SUGGESTIONI DELLA STORIA
Comprensibile che i francesi siano repubblicani. La Francia
da cinque secoli è una nazione, dal 1400 ha costituito, con la unità
territoriale entro le sue frontiere naturali, un governo centralizzato presente
in tutto il paese, e la sua gente possiede atavicamente un forte senso
nazionale e un orgoglioso attaccamento alla sua terra. Un popolo che ha
approfondito nella propria anima il principio unitario non ha più bisogno di
vederlo incarnato in una dinastia.
A partire dai Merovingi la monarchia durò in Francia
quattordici secoli, ma la monarchia « nazionale » cominciò con Luigi XI di
Valois che vinse le ultime resistenze del grande feudalesimo politico, e i
francesi vissero sino all'Ottocento, come nazione, con la monarchia; poi l'abbandonarono
quando sul loro suolo la nazione era una quercia plurisecolare.
Come l'acciaio sottoposto a una data tempera acquista una più
forte coesione molecolare, cosi un popolo passando nella sua interezza al
secolare vaglio della storia diventa nazione, acquista una più salda coesione
interna.
Anche i tedeschi non hanno bisogno della monarchia perché
nessun popolo è come essi penetrato di spirito nazionale. La parola che ricorre
più spesso nel loro linguaggio è «zusammen», insieme, stare insieme essere
uniti, essere compatti. Anche in Germania la nazione fu creata dalla monarchia,
dagli I Hohenzolern e mise tali radici che, dopo una sconfitta di portata
apocalittica, dopo la frattura del paese in
due tronconi, anche oggi nella Germania libera l'inno nazionale è «
DeutschIand úber alles », e tutti sappiamo come i tedeschi di - Bonn col loro
agire « zusammen », col loro operare solidalmente abbiano in pochi anni
riacquistato in Europa il primato economico a cui segue una crescente
quotazione nella politica internazionale.
Come in Francia e in Germania, cosi in Spagna, in
Inghilterra, in Olanda, nei paesi scandinavi, nell'Europa danubiana e
balcanica, in Polonia, in Russia, le nazioni furono create dalle monarchie tra
i secoli XV e XIX. Le monarchie diedero unità al territorio, unità al popolo,
elevarono il popolo a nazione educandolo al senso della disciplina collettiva e
della continuità storica, che sono i fondamenti della nazione.
Il sentimento monarchico preluse al sentimento nazionale, lo
sviluppò, lo fortificò.
In ogni grande regione geografica le popolazioni suddite di
uno stesso sovrano, gradualmente, nella comune devozione alla Corona si
compenetrarono d'una comunione di spiriti e di interessi, presero coscienza
della loro identità etnica, sentirono nella loro terra la loro patria,
appresero d'essere un popolo solo.
Più tardi, quando questa coscienza era in tutti consolidata,
nel secolo scorso o in questo secolo, i popoli estrosi come i francesi o
faziosi come gli spagnoli o politicamente arretrati come i russi, eliminarono
la monarchia quasi struttura ormai superflua, ciò ch'era vero nei riguardi
unitari come dimensione storica dinanzi all'estero, ma non era altrettanto vero
relativamente all'equilibrio interno.
In effetti nel corso dell'Ottocento la Francia ebbe tre
rivoluzioni, nel '30, nel '48, nel '70, e quindi le periodiche affaires -
Boulanger, Dreyfus, Caillaux, ecc. - che testimoniano la persistente crisi
politica di quel paese; la Spagna, liquidata la monarchia nel 1931, ebbe la
guerra civile e poi la dittatura, e quando finirà la dittatura possiamo essere
certi che, se non ripristinerà la monarchia, riavrà la guerra civile; la Russia
passò dall'autocrazia zarista al più tirannico regime che - con Stalin dio in
terra o despota sanguinario, la cosa non cambia - si sia mai veduto sulla
terra.
E’ interessante notare che proprio i popoli nei quali più
antichi e acquisiti sono cosi il sentimento nazionale come la moderazione
politica, e che perciò potrebbero senza danno rinunciare all'istituto monarchico
i popoli di natura più flemmatica e interessata e di tradizioni più liberali ed
evolute, inglesi, olandesi, scandinavi, sono quelli che più gelosamente
conservano le loro monarchie, secondo le forme fissate dal costituzionalismo, e
che rimangono più fermamente devoti alle loro Case regnanti. L'inno nazionale
degli ìnglesi è «God save the King», e accanto alle parole che invocano la
protezione di Dio sul Re essi hanno il motto «right or wrong my country» , ragione o torto la mia patria innanzi a
tutto. E in virtù di quel motto che il popolo britannico ebbe, dopo i Romani,
la più fortunata carriera storica che si conosca.
L'Italia giunse ultima all'unità nazionale. Dinanzi ai
quattro o cinque secoli degli altri grandi popoli europei, noi abbiamo, nel
1957, 87 anni di vita unitaria.
Una causa geografica di questo ritardo è la conformazione
della penisola, cause storiche furono le lunghe dominazioni straniere e il
fatto che sino al secolo XIX a noi mancò una monarchia abbastanza forte per assumere
il ruolo di eliminazione dei particolarismi regionali, che negli altri paesi le
monarchie avevano compiuto fin dai secoli XV e XVI. Anche in Italia vi furono
tra il 1300 e il 1400 tentativi unitari mossi a volta a volta dal Reame di Napoli,
dal Ducato di Milano e dalla Repubblica di Venezia, ma andarono falliti e, dopo
mezzo secolo di guerre, nel 1454 la pace di Lodi fissò la situazione
politico-territoriale che si conservò sostanzialmente sino al Risorgimento e
che, accanto a numerosi minori, comprendeva sette Stati principali: Repubblica
di Venezia, Ducato di Milano, Ducato di Savoia, Repubblica di Genova,
Granducato di Toscana, Stato Pontificio, Reame di Napoli.
La eliminazione di codesto frammentarismo operata dal
Risorgimento e la conseguente creazione dello Stato unitario fu un «miracolo»,
o almeno tale deve giudicarsi da chi guardi il passato con l'esperienza della
nostra generazione. Questo miracolo fu compiuto dalla Casa di Savoia.
La Monarchia sabauda non fu una occasione o un espediente, fu
la condizione insostituibile del riscatto nazionale. Il patriota napoletano
Luigi Settembrini scrisse: « L'esercito sardo è il filo di ferro che ha cucito
l'unità italiana ».
Occorre riflettere che noi non avevamo, all'infuori del campo
culturale, alcuna tradizione unitaria. Ferdinando II di Borbone diceva: «I
patrioti vogliono unire ciò che non è mai stato unito», e aveva ragione.
Soltanto nell'età romana la penisola era stata politicamente unita come parte
del più vasto organismo dell'Impero; nel secolo passato essa era politicamente
frazionata da 13 secoli, dal 568, anno dell'invasione dei Longobardi, e non
aveva se non tradizioni politiche regionali e municipali. L'unità italiana era
un dato puramente spirituale limitato alla lingua e alla cultura, era un ideale
invano predicato da un grande politico: Machiavelli, e da alcuni grandi poeti:
Dante nel medioevo, Alfieri e Foscolo nell'età moderna. La schiera dei
patrioti, come venivano chiamati i novatori che volevano fare della penisola la
patria di tutti gl'Italiani, cominciò a ingrossare soltanto nel 1848, allorché
il moto risorgimentale passò dal campo delle aspirazioni e dei conati
infruttuosi al campo delle realizzazioni concrete con la prima guerra
d'indipendenza, sostenuta dal piccolo Regno di Sardegna contro il potente
Impero Austriaco. Per la sproporzione delle forze la guerra ebbe un esito infausto
che fu scontato da Carlo Alberto, ma la sua morte ne consacrò il gesto ch'egli
aveva compiuto il 25 marzo al passaggio del Ticino sovrapponendo lo Scudo
sabaudo al Tricolore italiano.
Con quell'emblema la Dinastia diede all'Italia nel corso di
pochi decenni indipendenza dagli stranieri, unita territoriale, libertà
politica; la elevò al rango di Grande Potenza, ne raggiunse le frontiere
naturali, la integrò con le conquiste d'oltremare.
Ma noi abbiamo soltanto tre generazioni di vita unitaria,
breve periodo nel divenire di un popolo, e )punto nella gracilità del nostro
spirito nazionale, la scarsa coesione interna, nella deficienza di senso
storico risiedono le cause delle successive rovine abbattutesi sul paese. Noi
non abbiamo alcun motto e corrisponda al «right or wrong my country» degli
inglesi, al «gloire à notre France éternelle» dei francesi, al «DeutschIand
úber alles» dei tedeschi, e non abbiamo tali parole nel linguaggio perché non le
abbiamo nell'anima.
Sc esisteva in Europa un popolo che più di ogni altro aveva
bisogno per il proprio consolidamento morale e pratico di conservare il
principio unitario istituito dalla monarchia, questo è l'italiano. Se esisteva
una capitale che per essere sede del maggior potere religioso della terra aveva
necessità di tenere il potere civile con un istituto di antico prestigio,
questa è Roma. Dinanzi ai duemila anni del pontificato i mille anni della
Dinastia sabauda stabilivano un equilibrio.
Alla sommità di una collina sorgevano due grandi querce che
davano un profilo al paesaggio: una di esse è stata abbattuta, e
necessariamente l'altra attira gli sguardi, nella solitudine giganteggia più
che mai contro il cielo, dà un profilo all'orizzonte.
Dire che non occorre preoccuparsi di consolidare la nazione
perché ormai l'era delle nazioni è tramontata e bisogna guardare oltre, è un
discorso vacuo. Il solito paragone che sentiamo ripetere: «Come nel secolo
passato i vari Stati regionali italiani scomparvero per dar vita allo Stato
nazionale, cosi ora i vari Stati nazionali dell'Europa ecc.», è un paragone che
non calza. Richiamando in proposito un solo punto, nel secolo scorso gli abitanti
dei vari Stati italiani parlavano la stessa lingua e avevano interessi
convergenti; gli abitanti dei vari Stati europei parlano lingue diverse e hanno
interessi in gran parte divergenti. Hanno diversità di religione, di cultura, di
indole, di costume, di istituti, di
sviluppo storico, di livello civile.
Fare di essi un unico Stato è un ideale antico. L'europeismo
non è una novità e cominciò con Cario Magno.
Il tentativo di unificazione europea con la forza, compiuto
nel solco storico in cui si compirono le unificazioni nazionali, fallì con
Carlo V d'Asburgo, con Napoleone, con Hitler e speriamo fallisca col Soviet
Supremo.
L'unità europea consensuale - che ha essa pure antecedenti
secolari risalendo a Enrico IV dei Borboni di Francia - rimane anche oggi
un'aspirazione, un oggetto di conferenze, un'occasione di viaggi diplomatici.
All'atto pratico, salvo accordi internazionali più o meno estesi e impegnativi
quali vengono stipulati da secoli, ogni Stato conserva la propria personalità e
sovranità, ogni governo deve dipanare da solo le sue aggrovigliate matasse,
ogni popolo deve trovare nelle proprie energie e nel proprio territorio i mezzi
per nutrirsi, deve difendere da solo la sua moneta, valorizzare le sue capacità
e il suo lavoro dinanzi agli altri e in concorrenza con gli altri. In questo
travaglio un vigoroso sentimento nazionale, ossia la prontezza a sentire in
comune i problemi comuni, la vigile nozione degli interessi generali e costanti,
interni ed esterni del paese, è una necessità primordiale. A differenza della
povertà la ricchezza non conoscere frontiere; e la coesione interna, utile ai
ricchi, è indispensabile ai poveri.
Il patriottismo non è nulla di arbitrario e opinabile, è il
senso stesso della difesa collettiva, è l'articolazione intelligente e generosa
di ciascuno nel complesso sociale. Patriottismo è tolleranza, comprensione e amore
reciproco e dignità dinanzi agli stranieri, dare ai doveri sui diritti una
precedenza da cui derivano tutte le virtú spirituali e temporali. La presenza
di tedeschi, inglesi e americani in casa nostra negli anni sciagurati avrebbe
dovuto darci almeno una importante lezione, mostrandoci come essi, d'ogni
nazione, si vogliano bene tra loro e si sostengano a vicenda, mentre un motivo
della loro disistima per noi fu il toccare con mano la nostra palese e occulta dissunione,
fu il ricevere a quintali denunzie anonime rette da italiani ai comandi
tedeschi contro altri italiani accusati di antifascismo, e poi diretti da italiani
ai comandi inglesi e americani contro altri italiani accusati di fascismo. Essi
cestinavano quella spazzatura.
Oggi dobbiamo porci una precisa domanda: il Risorgimento è da
considerare un evento positivo della nostra storia o è da giudicare un errore?
Abbiamo noi o non abbiamo il diritto di divenire come gli altri popoli una
nazione? Ci siamo uniti per risolvere insieme i problemi che, separati, non
potevamo risolvere o per consumare le nostre energie nelle risse intestine? A
una risposta affermativa consegue la necessità di ristabilire il principio
unitario; se la risposta è negativa dobbiamo rallegrarci della repubblica.
La quale Repubblica non potrà essere che rossa o nera;
l'Italia non potrà divenire se non un paese satellite di Mosca, o un paese a
regime clericale che ripristinerà, salve le forme, il potere temporale, nella
soggezione al protettorato americano. E’ anche possibile una Repubblica nera
striata di rosso, un confessionalismo indirizzato a un bolscevismo sedicente
cristiano. Ma in gioco non è solo l'essenza dello Stato liberale o totalitario,
a economia privata o collettivizzata; in gioco non è soltanto la indipendenza a
cui abdichiamo o abdicheremo in favore di questo o quel Grande: in gioco è la
stessa unità. Il regionalismo esteso a tutto il paese segnerà le linee di
frattura prestabilita che al primo urto esterno lo ridurranno in pezzi.
Sino ad ora le regioni costituite in Ente, pur tra infinite
grane, conflitti di competenza, danno finanziario allo Stato, non hanno
visibilmente compromesso l'unità perché due sono isole, due sono zone
periferiche a contatto col corpo della penisola che conserva il suo ordinamento
tradizionale, e tutte e quattro dialogano solo con la burocrazia romana, la cui
tardità e pazienza serve da silenziatore alla petulanza indipendentista; ma
quando l'innovazione venga estesa a tutto,il territorio, quando ogni Regione
sia a diretto contatto d'altre Regioni e Roma interamente esautorata sia
sommersa dal coro delle proteste, si moltiplicheranno gli attriti, si
inaspriranno i particolarismi le gelosie le rivalse, e le difficoltà della
convivenza toccheranno i limiti della sopportabilità. Noi siamo ancora gli
italiani paragonati da Dante all'agnello « che lascia il latte - della sua
madre e semplice e lascivo - seco medesmo al suo piacer combatte ».
Il regionalismo
è desiderato dai comunisti perché contano di prevalere dove già hanno
l'amministrazione dei maggiori comuni, e ora essi chiedono anche la
soppressione dei prefetti perché il loro scopo è di disossare lo Stato. Su
questa rovinosa strada i democristiani seguono la Sinistra perché la loro unità
essi l'hanno nell'unità della Chiesa, perché non si curano dello Stato che non
«sentono» come non «sentono» la Nazione, perché sanno che tolto di mezzo il prefetto
non resterà nella provincia, anzi nella diocesi, altra autorità che il Vescovo.
La Repubblica creata dagli uomini che vollero e favorirono la
sconfitta, l'umiliazione, la retrocessione della Patria, è l'anti-risorgimento.
Essa è avviata a distruggere l'opera del Risorgimento. Perciò il suo avvento fu
salutato con gioia dai nemici e dai falsi amici esterni e interni dell'Italia.
Senza un rinsavimento dei molti che restituisca al paese il
suo centro di cristallizzazione, il suo principio di unità territoriale e di
continuità storica, il dissolvimento morale e materiale giungerà sino alle ultime
conseguenze: l'Italia rivestirà il costume di Arlecchino.
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