NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 6 novembre 2012

I diari segreti di Re Vittorio Emanuele III


Lasciò o non lasciò Vittorio Emanuele III scritti che per forma, contenuto, dimensione e destinazione è lecito classificare come diari e memorie? La questione è rimasta a lungo controversa. Nella seconda metà di agosto del 1946 Le Fìgaro annunciò con grande evidenza la pubblicazione di stralci tratti dalle memorie di Vittorio Emanuele, allora in esilio da quattro mesi ad Alessandria d'Egitto. Dall'Italia il generale Paolo Puntoni si affrettò a informare della cosa il re, di cui era stato aiutante di campo fino all'abdicazione, e ne ebbe a stretto giro di posta la seguente risposta: « Non ho scritto né dettato memorie. Non ho dato ad alcuno notizie di fatti passati. Fino ad oggi non sapevo dell'esistenza del giornale "Il Figaro" (sic!). Tanto ella può dire a chi vuole. Mi stupisco che qualcuno abbia potuto credere che le cosiddette memorie siano opera mia». Una smentita, dunque; ma una smentita chiaramente limitata alle memorie apocrife, tanto che lo stesso Puntoni, commentando l'episodio nel suo libro «Parla Vittorio Emanuele III», poté scrivere: «E' esatto che Vittorio Emanuele III, come ha ripetuto più volte, non tenne diari e non scrisse nulla fino al 1943. Le note che passano sotto il nome di "Memorie" e che sono un quadro panoramico della sua vita, il sovrano cominciò a raccoglierle a Brindisi e continuò a redigerle a Ravello, a Raito e a Posillipo. Quando partì per l'Egitto erano pressoché ultimate e infatti ad Alessandria si limitò a correggerle e ad aggiungervi qualche ritocco». Puntoni, in sostanza, ammette l'esistenza di documenti a carattere memorialistico mentre esclude, parrebbe su confidenze avute dal re, quella dei diari.

In netto contrasto con la sua tesi è quella di Umberto II che due anni dopo, nel 1948, dichiarò a Nino Bolla quanto segue: « Smentisco che esistano, come invece si è scritto, memorie vere e proprie di Vittorio Emanuele III. Esiste un diario degli avvenimenti, scrupolosissimo come date e persone, ma senza note particolari e  commenti speciali. Esistono documenti , lettere private. Con queste ultime, e con il diario, si potrebbe preparare un volume di grande interesse, ma è prematuro parlarne ». Nei quasi vent'anni che sono trascorsi da allora, dal « re di maggio » non sono venute che altre e più categoriche smentite. Ma è significativo che nel suo recente libro su Umberto, che è frutto anche di incontri diretti con l'erede di Vittorio Emanuele III, Silvio Bertoldi abbia trovato modo di scrivere di lui che «conserva gli appunti del diario paterno e probabilmente li riordina, anche se indulge al vezzo di negarne l'esistenza ».

Memoriale o diario, dunque? Come il lettore apprenderà dalle testimonianze raccolte in questa inchiesta, si deve credere che esistano sia le memorie che i diari di Vittorio Emanuele. Nel primo caso si tratta di qualcosa di più del vago «quadro panoramico» di cui parlava il generale Puntoni; nel secondo di qualcosa di meno di quanto sia giusto attendersi, pur sotto forma diaristica, da un sovrano che regnò nel secolo più tragico della sua millenaria dinastia e che tenne un regno segnato da cinque guerre, due delle quali mondiali. Nel primo caso Vittorio Emanuele III scrisse per la storia, per autodifendersi di fronte ad essa; nel secondo soltanto per sé, per uso di quotidiano promemoria. In realtà, non basta la destinazione contingente riservata da Vittorio Emanuele ai suoi appunti di ogni giorno a diminuire l'interesse storico dei diari rispetto a quello delle memorie. Un re, anche un re « borghese » come il penultimo Savoia non si serve della sua agenda per i conti della mensa reale. E se mai lo fa, lo fa sempre da re e anche questo serve alla storia, non foss'altro che per disporre di un ulteriore elemento di giudizio su di lui.

La prima testimonianza scritta sull'esistenza delle memorie dì Vittorio Emanuele risale al 1948 ed appartiene al barone Tito Torella di Romagnano, che condivise come ultimo aiutante di campo l'esilio egiziano dei vecchio re. Per venti mesi, tanti quanti ne trascorsero dall'abdicazione alla morte del sovrano, il gentiluomo gli fu quotidianamente vicino a Villa Iela, la residenza acquistata dagli ex reali in Alessandria d'Egitto dopo la prima provvisoria sistemazione offerta a Palazzo Antoniadis da re Faruk. Per il ruolo svolto a fianco di Vittorio Emanuele III e la frequenza dei contatti, semplificati e favoriti dall'assenza di etichette, ormai anacronistiche nella malinconica atmosfera di Villa Iela, Torella di Romagnano viene così ad offrirci una preziosa inoppugnabile testimonianza. Nel suo libro di ricordi «Villa Iela», ormai introvabile, i passi relativi alle memorie del re sono frequenti. Parlando delle abitudini quotidiane di Vittorio Emanuele III scrive: «Abituato ad alzarsi per tempo al mattino, il re si ritirava nel suo studio, sbrigava l'eventuale corrispondenza dava una scorsa ai giornali locali o a quelli che gli giungevano dall'Italia e attendeva al completamento delle sue memorie». A pagina 85 del libro citato l'argomento è trattato direttamente e vale la pena riportarne i passi che l'autore gli dedica.

«Sulle cosiddette "Memorie" di Vittorio Emanuele convergono oggi l'attenzione e l'aspettativa non solo degli Italiani, ma degli studiosi di politica e storia di ogni nazione. Generale è, infatti, l'interesse attribuito al loro contenuto, sia per l'importanza degli avvenimenti e per la statura degli uomini che ne sono stati protagonisti, sia, soprattutto, sapendo da quale penna sono state scritte, e, cioè, con quanta fedeltà ed esattezza storica. Esse, per quanto ho potuto capire, consistono in un quadro panoramico della sua vita in cui non trovano posto né accuse, né recriminazioni, né giustificazioni e discolpe del suo operato, le une e le altre piuttosto emergenti da un'esposizione circostanziata e documentata dei fatti... Le scriveva di suo pugno, su carta protocollo rigata, a foglio intero, e mai le lasciava sul tavolo quando usciva dal suo studio, tanto ne era geloso. Chiesi un giorno al sovrano perché non le pubblicasse, prospettandogli quanto interesse avrebbero suscitato in Italia ed i vantaggi che avrebbero potuto derivare alla causa monarchica quando fossero stati chiariti quei punti rimasti ancora oscuri ad una parte del popolo italiano su alcuni atti del suo regno. «Non è ancora il momento - mi rispose testualmente - e poi, solleverebbero una quantità di polemiche, poiché, senza volerlo, finirei per urtare troppa gente. Si saprà quando non ci sarò più.        
Vittorio Emanuele aveva anche l'abitudine di tenere un diario giornaliero. Quello del 1947 comincia così: Viva l'Italia!! Ora più che mai ». (Ne pubblichiamo la riproduzione autografa: n.d.r.).

Ma non meno importante è la testimonianza fornita da Alberto Bergamini, senatore del regno e insigne. giornalista, pubblicata nel 1950 in una minuscola ma succosa monografia dedicata a Vittorio Emanuele III. Ricordando una visita fatta al re a Posillipo nell'autunno 1945, l'autore scrive: « Con difficoltà non poca, anzi molta, ebbi e, per alcune ore, potei leggere questo diario che il re tolse da una cassaforte ove era custodito, salvo due fogli freschi riempiti al mattino, che erano sul tavolo. Il re mi lasciò solo nel suo studio a leggere... Quando si avvicinò l'ora della mia partenza egli tornò: diede uno sguardo ai fogli del diario che io avevo accumulato da una parte.
- Maestà, è un diario molto importante per la storia: chiarisce, rettifica, illumina; mette a posto varie cose male conosciute o sconosciute.
- Vedo che ha letto buona parte.
- No, appena un terzo. Ogni pagina fa meditare, si legge avidamente: spesso si rilegge. Maestà, sono come la lupa di Dante, ho "più fame che prìa".
- Ritorni e leggerà il resto ».
Bergamini, come si vede, parla esclusivamente e sempre di diario ma è ormai chiaro che i manoscritti che egli potè consultare a Posillipo per alcune ore si riferivano alle memorie vere e proprie, sia pure ancora incomplete. Dobbiamo questa certezza a Giorgio Pillon che nel 1960 riuscì ad avvicinare a più riprese il novantenne senatore e ad avere da lui confidenze sufficienti a corroborare queste tesi e anche a chiarire il genere di « difficoltà » incontrate da Bergamini per accedere alla lettura delle memorie. In più, Pillon poté apprendere dalla viva voce del senatore che anche Umberto di Savoia parlò delle memorie paterne con il senatore e fu, anzi, proprio l'allora Luogotenente del regno a suggerire a Bergamini di chiederne la lettura al re.
Nell'ottobre del 1945, racconta Giorgio Pillon (che premette di aver avuto dall'interessato l'autorizzazione a pubblicare il resoconto del colloquio) Alberto Bergamini dovette incontrarsi con Vittorio Emanuele III. Convocandolo, il Luogotenente gli aveva detto: « Mi spiace darle questo incomodo e mandarla fino a Napoli. Ma per lei non sarà una gita priva d'interesse. Si faccia mostrare da Sua Maestà le "memorie". Giunto a Napoli il senatore chiese al re: «So che Vostra Maestà ha un diario o un memoriale Potrei vederlo?». Il re fu sorpreso dalla domanda: «Diario? Memoriale?», esclamò. « Ma io non ho mai scritto nulla di simile ». Bergamini, vale la pena di notare, era allora direttore del Giornale d'Italia e re Vittorio aveva avuto più volte occasione di rimproverargli l'«eccessiva» curiosità professionale di alcuni suoi redattori per i personaggi di casa reale. A parte questo, la diffidenza era un'attitudine mentale caratteristica del re prima ancora che la vecchiaia e i rovesci della fortuna l'avessero esasperata al punto da indurlo a non fidarsi ormai più che di se stesso. La conversazione tra il senatore e Vittorio Emanuele proseguì toccando temi e personaggi diversi. Quando il discorso arrivò a Giolitti e all'interventismo e il re espresse dei giudizi precisi su quegli anni lontani, il vecchio giornalista tornò alla carica. «Giudizi come questi», commentò ad alta voce «sarebbero consacrati definitivamente alla storia il giorno che il re decidesse di rendere di pubblica ragione il diario». «Le assicuro, caro senatore», lo interruppe Vittorio Emanuele «che io non ho mai scritto diari». «Andammo avanti così», narra Bergamini, «poi io sparai l'ultima cartuccia: «Vostra Maestà mi perdoni, ma la notizia del diario io l'ho avuta dal Luogotenente». Questa volta il re non credette opportuno smentire. Si alzò, prese da una tasca posteriore un mazzo di chiavi, aprì il cassetto centrale della scrivania, tirò fuori un malloppo di carte e me lo porse dicendo: «Legga pure».

«Il re», conclude Bergamini «mi disse testualmente: «Desidero che questi miei scritti vengano pubblicati dieci anni dopo la mia morte ».

Si trattava di 180 fogli protocollo, scritti a mano, vergati con calligrafia nitida, grande, uguale, pieni di aggiunte. Qualche pagina era stata tagliata ora sopra ora sotto e unita a un'altra, e recava segni in rosso, blu e nero. Da quell'ottobre del 1945 al 28 dicembre 1947, data della sua morte, Vittorio Emanuele III ebbe a disposizione più di due anni per completare le sue memorie riordinarle, riempire con quella sua caratteristica grafia altri fogli protocollo (un migliaio circa, assicura Gaetano Scalici, che dovette trascriverli a macchina). E che si trattasse delle memorie e non dei diari è indubitabile anche se Alberto Bergamini (probabilmente indottovi dal criterio cronologico seguito dall'autore per dare organicità al suo scritto) ne parla nel suo libro come «diario». «Un diario», precisò tuttavia lui stesso a Pillon «che a poco a poco si trasforma in un memoriale».

In ogni caso, a fugare ogni possibile confusione sulla terminologia da usare per gli scritti lasciati da Vittorio Emanuele soccorre la testimonianza, fondamentale al riguardo, del succitato Gaetano Scalici, l'economo di Villa Iela che i sovrani vollero con sé in Egitto dopo che per oltre un quarantennio aveva svolto mansioni analoghe a Villa Savoia e nelle altre residenze reali in Italia. Scalici, insieme a Torella di Romagnano e a Bergamini, lesse i manoscritti reali ma meglio di loro, potè averli lungamente a disposizione e consultarli a suo piacimento. «Esistono le memorie ed esistono i diari del re», dichiarò nel 1959. «Le memorie autografe le ho battute io stesso a macchina su incarico di Vittorio Emanuele III in sei copie, che ora sono probabilmente custodite insieme all'originale presso banche straniere. Quanto ai diari, ne esiste un numero, che non saprei precisare, che copre un arco di tempo di 47 anni, dal 1900 al 1947». Sul contenuto delle memorie Gaetano Scalici si espresse affermando che «esse contengono l'autodifesa di Vittorio Emanuele III di fronte alla storia e la confutazione delle accuse che la stampa e gli storici gli hanno rivolto». Sui motivi della loro mancata pubblicazione ammise, invece, di avere soltanto «opinioni personali ma non dei fatti» e non ci autorizzò, comunque, a render note quelle che ci aveva confidato.

L'ultima e più recente testimonianza sugli scritti lasciati da Vittorio Emanuele III viene da Stefan Boideff, un ex-ufficiale della guardia di re Boris di Bulgaria che visse lungamente a contatto con i vari membri delle famiglie reali italiana, albanese, e bulgara negli anni dell'immediato dopoguerra in cui queste si ritrovarono contemporaneamente esuli in Egitto. Nel corso della minuziosa rievocazione di quel periodo fatta nel 1965 su Gente, Boideff tocca frequentemente l'argomento non solo confermando l'esistenza delle memorie ma mostrando soprattutto di conoscere le risposte mancanti ai due interrogativi cui nessuno dei personaggi sinora citati ha potuto o voluto rispondere: cioè chi custodisce ed ha la proprietà delle memorie del re, e perché queste sono ancora inedite. Riguardo al primo punto, Stefan Boìdeff è categorico. «In aggiunta», scrive «a quelle da me raccolte in Egitto durante l'esilio dei Savoia, altre testimonianze avute successivamente in Italia mi consentono di non avere dubbi sul nome della persona che custodisce il memoriale di Vittorio Emanuele III. Si tratta della figlia primogenita del re, Jolanda Calvi di Bergolo. Sul suo nome le mie informazioni hanno sempre coinciso. Discordano soltanto sulle circostanze di tempo e di luogo in cui la principessa Jolanda entrò in possesso del prezioso documento». Dopodiché egli rivela che a consegnare a Jolanda gli scritti paterni fu la regina, Elena di Montenegro, che avrebbe assolto a una specie di «legato orale» disposto in tal senso da Vittorio Emanuele III, il quale affidava alla primogenita, dice testualmente Boideff, «anche il compito di riordinare le memorie e di curarne la pubblicazione secondo le disposizioni contenute come premessa nel manoscritto stesso».

Sulle ragioni della sorprendente esclusione di Umberto II da questo «legato orale» Boideff adduce la versione «ufficiosa» dei Savoia e la sua personale opinione. Secondo i Savoia il motivo per cui Vittorio Emanuele III intese affidare le memorie alla figlia andrebbe ricercato nell'intenzione di scindere le sue responsabilità da quelle di Umberto di fronte all'opinione pubblica italiana. Nelle previsioni del re questo scopo sarebbe stato raggiungibile con la mediazione della figlia Jolanda, rimasta sempre estranea alle vicende del Paese, mentre sarebbe fallito rendendo noto il proprio pensiero politico in un memoriale affidato al successore legittimo e pubblicato a sua cura. In questo caso, la presenza del memoriale nelle mani di Umberto avrebbe accreditato il sospetto di una sostanziale identità dì vedute tra padre e figlio. «La spiegazione», commenta Boideff « è abile e ingenua al tempo stesso. Abile perché evita ogni allusione a quello che fu il vero motivo della scelta, vale a dire i cattivi rapporti che correvano tra Vittorio Emanuele III e Umberto II; ingenua perché, per sviare da questo argomento indubbiamente sgradevole, finisce per avallare un incauto ritratto del penultimo re d'Italia che vi s'intravede compromesso rassegnato e quasi reo confesso di fronte alle colpe attribuitegli dall'opinione pubblica».

Stefan Boideff ammette infine di ignorare le ragioni per cui, nonostante tutto, Jolanda Calvi di Bergolo non si è ancora decisa a dare alle stampe i manoscritti paterni. «Le disposizioni lasciate dal re circa la data di pubblicazione delle memorie» scrive, «non sono tassative ma lasciano un ampio margine alla loro interpretazione. torio Emanuele III ha infatti premesso nel manoscritto che è mio desiderio che esso veda la luce soltanto quando gli animi saranno pacificati e le passioni sopite. «Una formula», commenta l'ex-ufficiale della guardia reale bulgara, «che autorizza qualsiasi opinione sul maturarsi della condizione posta dal re come scadenza».

A chiusura di questa indagine possiamo e che l'opinione corrente nell'ambiente monarchico italiano induce a pensare che la pubblicazione delle famose memorie sia più prossima di quanto l'atteggiamento degli eredi Savoia non abbia lasciato modo di supporre finora. Gli entourages monarchici credono infatti di sapere che la pubblicazione, dello storico documento possa avvenire in coincidenza con il trasferimento delle spoglie mortali di Vittorio Emanuele III nel Pantheon di Roma. Una concessione, questa, che la Repubblica Italiana potrebbe fare senza correre, ormai, eccessivi rischi istituzionali.

RENATO BARNESCHI

Historia 1966

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