'un Re; la suprema autorità è una dimensione dello spirito che non può venire conferita da alcun atto elettorale, e al suo esercizio non esiste titolo più sicuro, più onesto, più convincente della eredità.

I mali di cui soffriamo erano prevedibili sin dal funesto 2 giugno; era prevedibile che, eliminati coli la Monarchia i sensi di italianità ch'essa racchiude, poco sarebbe rimasto, all'infuori della Chiesa da un lato e dell'aberrazione classista dall'altro, presso un popolo di scarsa coesione nazionale scarsamente dotato di socialità spontanea.

Dall'alba dei tempi le due forze a cui nulla resiste e sulle quali si fonda la carriera storica dei popoli sono la disciplina e la continuità. Alla prima noi non siamo ancora giunti, ci siamo dimostrati incapaci di disciplina spontanea e abbiamo eluso la disciplina coatta. Noi giochiamo ai quattro cantoni coi diritti, sicché il dovere resta sempre vacante, e il regime repubblicano, eldorado dei diritti, non avrà mai il proposito e l'energia di assumere la funzione educativa svolta in altri tempi e luoghi dalle monarchie unitarie e dalla quale altri popoli trassero una coesione molecolare capace di resistere ai più duri sforzi.

Posto che anche presso di noi, eterni ritardatari, una tale coesione sia possibile, non si vede da chi se non dal Re, personificazione della continuità storica e della unità territoriale, essa possa tentarsi.

Non messianismo e non miracolismo, ma un naturale argine contro le tendenze centrifughe, una subordinazione di interessi, una suggestione di solidarietà nazionale, una risorgente coscienza della nostra funzione in campo internazionale.

A chi dichiara che l'età delle nazioni è tramontata e proclama come nuova parola d'ordine l'Europa, bisogna ricordare che l'architetto per la struttura portante di un edificio impiega pietre sane e compatte e riserva le pietre facili a sfaldarsi a un ufficio marginale e decorativo. Un consolidamento dell'Italia non allontanerebbe l'auspicato europeismo e le darebbe in esso una efficienza altrimenti irrealizzabile.

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